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Epilogo Mi svegliai. Ero ancora nel mio studio, sprofondato nell’unico conforto della mia esistenza grama: la poltrona in morbidissima pelle. Avevo sognato. Prima la signora in nero, poi mio padre, poi il Maestro suicida. Per fortuna, era finito tutto. Ed era ricominciata la routine. Tuttavia, quella morbidezza, pur artificiale, stavolta mi avvolgeva le spalle alla stregua di un abbraccio. Non recava calore, certo: soltanto solitudine e tristezza. E, tra le altre cose, sentivo un certo appetito. Di nuovo, mi sovvenne il sapore dei fagioli dolci: di taiyaki ne avrei mangiati a josa. Ricordai che c’era un chiosco, poco distante, in uno dei tanti anfratti tradizionali a ridosso dei palazzoni borghesi. Mi alzai quasi di scatto con l’intento di recarmici e di bere, dopo aver mangiato i biscotti, abbondante sakè. Sentii le rotelle stridere sulla moquette e la cosa mi diede quasi un senso di liberazione, come quando l’auto sgomma e s’avvia verso strade deserte, libere da ingorghi. Adoravo quella sensazione. Le scale. Le scale! Feci i gradini a due a due. Ottanta piani senza ascensore ed ero di nuovo fanciullo. “Corri, Masumi, corri!” La mamma mi sorride dal piano di sotto, bocca generosa e occhi stretti di giapponesina magra. Sta lavando il pavimento: non sono ancora il figlio di Eysuke, allora? Forse, non lo sarò mai: il professore, infatti, ha detto che ho un brillante futuro, davanti, anche se sono il figlio di una donna sola. “Quante scale di palazzoni dovrai ancora lavare, mamma?” “Quante credi ne servano per renderti l’uomo che meriti di diventare?” Occhi ancora più stretti, eloquenti. Lo so bene cosa intende: un figlio non chiede di venire al mondo. È il frutto della volontà di un uomo e di una donna. Il minimo che costoro possano fare per renderlo un individuo degno è dargli il meglio. Solo, non vorrei vedere la mamma così dimessa, con le ginocchia piegate da un lavoro che la vuole serva. “E tu, mamma?” le domando “Non meriti anche tu qualcosa di meglio?” “Io ho te.” Mi risponde “Sei tu il mio meglio.” La scena evaporò davanti ai miei occhi: ero nell’atrio freddo, dabbasso. Con la mente, percorrevo già la strada. Dal pensiero all’azione e la mia mano sollevava la tendina quadra del chiosco. “Buona sera, signore.” Una testa piccola e lucida si rivolse a me con un aperto sorriso. “Oh,” mi riconobbe “il piccolo Masumi! Non più tanto piccolo, certo…” E mi invitò con un cenno della mano a sedere per poi versarmi del sakè. “Lei aveva un chiosco davanti alla scuola elementare.” Mormorai stupito “Come ha fatto a riconoscermi dopo tanti anni?” Additò i capelli chiari e gli occhi azzurri, ma non lo ascoltai più. Da tempo, non avevo più provato un piacere così forte e intenso: il profumo di casa mi avvolgeva, mi confortava come nessun’altra cosa. Poi, l’uomo tacque, limitandosi a servirmi. Riaprì la bocca solo per chiedermi: “E quella ragazza? L’hai sposata, vero?” Di chi stava parlando? “Ma, sì,” continuò “quella piccoletta insolente cui hai regalato le caramelle il giorno della fiera al tempio…Come sai, sposto il chiosco lì una volta al mese.” “Lei sta bene.” Risposi con voce appena udibile “E gliela saluterò senz’altro.” “E’ una ragazza senza peli sulla lingua.” La lodò l’oste “Una così è da tenere cara: non sta con te per interesse.” Io annuì sopraffatto. “E se le dicessi che sta con un altro uomo?” mi accinsi a confessare poco dopo, lo sguardo basso sul bicchierino già vuoto. “E’ impossibile.” Ridacchiò l’uomo “Ti rispondeva a tono, ma si capiva lontano un miglio che amava te e solo te.” Un altro colpo inferto all’altezza del cuore. Deposi una banconota sul tavolo di legno e, dopo aver ringraziato, uscii. La nevicata continuava, abbondante, mentre incedevo sempre più a fatica lungo la viuzza per raggiungere la strada principale. E già il lampeggiare dell’albero di natale tornava a disturbarmi le pupille. Inquadrai la mia auto, nel posto riservato ai dirigenti e mi ci diressi. Un’ora dopo, era già aperta campagna. Pur nell’oscurità della notte, mi figuravo nitidamente i contorni degli abeti e i fianchi sensuali dei monti dalle vette aguzze come seni di adolescenti. E mi immaginavo lei, nei panni di Akoya, che sorride in modo incantevole. Come avrebbe reagito vedendomi lì, dopo tutto quel tempo? Io che, in tasca, recavo ancora la copia virtuale della lettera che non le avevo mai dato? “Buon natale, Hayami-san e bentornato a casa!” Ci sono storie che nascono per arrivare più o meno consapevolmente ad una conclusione. La consapevolezza non è per tutti e può succedere che, fino all’ultimo istante della vita, non si comprenda il senso di ciò che si è vissuto. Io sono nato per essere lì quel giorno, nella Valle. “Perché mi guardi così?” le domandai sfuggendo il suo sguardo. “Come ti guardo?” chiese lei, a sua volta, maliziosamente “Ti guardo come ti ho sempre guardato. I miei occhi non sono mai cambiati: da sempre, vanno in cerca di te.” Un altro colpo bene assestato al cuore. Mi sentii alla stregua di una donnicciola alle prime armi. Odiavo sentirmi così con lei: da sempre, riusciva a rivoltarmi come un calzino. “Non sei cresciuta affatto, chibi-chan.” Ammiccai sarcastico e, nel mentre, mi guardai intorno, in cerca di lui. Dov’era? Di solito, le stava dietro come un cane ammansito dal suo osso polposo. Lei comprese il mio pensiero in un lampo. “Sono sola, qui, oramai da tanto tempo.” Spiegò. Ma non era vero. Io sapevo che Sakurakoji recitava con lei, in quella sottospecie di bettola che chiamavano “Il nuovo teatro della Luna”. Perciò, finsi disprezzo, ma in realtà bramavo di abbracciarla e soffocarla coi baci mai dati. “Mi prendi in giro, chibi-chan?”domandai “Da quanto tempo hai preso l’abitudine di menare per il naso il prossimo. E me, soprattutto? Io ti ho sempre apprezzato per la tua onestà.” Lei mi sorrise dolcemente: “Non ha mai smesso di seguire i miei passi, è così? Nulla è cambiato, a dispetto del tempo andato e di tutto il resto…” “Non posso farne a meno.” Confessai tutto d’un fiato. “Fa parte di me. È il mio posto nel mondo: badare che nulla ti accada. In tutti questi anni, mi è bastato saperti al sicuro, seppur in mani d’altri.” “Quelle mani non sono mai state quelle di Sakurakoji.” Disse lei arrossendo “Abbiamo condiviso pensieri, ma mai sentimenti. Quelli, Hayami-san, erano rivolti a lei solo.” “Davvero?” Finsi di stupirmene, ma sapevo d’un tratto che non era così, che per tutto quel tempo io avevo atteso il tempo giusto. “Pensi sia stato necessario aspettare così a lungo?” le chiesi pur sapendo che la risposta era ovvia. “E’ il tempo giusto.” Mi lesse nel pensiero. “Cosa hai fatto per tutto questo tempo?” indugiai prendendole la mano. Camminavamo sotto i fiocchi di neve, addentrandoci piano lungo il sentiero boscoso. Era tutto rosa. Ed era la nostra vita. “Sai, Maya, ho fatto un sogno strano.” Confessai a bruciapelo “Ho visto la signora in nero, mio padre e Ichiren Oozachi.” “Sono stati i messaggeri.” Mi rispose sapientemente “Coloro che avevano il compito di ricondurti a casa.” Respirai a pieni polmoni l’aria intorno a me, sentendomi libero. Fine |