Anime Gemelle

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TOPIC_ICON12  view post Posted on 28/4/2017, 15:41
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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Dedicato a te.

Anime Gemelle

Le anime gemelle esistono.
Sono informi e senza ossa e, ciò nonostante, sono più avvinghiate che mai l’una all’altra. Non sono mai andata a piangere sulla tua tomba né ad aspergere l’acqua rituale per darti un ultimo saluto. Perché, comunque, so che ci sei. So che non ti sei mai allontanato da questo mio fianco ora un poco sghembo e cadente. Perché son vecchia d’improvviso e perché il dolore mi affloscia non poco. Il dolore che nasce dal sapere, ma non vedere più. E’ contraddittorio, lo so. Io ti sento accanto, ma mi angoscia il fatto di non potere stringere la tua mano. Materialmente, con questa fisicità che , oggi, ti è stata negata.
Ho pianto.
No. Più che piangere, ho urlato e bestemmiato, anche. Stupidamente, gli uomini bestemmiano, quando, invece, dovrebbero pregare con intensità maggiore coloro o colui che tutto può, se vuole. Anche risuscitare da morte. Non importa se subito o dopo due anni.
Io credo fortemente, adesso. Non dico che gli dei non sono perché tu non sei più.
Ma non accetto questo tuo essere ridotto in cenere. Intollerabile rimando a un Fato segnato dall’eternità e, ancora una volta, per un’altra vita ancora, incompiuto.
Eravamo più vicini che mai. Bastava tendere la mano. Io stavo per raggiungerti: negli occhi avevo la spiaggia e i granchi. Nelle orecchie, il rumore della risacca quieta. Mi figuravo la volta celeste.
Tu, ancora una volta, come hai fatto per sette lunghi anni, ti sei mosso per primo. Sei salito sulla tua auto fiammante: vedevi e sentivi le stesse mie cose. Ti figuravi la volta celeste.
Ma non sei mai giunto a destinazione.
E io, attraversando la strada qualche ora dopo, ho visto solo un cartoccio di lamiere.
Non avevano lasciato nulla, a parte ciò che rimaneva dell’auto: nulla di tuo. Io sono scesa col cuore in tumulto. Ho realizzato l’inaccettabile quando ho visto un petalo scarlatto sulla pelle dei resti di un sedile carbonizzato. Non era bruciato. Era più scarlatto che mai ed eccezionalmente vivo.
Mi son vista pendere da una corda, ma mi è toccato vivere per raccontarlo.

Capitolo Primo.


Vent’anni dopo e qualche anno di più di venti. La piccola attrice, ancora piccola di statura, s’è fatta più che adulta.
Ha guadagnato l’ambìto premio, ma a che prezzo? Il prezzo più alto, che è quello dell’assenza. Difficile filosofeggiare di anime gemelle, se la tua non è più. Ci vorrà un altro ciclo di vite per sperare nel ricongiungimento. Così, almeno, dicono i religiosi.
Cui credo relativamente.
Il Maestro, colui che, anni addietro, dette inizio a tutto questo, aveva in realtà preso una colossale cantonata. Né aveva tratto forma di consolazione alcuna dalle sue romantiche teorie.
Non ho creduto ad una sola parola pronunciata su quel palcoscenico. Non una.
Se ho vinto – se ho vinto qualcosa – lo debbo al dolore provato, al corredo di sentimenti lautamente dispensato dalla vita. Ed è la più infame delle promesse non mantenute.
Qualcuno ravvisa note beffarde sul mio volto attuale. Io penso di avercele già da quella sera.
Penso sia naturale, per una donna di quarant' anni e passa disconoscere il piacere per il piacere e ridere sapientemente delle credenze favoleggianti di taluni.
Oggi, io vivo di rendita. Non manco di sostanze e ciò aiuta a non mancare di null’altro. La materialità serve eccome, quando il terreno frana sotto i piedi: puoi usarne una parte per addolcirti l’esistenza. Poco importa se, a mancarti, è l’anima gemella.
Ieri, la mia segretaria mi ha chiesto se avessi bisogno di qualcosa: le ho risposto che no, non voglio proprio niente. Devo solo spingere la carretta e far tornare tutto nei ranghi, anche se “ieri” era vent’anni fa. Perché, di là degli anni trascorsi e dei conforti, il ricordo è ancora molesto, come il pensiero della promessa d’amore non mantenuta.

CONTINUA!...

 
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view post Posted on 29/4/2017, 15:42
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Capitolo secondo.



Sento bussare piano alla porta e tiro giù le gambe dal tavolo repentinamente per non farmi sorprendere in un atteggiamento non consono per la grande artista che rappresento.
E’ lei, Mitzuki, la donna che, anni fa, ha dato l’anima per lavorare al fianco di Masumi Hayami e, oggi, è al mio servizio. Da quella notte, per la precisione, io ho due persone su cui faccio totale affidamento: una di queste è lei. L’altro è Hijiri.
Sono i miei supermanager: gestiscono tutto ciò che gira attorno al business relativo al capolavoro scomparso. Il compito specifico di Saeko è quello di visionare copioni teatrali adeguati alla mia immagine di “interprete geniale”: sono sempre l’erede prediletta di Chigusa Tsukikage, in fondo. E mentre la mia storica rivale si è data al teatro alternativo, io vesto panni per lo più tradizionali, che non mi facciano distanziare troppo dalla maschera che, fino al momento in cui non troverò a mia volta un’altra erede, dovrò tenere ben ferma sul volto.
Il mio aspetto non è cambiato molto: certo, ora son diventata più smaliziata e ho una scintilla impertinente negli occhi. E’ come se vivessi per due, in fondo, dato che Masumi non è più al mondo. La scintilla negli occhi non pregiudica il mio carattere, che è rimasto quello di una ragazza semplice: è solo che, crescendo, son diventata un pelo più sicura di me stessa e di ciò che ho nel cuore.
“Che succede, signorina?” domando un po’ piccata. Me la figuravo con la tazza di caffè sul solito vassoietto d’argento e, invece, noto subito che non è sola. Dietro di lei c’è una sagoma maschile: un vestito scuro, non nero, due gambe lunghe, due spalle larghe. Troppo giovane per essere Hijiri.
“Se permette,” mi spiega la segretaria “vorrei presentarle colui che sostituirà Karato per circa sei mesi.”
Cerco di capire cosa sta succedendo: Hijiri che se ne va senza dare spiegazioni dirette a me? Dopo vent’anni di servizio continuato, si cerca un sostituto e me lo piazza alla porta?
Guardo Mitzuki biecamente, mentre il tipo fa un passo in avanti e si schiarisce la voce:
“Signora Kitajima, è un piacere fare la sua conoscenza. Mi chiamo Umibozu Ayakawa…”
Sciorina informazioni non richieste, che ascolto a malapena. Quanti anni avrà, questo strano individuo? Ha uno sguardo azzurro che inquieta e capelli lunghi sulle spalle.
“Appena uscito dall’asilo, mi pare di capire.” Ironizzo piuttosto scortesemente.
Egli stringe impercettibilmente gli occhi:
“Credevo che una persona come lei non fosse avvezza al giudizio. Non a quelli di natura anagrafica, per lo meno.”
“Certamente!” ridacchio “Del resto, la mia ombra scarlatta era ben nota per la sua propensione per le ragazzine più giovani.”
Era un commento indegno e lo sapevo: denigrare Masumi e il nostro amore di anime, però, era quanto mi consentiva di sopravvivere al meglio da quella sera.
Ribadisce ancora di essersi laureato non so dove, non so con quale tesi.
Non mi frega nulla di ciò che dice e vorrei lo comprendesse. Forse, lo capisce, ma, da top manager qual è, sa benissimo di dover tentare la carta della perseveranza per poter ottenere il posto.
Mi previene mentre sto per palesare questo pensiero:
“Non ho alcun motivo di farmi pubblicità. Il mio ruolo alla Compagnia Tsukikage non è in discussione. Sono stato assunto regolarmente: ho firmato poc’anzi.”
“Il signor Hijiri” sottoscrive Mitzuki con la pedanteria che le è consueta “è stato fermissimo, a riguardo. Umibozu è già, di fatto, il suo nuovo manager e non solo subentra a Karato, ma anche a me medesima.”
Sta sorridendo!
Impercettibilmente, ma sta sorridendo!
Mitzuki sta prendendomi in giro.
“Lei somiglia sempre più al signor Masumi, lo sa?”
“E’ un complimento, suppongo.” Dico un po’ rigida.
“Certamente.” Sottoscrive la donna mentendo spudoratamente.
“Vorrei sapere, almeno,” aggiungo dominandomi a stento “a cosa debbo questo abbandono in massa.”
“Nessun abbandono.” Dice Saeko repentina “Noi resteremo alla compagnia: semplicemente, io e Karato abbiamo ritenuto opportuno svecchiare la vecchia amministrazione. Il signor Umibozu ha svolto alcuni masters dedicati ed è un fine conoscitore di manoscritti teatrali ancora pressoché sconosciuti.”
“Potrebbero” si intromette educatamente il nuovo arrivato “segnare un nuovo corso. Gli inediti del Maestro Oozachi, di cui Tsukikage sensei e lei, oggi, siete eredi, costituiscono un capolavoro a sé.”
“Ne ho già sentito parlare a josa.” Quasi sbotto “Ma sono solo tracce: Oozachi non ha mai scritto copioni teatrali. I suoi diari sono troppo confusi per poterne trarre qualcosa di organico.”
Chi sono costoro? Chi è costui? Penso tra me. Come osano parlare di cose che non hanno per loro importanza alcuna: io ho letto quei diari, quand’ero nella Valle. Non hanno nulla di rivoluzionario, sotto il profilo artistico.
“State cercando di dirmi che La Dèa Scarlatta è passata di moda? Ma che cosa volete?”
Faccio cenno a quell’…umicoso di uscire dal mio ufficio, ordine che lui accetta con riluttanza. È stato bene addestrato: sa che Maya Kitajima non accetta i diktat di nessuno, a parte quelli che lei medesima si dà. Resto solo con la mia segretaria o con quella che lo era fino a due secondi fa.
“Dove diavolo è finito Hijiri? Che cos’è questa storia?”
“Il signor Umibozu” mi spiega lei abbassando i toni “ha un curriculum eccellente. La sua tesi in drammaturgia…”
“Credevo avessi detto che era laureato in economia!” l’interrompo scocciata.
“Maya, ascolta.” mi dice con ferma dolcezza “Io sono troppo vecchia e manco di idee. Questo ragazzo, se ne leggi il curriculum, è un luminare nel settore. Ha due lauree. Ha scoperto dei manoscritti segreti e…una sorta di seguito de La Dèa Scarlatta.”
“Un …seguito?” ripeto “Che accidenti stai dicendo? Io vivo in quella casa sei mesi all’anno e non ho mai trovato manoscritti di tal fatta!”
“Non si tratta di materiale rinvenuto nel vecchio tempio dedicato alla dèa, Maya.” Precisa Mitzuki “Era nella casa di Izu, in una cassaforte segreta. Da quando l’edificio è stato trasformato in biblioteca e osservatorio, parecchi giovani studenti vengono a consultare la ricca collezione di testi lì presente.”
“E, secondo te, se Masumi avesse avuto qualcosa del genere in saccoccia, non ne avrebbe fatto parte con me o con la sensei Tsukikage?”
“Il signor Masumi, purtroppo, è deceduto prima che potesse rivelare a chicchessia questa rivoluzionaria scoperta. E Umibozu ha contattato il signor Hijiri per comunicargli l’eccezionale scoperta, avvenuta, a quanto pare, in modo del tutto casuale.”
“Adesso tu ti siedi e mi racconti tutto dall’inizio. Tutto, hai capito?”
L’ordine fu perentorio e, per la prima volta dacché la conosco, ho visto Mitzuki abbassare un poco il capo in segno di obbedienza.

CONTINUA!...

 
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view post Posted on 1/5/2017, 15:40
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Capitolo terzo.



Ventiquattro anni.
Leggo sul fascicolo dalla classica copertina gialla, quella destinata ad essere archiviata nei raccoglitori di metallo che piacciono alla mia solerte segretaria.
O, forse, dovrei dire ex-segretaria.
Quando io calcavo le scene, nel pieno del mio vigore giovanile, lui, tale Umibozu Ayakawa, veniva al mondo.
“Non è stata una vita semplice come parrebbe.” Mi dice prima che io possa leggere oltre “Indubbiamente, la sua è un’ottima famiglia: il padre è avvocato e la madre si è occupata di lui fino a che non è stato autonomo. Lei è venuta a mancare l’anno scorso, a causa di un brutto male. Il babbo, invece, esercita ancora. E’ ancora giovane: sui sessanta, credo. Forse non lo sai, ma è stato uno dei legali della Daito Art Productions, ai tempi della direzione di Eysuke Hayami.”
Come faccio a saperlo? Quel nome, Hayakawa, mi è del tutto sconosciuto.
“Vai avanti.” Le dico con malagrazia “Sai benissimo che odo queste cose per la prima volta.”
“Il ragazzo era un promettente atleta, ma un problema cardiaco lo ha tenuto lontano dal professionismo.” Racconta lei guardandomi da dietro le lenti ambrate “Così, si è dedicato agli studi. Inizialmente, aveva vinto una borsa di studio per Giurisprudenza, ma poi ha scelto Economia e, subito dopo, Drammaturgia. Della tesi di quest’ultima laurea, già sai.”
“Spiegami come è arrivato qui, a ricoprire non uno, ma ben due ruoli: quello tuo e persino quello di Hijiri.”
“Karato” continua Mitzuki “lo ha conosciuto un paio di mesi fa mentre si trovava alla Biblioteca di Izu per un seminario su Oozachi: si trattava di un corso destinato agli studenti laureandi del corso di Drammaturgia. Il direttore gli ha raccontato della sua eccezionale scoperta…”
“E’ mai possibile” domando perplessa “che, in tutti questi anni, nessuno abbia mai avuto la tentazione di aprire quella cassaforte? Chi è il direttore in questione? Di certo, un incompetente…”
Saeko scuote la testa. Si leva per dirigersi alla macchinetta del caffè.
Mentre armeggia, continua a parlare e, mano a mano, il suo tono si fa più grave.
“Ovviamente, nessuno di noi era a conoscenza dell’esistenza di questa cassaforte.” Afferma “Il ragazzo ha frequentato la biblioteca ogni giorno per consultare i manoscritti portati lì da Nara e redigere una tesi di laurea sperimentale. Un giorno, a quanto pare, mentre cercava nell’ala privata, quella intitolata al signor Masumi, ha visto un’apertura. Incredibilmente sfuggita a chi aveva lavorato sulla struttura per renderla pubblica.”
“Una cosa che ha dell’incredibile.” Ironizzo.
“Tra la porta e la grande libreria,” riprende la segretaria “c’era una piccola manopola. Troppo piccola per poter essere notata.”
“E’ impossibile!” sbotto “I lavori di intonaco e stuccatura delle pareti sono stati svolti dai migliori imbianchini del circondario! Come non accorgersi di una serratura di tal fatta?”
“Non lo so, Maya. Sto semplicemente raccontandoti come sono andate le cose.” Mi risponde Mitzuki.
“Non ne sono convinta.” Biascico “E se fosse tutto un imbroglio di quell’Umibozu?”
“Un imbroglio?” ripete “A che pro?”
“Non lo so! Un imbroglio, qualche espediente per mettere le mani su ciò che appartiene a me e a Masumi, magari! E quel fantoccio è già arrivato a mèta, se è riuscito a prendere il posto tuo e di Hijiri!”
“Maya, siamo stati noi a decidere in questo senso.” Dice Saeko stringendo le labbra “Ti prego di non partire prevenuta. Ascolta ciò che Umibozu ha da dirti e sono certa che converrai con me sulla giustezza delle scelte compiute.”
Mi alzo dalla poltrona e raggiungo la grande vetrata dietro di me. Sento i piedi affondare nella moquette Anni Settanta che tanto piaceva a Masumi e provo una stretta al cuore. Già non ero d’accordo sul fatto che la casa – quella casa – venisse trasformata in una Biblioteca pubblica: ora, addirittura, c’era chi aveva il permesso di violarne i segreti. Non ero, del resto, neppure certa che Masumi – il mio Masumi – desiderasse rendere nota quella scoperta. E, ora, è arrivato questo ragazzino pluridotato e ci ha scritto su una tesi di laurea sperimentale! Un documento destinato alla pubblicazione senza il mio consenso!
È davvero inaudito.
“Maya, non è reato scartabellare in biblioteca, come non lo è neppure scoprire un passaggio segreto o…un reperto archeologico. Succede e basta!”
“Sì, ho capito!” ribatto “Ma è tutto quel che è accaduto dopo a lasciarmi sconvolta. Senza contare il fatto che quel ragazzo, Umibozu, pare di un presuntuoso pazzesco.”
“Sei partita prevenuta tu.” Mastica la segretaria.
È del tutto inutile: non riesce a capire che le rivoluzioni copernicane sono stravolgimenti in piena regola. Non si può urlare al mondo che è la terra a girare intorno al sole, dopo secoli di scienza che imponevano il contrario!
“Basta. Te ne prego, ora lasciami sola. Sono davvero stufa di sentire la tua voce.” Dico arrabbiatissima.
“Farò come dici.” Ridacchia piano “Credo tu sia molto curiosa, ora, di leggere quel fascicolo.”
 
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view post Posted on 2/5/2017, 15:17
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Capitolo quarto.



Ho raggiunto la stazione centrale.
La macchina aziendale ha raggiunto lo scalo alle dieci in punto, appena in tempo per prendere l’ultimo treno della notte.
Voglio stare da sola. Voglio tornare a Izu senza avvertire nessuno. Voglio visionare quei dannati manoscritti e capire.
Mitzuki ha parlato di un ideale prosieguo del capolavoro scomparso. Vaneggiamenti, io penso!
Mi son portata dietro il fascicolo di Umibozu Ayakawa. Già so, però, che non ne leggerò neppure una riga. Già so che rifiuto di averlo come segretario o consigliere o altro.
Attraverso le campagne nella notte, su queste rotaie così lisce da tracciare, nella mia mente, traiettorie aeree.
È un rollercoaster dei pensieri. Lunghi vent’anni, sì.
Che a questo ragazzino sia stato concesso di scartabellare nel mondo mio e di Masumi è scandaloso. Che abbia creduto di trovare qualcosa di rilevante – lui che nulla sa! – lo è altrettanto. Come può conoscere in dieci secondi quel che io ho appreso in una vita?
La sua età mi scandalizza, mi ripugna.
Piccolo, sciocco, saccente presuntuoso.
Cosa sa lui di amore di anime?
Mentre penso questo, contraddicendo il proposito iniziale, finisco per aprire il fascicolo a lui dedicato.
L’incipit della sua tesi di laurea è la celeberrima frase del Maestro Oozachi:

“Non esistono età, aspetto, rango
Per le due anime che s’amano.”



Ancora fastidio.
Inarrestabile quanto la nausea che mi opprime dalla sera in cui ho perso Masumi.
Guardo fuori dal finestrino, dove tutto è nero, intervallato ogni tanto da luci artificiali.
È impossibile, per me, cacciare indietro i pensieri molesti.
E’ incredibile come rabbia e tristezza fagocitino ogni istinto di bene, ogni propendere positivo verso qualcosa o qualcuno.
Ancora non pondero razionalmente ciò che potrebbe avere spinto Mitzuki e Hijiri ad abbandonarmi per favorire questo perfetto sconosciuto. Non possono desiderare davvero la fine della mia carriera.
Non loro.
La carrozza su cui viaggio è silenziosa, deserta. È una sensazione deliziosa: è una sorta di viaggio nella mia solitudine.
Vado alla ricerca di un senso da attribuire al mio me.
Non c’è giorno, Masumi, in cui non mi domando dove tu sia. In quale anfratto? Sotto quale forma vivente? Se davvero le anime gemelle esistono, come prescinderne?
Venti anni.
Rivivo quel giorno, ossessivamente, ad ogni sorgere del giorno. Vedo l’immagine tua farsi evanescente: ti stringo tra le braccia, ma scivoli via perché, ormai, non appartieni a questa dimensione. Ti invoco appellandoti Isshin e fingendo io stessa di essere chissà quale miracolosa dèa.
Ma non c’è né c’è stato alcun miracolo.
Masumi, io ti stavo abbracciando e con me, tutte le potenze angeliche che presiedono all’amore. Non è stato sufficiente e, da allora, vago alla ricerca di te.
Quanto mi pare lunga – e amara! – l’attesa.
Le giornate, già monotone, si fanno infinite, all’appropinquarsi della vecchiaia.
Mi ricordo all’improvviso della data. Oggi è il mio compleanno: oggi compio 42 anni.
Sospiro profondamente e appoggio la schiena al sedile morbido.
Mi trasmette calore, mi avvolge.
Viaggiare in prima classe è uno di quei privilegi per cui val la pena essere benestanti.
Realizzare d’essere mentalmente soli, però, non corrisponde sempre alla realtà vissuta.
Così, ciò che è molesto può palesarsi davanti a te quando meno te lo aspetti.
“Non ci posso credere.” Dico a labbra serrate.
Lui è lì.
Umibozu è seduto qualche posto avanti al mito, lato corridoio come me e sta guardandomi.
“Buonasera, signorina Kitajima.”
Signorina.
Sarà anche un luminare in studi oozachiani e in economia, ma non dimostra alcuna conoscenza in fatto di galateo: chiamare una donna di quarant’anni “signorina” o è una presa in giro è, appunto, una questione di ignoranza.
“Qual buon vento la porta?” dico ironicamente, mentre mi alzo per raggiungerlo.
Una piega sarcastica?
E’ quella che vedo sulle sue labbra senza dubbio alcuno: dov’è finito il ragazzo servizievole che se ne stava dietro le spalle di Mitzuki? Ha rivelato la sua vera natura. Come previsto, il fatto di aver firmato gli dà, ora, il diritto di comportarsi da padrone.
Inaudito, tutto ciò.
“Non è sarcasmo.” Mi previene “E, del resto, neppure il suo…buon vento indica ciò che, di primo acchito, le parole significano. O sbaglio?”
Sagace.
Resto in piedi davanti a lui: ho tirato giù il bagaglio e, ora, passo alla carrozza successiva.
“Una mossa inutile, signorina.” Riprende “Sappiamo perfettamente entrambi che stiamo andando nello stesso posto.”
“Per lo meno,” mastico “eviterò di vedere la sua faccia per un paio d’ore buone.”
“Senta,” mi dice abbassando i toni – la piega sarcastica è sparita “faremmo meglio ad abbassare le armi, non trova? Io sono qui solo per portare benefici a lei e alla sua società di produzione artistica. Si sieda accanto a me; mi rivolga pure tutte le domande che le vengono in mente. Ricominciamo daccapo, vuole?...”
No che non voglio, ma non glielo dico.
Non sopporto quei suoi capelli biondi scomposti, quegli occhi azzurri impertinenti. Indossa un impermeabile chiaro sopra un vestito classico scuro. Troppo studiato per avere solo 24 anni.
Sono sicura che ha guardato le vecchie foto di Masumi per rendersi simile a lui. Solo nel vestire, però, ché la sua sostanza è tutt’altro che simile!
“Qual è il suo scopo, ragazzino?” chiedo scortesemente canzonandolo nel modo che più aggradava a Masumi quando si rivolgeva a me.
Lui mi fissa negli occhi con una eloquenza che mi sconcerta:
“Ho rinunciato a molti incarichi di prestigio per trovarmi, oggi, su questo treno. Non ho bisogno di lavorare per Maya Kitajima, che, come la sua sensei, disdegna gli affari come si disdegnano gli scarafaggi. Trovo la vostra mancanza di attenzione all’economia e al mondo uno spreco indegno: col vostro talento e genio, con ciò che possedete artisticamente parlando, potreste rendere ancor più grande il vostro nome e ciò che ruota attorno al capolavoro scomparso. Credo Che Mitzuki e Hijiri se ne siano accorti: del resto, se il signor Masumi si circondava di persone concrete e pratiche, un motivo doveva pur esserci.”
“Non osi nemmeno nominare Masumi. Non provi neppure ad interpretare il suo pensiero!” sbotto rossa sino alle orecchie.
“Masumi Hayami era un preparato uomo d’affari.” Puntualizza freddamente Umibozu “Era stato designato niente di meno che dall’imperatore Ryu Takamiya perché diventasse amministratore unico del gruppo Chuo. Ora, mi rendo conto che per lei, che vive d’arte, ciò possa costituire un nulla!”
“Stia zitto!” sibilo “Ha commesso un errore fatidico, grazie al quale mi priverà del piacere di attaccarla ancora: non nomini mai più quella famiglia. E, che piaccia o no ai miei…ex collaboratori, lei non sarà il mio braccio destro! Non accetterò mai di lavorare con lei né ora né mai.”
“Se pensa di avere scelta, si sbaglia.” Afferma sibillino.
L’altoparlante annuncia finalmente l’arrivo alla stazione. Finalmente, con altri mezzi, potrò raggiungere la casa di Masumi sull’isola. Finalmente, potrò liberarmi di questo individuo.
“Lei si è rivelato esattamente per come è.” Dico alzandomi.
“Ci vediamo domattina.” Afferma alzandosi a sua volta, il tono ancora perentorio “Non può escludermi quando e come più le aggrada.”
 
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view post Posted on 3/5/2017, 11:15
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Capitolo quinto.



“Non ho diritto di scelta.”
Ripeto quelle parole come un mantra, sia nella mia mente che a labbra strette, come fanno i matti, come fanno i fissati.
Attraverso quel lembo di mare su un motoscafo aziendale senza pensare ad altro.
Che cosa poteva voler dire se non quello che ha detto: non posso escluderlo dalla mia vita. Questo è il regalo di Mitzuki e Karato. Il trattamento di fine rapporto lo hanno versato loro a me e si chiama Umibozu.
Scendiamo al porticciolo che è già chiaro.
Il sole sta salendo piano, sull’orizzonte.
Senza sapere perché, senza alcun desiderio razionale in testa, mi tolgo le scarpe, poggiando i piedi sul legno freddo ed umido. Ma già sento con chiarezza i piedi affondare sulla sabbia fine, quella sabbia avvolgente e calda che ho sempre adorato. Quella sabbia che riceve l’affondo del corpo e che Masumi stesso, prima di me, ha avuto di amare, di esperirne il potere terapeutico e rilassante.
Non c’è nulla di più bello dell’attesa.
Nell’attesa non vedi nulla, non percepisci la bellezza e, figurandotela soltanto, la anticipi, la rendi sommamente bella.
Come i bimbi, più felici la Vigilia, che nel giorno di Natale stesso.
Così io.
Il sole non c’è ancora, ma già i suoi raggi illuminano ogni anfratto della scogliera. Ad un chiaroscuro risponde il suono di un’onda ed è un magnifico concerto di luci e suoni, di quelli che solo gli animi predisposti all’ascolto possono udire. Del resto, recitare per anni mi è servito proprio a questo: a sentirmi parte di un mondo assai più grande del microcosmo a me toccato in sorte. Non si è che un niente, in questo universo.
C’è una parte che adoro, in questo lato dell’isola. Anticipa la vista della casa ed è nascosta, quasi fosse uno scrigno: qui le rocce precipitano in verticale sul mare. La spiaggia su cui cammino, d’improvviso, termina insidiosa. Camminando immersa nei tuoi pensieri, non vedi che l’acqua s’alza piano, lambendo prima la pianta dei piedi, poi le caviglie. Quando giunge alle ginocchia, sei già scivolata in basso, e non distingui più l’acqua, dal cielo, dalla pietra che ti sovrasta.
Il terrore si impadronisce di te. Ed è proprio quello che fa il morto, che ti uccide.
Il terrore.
È una sensazione strana, quella del respiro che ti si strozza in gola. Urli e, più lo fai, più imbarchi acqua. Lo stomaco si dilata a velocità prodigiosa, il tuo corpo è un fantoccio in balia dell’acqua salmastra e scivolosa. Provi piacere, in quest’essere trasportata senza mèta e, nel contempo, sai che è giunta la fine.
La fine.
Lì, in fondo, ci sei tu e attendi. Il ciclo, per me, è giunto al termine e, finalmente, dall’altra parte, come Altair e Vega nella celeberrima leggenda, avremo il nostro ricongiungimento. Poi, agli dèi piacendo, ci reincarneremo e vivremo in pienezza, come meritiamo, come abbiamo sempre meritato.
 
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view post Posted on 4/5/2017, 15:08
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Capitolo sesto.



“Ma è impazzita, ragazzina?”
“Che cosa diavolo le è saltato in mente?”
Ho le orecchie chiuse.
Quanta acqua ho imbarcato? Ho la nausea. Sento il sale ovunque e quella sensazione di scivolosità continua a permanere, come fossi costituita più d’acqua che d’ossa.
Non riesco a respirare. Il cuore prova a battere, ma è come impedito.
Forse, è questo il morire.
Sento, però, qualcosa che mi trascina a sé, come un flusso d’aria impetuoso che mi sbatte contro qualcosa. È come se provassi ad uscire da me, ma inutilmente.

“Si svegli, dannazione!”

Questa voce.
È una voce cara, ma non l’ho mai udita.
E, finalmente, un sussulto mi scuote il petto. È come una scarica elettrica: l’acqua viene su e la nausea viene a placarsi col vomito. Lo stomaco pare rompersi ed io smetto di brancolare in questa medietà incomprensibile che è il passaggio da vita a morte.
Avverto una morbidezza quieta, ma un poco ansiosa, sulle labbra.
Una sensazione meravigliosa.
Gli occhi, però, non mi reggono.
Le orecchie, del resto, non le supportano abbastanza.
Ho freddo.
Ho molto freddo.
Dormire è una metafora della morte. Così dicono.
Ma io posso ben affermare che la morte, quando ti ci avvicini, è ben altra cosa ed è quasi in simbiosi con la tua coscienza e col tuo vissuto.
Nel sonno, invece, sperimenti l’assenza del sé, ti quieti e nulla è.
Magari, la morte fosse così.
Permango in questo stato di assenza e mi sveglio dopo molte ore – per lo meno, a me sembra sia passato un secolo.
Provo a muovere le braccia, ma non riesco.
Apro gli occhi e vedo la pietra sopra di me.
Nelle narici, ho l’odore dello iodio e del mare, anche.
La testa, per lo meno, faccio a muoverla.
Sulla parte sinistra del mio corpo, avverto un calore intermittente, reso più forte a seconda dello spirare del vento.
“Che è successo?...” domando debolmente, ma non so a chi.
Mi accorgo che è del tutto normale non riuscire a muoversi, dal momento che sono stata avvolta e - strettamente – in una montagna di indumenti.
Muovo il collo in avanti per guardare qualcosa che non siano gli scogli sopra di me e intercetto una figura di spalle, dei capelli chiari e scomposti, bagnati.
Ho un tuffo al cuore e, se non sapessi che sono in balia di pensieri tormentati e confusi a causa del mio “piccolo incidente quasi mortale”, direi che si tratta proprio di lui, di Masumi. Ma è più smilzo e piccolo. Il mio Masumi, invece, era prestante e muscoloso. Negli ultimi tempi, era un armadio. Aveva talmente tanto peso, gravato sulle spalle, da essere aumentato di volume.
Concretamente.
Materialmente.
Ci sono panorami – o persone – che non vorresti mai smettere di rimirare e, invece, per cecità improvvisa o altre cause, non riesci più a recepire.
Mi sentivo così.
Da ventitré anni.
“Sta meglio?” mi domanda una voce rauca e stridente. Graffia il cuore, davvero.
“Che cosa mi è capitato?” chiedo a mia volta.
“Lo sa benissimo, per Diana!” sbotta l’altro “Che cosa aveva intenzione di fare? Un’immersione subacquea senza muta?”
È fuori di sé e non capisco perché uno sconosciuto debba esserlo.
“Stava per morire, benedetta donna!”
“La smetta di urlare…” biascico provando a sollevarmi sui gomiti. Finalmente, ho forza sufficiente per togliermi di dosso questi abiti così pesanti da opprimermi “…che significa che stavo per morire?”
Finalmente si gira ed ho uno scatto d’ira repentino, spontaneo: lui? Che cosa ci fa lui qui?
“Se non ci fossi stato io,” mi previene ancor più fuori di sé “ora sarebbe al Creatore!”
Si avvicina minaccioso e inizia a scrollarmi:
“E’ stata incosciente per quasi mezz’ora! Ho dovuto praticarle la cardiopolmonare, lo sa? E ci stavo per restare secco io!”
“Poteva lasciarmi morire, allora, stupido ragazzino!” gli urlo a mia volta.
Mi passo una mano sulle labbra, forse l’unica parte calda del mio corpo. Vorrei rimettermi addosso tutti i vestiti, ma non lo faccio: perché sono indignata una volta di più e perché non vorrei mai mostrarmi debole davanti a questo sciocco, importuno individuo!
“Stupido ragazzino?” ripete “A me? Lei è una donna senza spina dorsale! Pensa di avere ancora l’età per camminare sulla spiaggia come se non le importasse? Viaggiare con la fantasia non è appannaggio dei fanciulli? Chi è, tra noi, il ragazzino? Anzi, sa che cosa le dico? È così che la chiamerò d’ora in poi: ragazzina!”
“Come osa?”
Faccio per alzarmi, ma la testa mi giro e torno ad accasciarmi sulla sabbia. Il vento, ora, me la sbatte un poco addosso e sento quasi dolore, lì dove la pelle è nuda.
Lui si avvicina a me repentino, la preoccupazione stampata negli occhi azzurri.
“Sta bene? Forse, è meglio che la porti da un medico…”
“Ho solo bisogno che mi lasci in pace…” dico debolmente, prima di cadere svenuta ancora una volta.
Troppo sforzo. Troppo stress. E quest’individuo, poi…
 
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Capitolo settimo.



Mi sveglio nel mio letto. Nel letto che fu di Masumi, per lo meno. Nel letto mai nostro.
Faccio scivolare il braccio sul lenzuolo di seta fresco. Finalmente, mi sento meglio. Traggo godimento da questa sensazione di benessere, unica e sola dopo molti anni.
Il fuoco, dentro al camino in pietra, è acceso: in quel momento, mi rammento dell’accaduto e prego di non avere l’ennesimo scontro con lui, Umibozu.
“Buon giorno, signora.”
Il saluto viene da una voce amica, finalmente.
“Hijiri…” balbetto debolmente.
“Sta meglio, adesso?” mi domanda con tono lievemente ansioso. Riconosco, finalmente, il mio amico e collaboratore.
“Non pensi mai più di abbandonarmi a me stessa.” Gli dico con sollievo, mentre gli tendo la mano.
Egli mi fissa con la consueta dolcezza, ma non si avvicina:
“Sa benissimo che ci sarò sempre, per lei. E sa anche che non ho mai inteso abbandonarla.”
“Perché, allora, quell’odioso individuo?” chiedo. La domanda è rivolta all’unico uomo che può rispondermi, ché Mitzuki, quando si tratta di mantenere il riserbo, è irremovibile. Hijiri, invece, se preso per il verso giusto, è un libro aperto. È questo che adoro di lui.
“Non ho da dirle nulla di diverso da ciò che già non sa.” Afferma soltanto “E, stia certa, tutto è fatto in funzione del suo bene.”
Mi parla del capolavoro scomparso e dei suoi figli naturali, che, se portati in scena, rilanceranno non solo l’intero teatro oozachiano, ma anche la sua interprete principale: io.
E questo è possibile solo se consentirò a Umibozu Ayakawa di entrare nella mia vita.
“Signor Hijiri, lei sa perfettamente di che pasta io sia fatta.” Rispondo con tono grave “Non ho mai accettato diktat da nessuno, men che mai se non adeguatamente motivati.”
“Non è un diktat. È un caloroso consiglio.” Mi sorride l’altro senza perdere il consueto aplomb.
“Non riuscirò ad interpretare alcunché, se non comprendendone le ragioni.” Mi giustifico.
“Pensavo che un’attrice del suo calibro, si nutrisse più di sensazioni che di ragioni.” Mi dice Hijiri “E, in ogni caso, ad Izu lei troverà tutte le risposte che cerca. Perché è per questo motivo che si trova qui, giusto? Solo, la prego di star lontana dalla scogliera. Da una parte di scogliera, in particolare. So che non ha intenzione di suicidarsi: è troppo intelligente e, se avesse voluto, l’avrebbe fatto vent’anni fa.”
“Lui dov’è?” chiedo riferendomi al mio prossimo manager.
Quando ho formulato la domanda, Karato ha già compreso che ho abbassato le armi. Solo che non so perché le ho abbassate.
“Sta riposando.” Risponde “Era molto provato. Un ragazzo come lui, nelle sue condizioni…”
“Mi ha salvato la vita,” Gli racconto “ma non mi sento proprio di ringraziarlo. Ha un’aria così saccente e spavalda.”
“E’ un ragazzo che vive alla giornata. Non lo giudichi come giudicò il signor Masumi.”
“Abbiamo perso molto tempo, io e Masumi.” Mormoro commossa “Perché, fino all’ultimo, ho continuato a farmi domande sul suo operato, sul perché agisse in segreto, senza farne parte con me. Se solo si fosse rivelato…io non attendevo altro.”
Guardo Hijiri negli occhi:
“Perché mi invita a non giudicarlo? Cosa c’entra questo discorso con Masumi?”
“Forse, nulla o, forse, tutto.” risponde l’uomo “A volte, che si tratti d’un amore o di un’amicizia, lasciamo siano i preconcetti a vincere. Non dovremmo, non crede?”
Annuisco, ma quell’Umibozu proprio non riesco a tollerarlo:
“Ha detto che vive alla giornata…che intende dire?”
“Non ha letto il fascicolo?” mi domanda Hijiri sollevando lievemente le sopracciglia.
“Si riferisce al suo cuore?” chiedo di rimando.
Non fa in tempo a rispondermi. Bussano, nel mentre, alla porta.
È lui, Umibozu:
“Non voglio disturbare la signorina Kitajima più di quanto non abbia già fatto. Desideravo solo sincerarmi delle sue condizioni.”
“Sta meglio e la ringrazia.”
Hijiri non si sposta dalla porta. È palese che non voglia innervosirmi.
“Lo faccia entrare.” Dico spiazzando tutti.
Scruto Umibozu in viso: è pallido, ha gli occhi leggermente cerchiati e pare ancora più smilzo, come se avesse compiuto chissà quale sforzo. Ho una stretta al cuore, un’altra cosa che non ti spieghi.
“La faccio entrare solo per chiarire un punto, ragazzino…” dico “Non avevo intenzione alcuna di suicidarmi. È stato un dannato incidente.”
Egli annuisce:
“Me ne rallegro. Non sarebbe stato tollerabile un simile spreco di talento.”
Fino alla fine, continua a tartassarmi, a buttarla sul piano economico.
Mi rammento di Masumi, del fatto che fingesse di considerarmi l’uovo d’oro della Daito.
Ma lui non è Masumi: è solo un viscido. Ma è infermo e, sapendolo tanto giovane, provo pena.
“Cerchi di riposarsi.” Aggiungo “Dal momento che sarà il mezzo per il mio prossimo successo artistico.”
Umibozu socchiude gli occhi come chi sa di avere incassato il suo primo sì.
E sarà anche l’ultimo, penso tra me.
Lo aspettavo al varco. Se avesse fallito, la scusa per cacciarlo via dalla mia vista e dalla mia società si sarebbe presentata in tutta la sua seducente realtà.
 
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Capitolo ottavo.



Lascio la stanza dopo un giorno intero. L’ala ancora riservata alla famiglia è stata quieta e silenziosa per tutto il tempo. Solo un via via di camerieri e, ogni tanto, un saluto da Hijiri.
Mi sono vestita come piace a me, in modo giovanile – non ho mai perso, in tutti questi anni, la voglia di distinguermi in negativo: pantaloni corti con risvoltini sopra le caviglie, una t-shirt informe di quattro taglie più grande e una camicia azzurra altrettanto enorme a mo’ di soprabito. Era appartenuta a Masumi. Niente è stato buttato via dai suoi armadi, per mio preciso volere.
Ciò che era suo, ora, è mio.
E’ sempre stato così.
La Biblioteca non è che il piano inferiore della villa, prima destinato ad enormi garage e ripostigli vari. Gli architetti hanno fatto un lavoro splendido, facendo delle finestre alte dei lucernari sapienti, che indirizzano la luce indirettamente sui tavolini destinati agli studiosi e non sugli scaffali.
I vetri, poi, sono colorati in modo tale da non produrre la luce abbagliante tipica dei luoghi di mare.
Le librerie, tutte molto antiche, sono disposte parallelamente l’una all’altra, come a creare dei corridoi. I testi più preziosi, come anche i manoscritti antichi, sono contenuti all’interno di teche di cristallo.
Non ho voluto vedere dove Umibozu ha trovato la famosa apertura nel muro. So che, lungimirante qual è, ha già portato via tutto ciò che di utile c’era. Mi conforta solo sapere che nulla di più è accaduto di quanto anche il mio fedele Hijiri non sia già a conoscenza.
Mi piace l’odore dei libri. Non ho mai finto di essere una lettrice accanita, ma ho sempre venerato chi riesce a mettere per iscritto i propri sentimenti, elevandoli ad un livello universale di condivisione e di sentire, anche.
Oozachi, dal mio punto di vista, è stato il più geniale di tutti.
Scorgo Umibozu seduto al tavolino più appartato, la schiena curva, tutta protesa verso ciò che sta attenzionando, quasi volesse fagocitarlo.
I raggi del sole accarezzano i suoi capelli biondi, sempre scomposti, ma ad arte. Di certo, non ha dimenticato di pettinarsi: un precisino come quello non può prescinderne. Indossa un vestito elegante, ma ha adagiato la giacca sulla sedia, motivo per cui scorgo il retro del gilet, di seta, che risplende ai raggi del sole anch’esso.
Pare bisbigli.
“Non esistono età…aspetto…rango…”
Cosa sta dicendo? Sta leggendo il capolavoro scomparso, ma a che pro?
“Quando il mondo era nel Caos, gli dèi generarono dèi…”
Ho un tuffo al cuore.
“Il turbine bianco e il turbine rosso, dapprima in lotta, finiscono con l’amarsi…”
C’è qualcosa di non del tutto chiaro, di sghembo. Non sono le battute de La Dèa Scarlatta. Sta leggendo - o declamando – altro. Mi soffermo su altri particolari: il suo tono di voce è nostalgico. Ora, la voce pare rotta dal pianto. Fanno paura questi ragazzini ed io a Masumi doveva averne fatta tanta, salendo sul palcoscenico con quaranta di febbre, ai tempi della mia prima rappresentazione.
La patologia, se la vivi tu in persona, non ti tange: se la vedi in un’altra persona, sei la prima ad additarla.
A condannarla.
O ad amarla perdutamente.
“Lei è qualcosa di più di un estimatore: è un fissato.” Dico con tono gelido, palesando, finalmente, la mia presenza.
Capisco che non si sente preso alla sprovvista.
“Stavo iniziando a chiedermi se le piacesse il mio gilet.” Ironizza girandosi verso di me.
Il suo aspetto è migliorato: non ha più le occhiaie e mi pare abbozzi un sorriso, dietro all’abito facciale perennemente ironico che credo possegga per corredo cromosomico.
Abbraccia la mia figura con un solo sguardo ed io provo imbarazzo. Enorme imbarazzo.
Mi sono vestita come una mendicante e ne sono consapevole.
“Sta bene anche lei, oggi, ragazzina.” E ride.
“Senta, ragazzino,” gli faccio eco “credo lei sappia molto bene dei miei trascorsi, come anche della mia sfortunata relazione con Masumi Hayami. Posso concederle la fiducia che disperatamente i miei due preziosi collaboratori vogliono che io le dia, ma non la libertà di usare espressioni non consone. Quello è l’appellativo che Masumi dava a me e non ha il diritto di usarlo.”
“Lo userò fino a che non avrà smesso di dare a me del ragazzino.” Mi dice con sfida “E, inoltre, oggi non appare affatto come una signora attempata.”
E’ un complimento o una presa in giro? Davvero, non riesco a capirlo.
“C’è una festa, giù in paese.” Rincara Umibozu “Potrei accompagnarla lì e comprarle delle caramelle.”
No.
Ancora?
Come può?
Si dice che i persecutori seriali siano capaci di rovistare persino nell’immondizia pur di reperire informazioni sulle loro vittime.
“Non mi piacciono le fiere.” Dico freddamente “E, inoltre, non vedo perché dovrei andarci giusto con lei.”
“Perché io la faccio ridere. E dannare, anche.” filosofeggia il ragazzo alzandosi.
Ora, i raggi del sole colpiscono la sua cravatta: il volto è in penombra. Ciò nonostante, la luminosità illumina indirettamente il viso, conferendo a quegli occhi azzurri una trasparenza meravigliosa.
Mi mette nostalgia.
Come fosse qualcosa di effimero e destinato a sparire presto.
Un brivido mi percorre la schiena.
“Non deve preoccuparsi per me.” Sogghigna “Io vivrò più a lungo di lei. Anagraficamente, non c’è storia.”
“Ma cos…?” balbetto indignata “Senta, lei è l’essere più riprovevole che abbia mai conosciuto! Il più presuntuoso scarafaggio che sia mai dato trovare in casa. Che dico? In dispensa? Quando hai fame e apri il pensile … trovi il tuo cibo preferito contaminato dalla presenza di quelle orride zampette…”
Umibozu scoppia a ridere fragorosamente:
“Va bene così, ragazzina, è sufficiente. Le va di vedere quello che sto leggendo?”
E mi fa cenno con la mano perché mi avvicini al tavolino. Intanto, si risiede, ma, nel mentre, ha spinto un’altra seggiola accanto alla sua come ad invitarmi a sedere.
Sospiro profondamente e obbedisco per nulla convinta.
Siedo di fianco a lui e ne guardo il profilo: sono scomparsa dal suo orizzonte – o almeno così credo – perché è totalmente concentrato su ciò che sta leggendo.
Si tratta di un manoscritto, redatto su carta di riso. La bellezza di ciò che ha declamato prima si riassume tutta nel fragile supporto. Basta un niente per lacerarlo e questo lo rende quasi commovente e alla vista e al tocco.
“Sentiamo, dunque.” Dico “Ho visto che, poc’anzi, declamava alcune battute del capolavoro scomparso, ma non erano del tutto esatte.”
“Perché questo” mi ferma Umibozu “non è il capolavoro scomparso.”
Sorride come un bambino, adesso.
“E’ la prima stesura, invero.” Spiega “Quella che Ichiren ebbe a redigere prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale.”
“Non lo sapevo neanche che ci fosse una versione precedente…” mormoro stupita.
“E’ la mia scoperta, infatti. Nessuno lo sapeva.” Afferma Umibozu “Ed è interessante come la filosofia del Maestro, nel tempo, si sia evoluta. C’è una differenza profonda, tra le due stesure e questa differenza spiega anche il mutare dei rapporti con la sua adorata allieva, Chigusa Tsukikage.”
“In che cosa divergerebbero, se posso chiedere?” domando interessata e dimentica, per un istante, del fatto che mi trovi seduta accanto all’essere più deplorevole che sia dato conoscere.
“Non posso spoilerare la mia tesi di drammaturgia, ma, se vuole, può pensare all’incanto dell’innamoramento.”
Lo guardo nei profondi occhi azzurri, interrogativa, desiderosa di saperne tanto di più.
È il mio ruolo, del resto: io sono l’unica dèa scarlatta.
“E’ una giornata come questa. È una giornata di pieno sole, signorina Kitajima.” Spiega “Quando il pessimismo non ha ancora intaccato la mente del Maestro come un morbo malefico, quando…la speranza di dare un coronamento al sogno d’amore e l’arte bastava a entrambi. A lei, come a lui.”
Arrossisco:
“C’è stata questa fase?”
“Oh, sì.” Dice Umibozu “Ed è stata la fase dei Poeti, quella quieta, che trasforma le tempeste dell’ES in incanto artistico.”
“La realtà distrugge tutto, è così?” chiedo tristemente “Non il Super- Io che tutto castra, non il potere di tanti, ma proprio la realtà…”
“Ragazzina,” Umibozu mi guarda con intelligenza “tracimare dal sogno comporta dei rischi, come, del resto, viverci dentro. Non esiste una medietà o, se la si raggiunge, dura poco. È destinata a soccombere e a fagocitare l’artista. Così è successo a Oozachi.”
Deglutisco sconcertata.
“Che magro finale, vero? Alla fine, siamo destinati ad una effimera felicità.”
“Tanto vale godere il più possibile dei giorni di sole, allora, non crede?” e fissò il lucernario sorridendo dolcemente. Un sorriso che mi svuotava, <parallelo> alla di lui esistenza, effimera tanto quanto l’alternarsi delle stagioni della vita.
 
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Capitolo nono.



Sono tornata in ufficio qualche giorno dopo.
Ho evitato il giovane supermanager come la peste, nonostante l’incontro in biblioteca non sia stato caratterizzato da particolari baruffe. So che anche Umibozu ha fatto i bagagli per tornare a Tokyo, ma non so se, quando e in che modalità ci reincontreremo.
In ufficio, per adesso, sono ancora accolta da Mitzuki. Credevo se ne fosse andata, lasciando la sua scrivania in balia temporanea di una stagista neolaureata o, comunque, in attesa che Ayakawa le subentrasse in via definitiva.
Invece, la mia solerte segretaria c’è e mi accoglie con un sorriso che non mi aspetto da lei e un caffè Blue Mountain il cui profumo mi ristora.
“Vado in ufficio.” Le dico ringraziandola con uno sguardo, il primo sereno dopo molti giorni di temperie emotiva.
Lo stato di grazia, però, non è destinato a durare a lungo, ché, non appena apro l’uscio e sento i piedi affondare nella moquette che tanto amo, vedo ciò che non mi aspetto e sono assalita da una sorta di conato di vomito.
“Che cosa significa?” domando. Di fianco a me, però, non c’è nessuno.
Mi giro verso la scrivania di Mitzuki, ma neppure lei c’è. Non una stagista. Non un’anima che possa spiegarmi cosa significhi quel vaso e i fiori in esso contenuti, soprattutto.
Un mazzo di rose scarlatte.
Dopo ventitré anni, ancora una volta, qualcuno mi ha fatto dono di quei fiori.
“Mitzuki!” urlo con quanto fiato ho in gola “Chi? Chi si è permesso?...”
Mi manca l’aria.
Annaspo letteralmente, ma nessuno viene in mio soccorso. Chiudo la porta dietro di me con le spalle, quindi scivolo lungo il legno lucido per sedermi a terra.
Respiro appena.
È di nuovo la stessa sensazione di quel giorno, quando rischiavo di annegare.
Inizio a piangere forte, a piangere forsennatamente.
Che cosa significa tutto questo?
Chi vuole farmi del male.
Mi tiro su, nel silenzio totale interrotto solo dai miei singhiozzi, quindi mi dirigo alla scrivania per visionare il mazzo scarlatto: a occhio e croce, si tratta di una trentina di rose. È un bouquet sontuoso, che non avevo più ricevuto da tempo immemore. Ho i sudori freddi, mentre, col massimo della delicatezza, scosto alcuni steli come a cercare un indizio che mi indichi chi possa essere il donatore.
Ma come parlo?
Donatore di rose?
Io vaneggio, davvero.
Masumi è morto. È morto.
Ricomincio a piangere senza posa.
E’ in quel momento che, finalmente, un’anima vivente fa il suo ingresso:
“Che cosa succede? Signorina Kitajima…”
“Se ne vada!” urlo “Non voglio vederla! Scommetto che riderà nel vedermi in questo stato…”
“Ridere, signorina?...” chiede Umibozu spiazzato “Più che altro, mi addolora. Non immaginavo una reazione così forte davanti ad un presente.”
“Lei non può capire!” dico “Chiunque abbia fatto questo sa perfettamente qual è il significato.”
“Oh, certamente.” Afferma abbassando il capo “Ho capito a cosa si riferisce.”
“Questi” sottolineo nonostante il mio nuovo collaboratore sappia a cosa mi riferisco “sono gli unici fiori che Masumi Hayami mi abbia regalato nei sette anni in cui, come ombra scarlatta, ha seguito la mia carriera. Sono gli stessi fiori che stava portando a Izu la sera dell’incidente.”
Nascondo il viso tra le mani e mi sento inconsolabile. Finalmente, l’odioso individuo ha perso la favella. Tace, come è giusto che sia, perché lui non può capire.
“Non pianga…” mormora col tono piano e partecipe.
Sento la sua mano sulla mia spalla, ma non osa avvicinarsi oltre. Percepisce che l’aggredirei sicuramente. Non è lui che voglio accanto. Voglio Masumi e, soprattutto, desidero che quel mazzo provenga da lui e da nessun altro.
“E’ stato lei, forse?” chiedo con un fil di voce, gli occhi pieni di lacrime “Perché mi fa questo?”
Umibozu scuote il capo:
“Non…vorrei mai farle del male, mi creda.”
“Mi lasci sola.” Ordino perentoria “Non ho bisogno di lei. Non ho bisogno di nessuno.”
Due ore dopo, riacquisto a fatica il controllo di me stessa. Sciacquo il viso al lavabo del bagno annesso all’ufficio e lascio la stanza: Umibozu è lì, seduto alla scrivania che fu di Mitzuki, col volto teso e preoccupato.
Non lo vedo così pallido dal giorno in cui mi ha salvato la vita, laggiù alla scogliera.
Non è solo un fatto psicologico. È come se il suo cuore stesse per cedere d’improvviso: per lo meno, a me pare di percepire così.
Ma perché mai, poi, dovrei preoccuparmi delle sorti di questo ragazzino, quando io ho il mio carico per nulla indifferente sulle spalle e, adesso, anche la storia delle rose scarlatte?
Torno ad ispezionare il mazzo di fiori e trovo quel che spero si riveli un prezioso indizio: è un biglietto ed è del medesimo colore. Un cartoncino pregiato, con delle lettere sovrimpresse.

A colei che splende più di Merope e Sterope.



Non c’è firma.
Il desiderio di emulazione giunge fino a un certo punto – e per fortuna! – se chi compie determinati gesti non ha avuto modo di leggere cose che conservo gelosamente.
Cose che solo io e Masumi possiamo aver visto.
E’ ovvio che non possa trattarsi di Masumi, poi. La follia d’amore non è tale da sconvolgermi la mente. Non c’è possibilità di fraintendimento e il mio nuovo supermanager, là fuori, si è dichiarato estraneo alla faccenda.
Ci penso su: in effetti, non ha propriamente detto di non aver mandato il mazzo di rose scarlatte. Ha, inoltre, aggiunto che non vorrebbe mai farmi del male o qualcosa del genere.
Qualche minuto e torno fuori dal mio ufficio. Umibozu è appena uscito e decido di frugare tra le sue carte, quelle che ha sparso sulla scrivania.
Non so cosa cerco. Non so più niente.
Il ragazzo scrive tutto a mano. Pur essendo giovane, quindi, è uno <alla vecchia maniera>.
Usa l’i-pad esclusivamente per le questioni d’affari: lo schermo è acceso, c’è un planning trimestrale con i prossimi impegni del nuovo anno. Mi interessano di più le sue carte, però, e ne ha lasciate incustodite un bel po’. Ad una immediata lettura, comprendo che si tratta di appunti sulla famigerata <scoperta> e quel che leggo ha il potere di stravolgermi abbastanza, ché trasuda una sensualità mai recepita sul testo originale.
È descritto l’incontro d’amore tra le anime gemelle, Akoya ed Isshin, per la precisione il loro amplesso. Anime che, nude, si toccano e, solo con lo sfiorarsi di una mano, realizzano l’estasi. Tutt’intorno, sono galassie, potenze, turbini d’aria. Si percepisce la felicità dell’universo tutto, mentre gli amanti, finalmente, si stringono l’un l’altra.
Yin e Yang si uniscono: diventano tutt’uno, pur permanendo diversi.
Complementari, ma non uguali.
Non avevo mai letto nulla del genere. Il ragazzino ci sa fare con la letteratura: ha saputo ricavare un testo teatrale da quella che era una semplice bozza del Maestro Oozachi.
Dunque, è questo il suo progetto. Non dare alle stampe un libro di critica, ma produrre uno spettacolo: uno spettacolo che ha per soggetto la dèa, ma non è più la dèa di Chigusa Tsukikage.
È la dèa di qualcun altro.
Mi soffermo ancora sull’immagine dei due amanti e, facendo scivolare i fogli, scopro un disegno: l’abbozzo di due corpi che si sfiorano.
Sento, in quel momento, una sorta di vuoto all’altezza dello stomaco: un vuoto che si trasforma in una morsa.
“E’ mai possibile?” mi dico “Questa immagine…”
Mi rammentano, come una sorta di fortunata istantanea, ciò che io e Masumi, una volta terminato lo spettacolo di prova della sensei, nella Valle dei Susini, incarnammo.
“Sta meglio?”
La voce di Umibozu mi coglie alla sprovvista.
“Manager, studente brillante di drammaturgia, scopritore di manoscritti e, ora, anche autore teatrale. Sono veramente stupefatta, ragazzino: la sua versatilità fa paura.”
“Sono solo <appunti>.” Si affretta a dire, mettendo le mani sui fogli che avevo letto di nascosto.
All’inizio, avvicinandomi alla scrivania, avevo provato vergogna, come se fossi in procinto di compiere qualcosa di illecito. Poi, dopo essere stata scoperta, ho cambiato atteggiamento: in fondo, sto legittimamente cercando di capire che cosa Hijiri, di comune accordo con Mitzuki e questo individuo, sta cercando di farmi fare.
Decido per andarmene, tanto so che non mi risponderà.
“Potrebbero diventare un copione, sì.” Si affretta a dire Umibozu.
Io lo guardo biecamente.
“Ci sono immagini ben strane.” Ridacchio “Non particolarmente consone per un teatro tradizionale qual è il nostro.”
“Abbiamo maschere in abbondanza anche per questo.” Si trincera.
“Maschere che prevedano il sesso?” domando ironica.
“Il sesso è un dono degli dèi e noi possiamo sempre…reinterpretarlo.”
Mi aspetto che completi il discorso: le cose stanno facendosi interessanti.
“Quell’immagine…” lo prevengo ancora ignara “dei due amanti nudi che si toccano è nel manoscritto che ha trovato?...”
“Perché me lo chiede?”
E mi fissa sospettoso.
Per lo meno, io credo sia così.
“L’attira perché è una scena abbastanza <hard> o…?” ride.
“Andiamo, sa benissimo che non ho un’età per cui le scene <hard> possano suscitare morbosa curiosità!” sbotto a mia volta.
“Eppure, ne avrebbe bisogno.” Sogghigna “Autoconvincersi di essere una vecchia non può far bene ad una persona che svolge la sua professione. Dovrebbe essere baciata e da uno che se ne intende, anche…”
“Sentiamo, Rett Butler, quale altro film citerà, prossimamente?”
Non mi considera neppure e torna a sedere.
“Se tutto va bene, questo scritto sarà completato a metà del mese e, agli dèi piacendo, sarà messo in scena il 2 di gennaio dell’anno venturo, tra otto mesi esatti.”
“Sta scherzando, vero?” dico sconcertata.
Non può parlare sul serio.
Chi si crede di essere?
“Io sono il suo manager, signorina. E quello che ha finito di visionare poc’anzi sul mio i-pad è il calendario dei suoi impegni futuri…”
E’ troppo.
Gli do le spalle: non posso credere che un’attrice del mio calibro non possa più scegliere quali ruoli rivestire. Non posso credere che il primo arrivato mi ingiunga ciò che debbo o non debbo fare. È inaudito.
“Ha paura, forse?” mi domanda sfidandomi palesemente “Un ruolo nuovo, una reinterpretazione potrebbero scalfire la sua fama già consolidata. Non vuole rischiare, è così?”
“Quel che dice non mi tocca.” Dico ferma “Anche perché, se davvero mi conoscesse, saprebbe che non mi tiro indietro di fronte a nulla.”
“E’ così.” Sottoscrive “Almeno, è così che ho sempre pensato che fosse.”
 
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Capitolo dieci



Quel giorno, nella Valle, lì dietro al tempio, dove scorre il fiume che si tinge del colore dei fiori di susino, c’eravamo io e Masumi. Le piante, intorno, ci facevano da corona.
Sui due lati opposti, realizzammo di essere stati lì da sempre, solo per trovarci in quella situazione. Per quella eravamo venuti al mondo.
Gli esseri umani comuni, quelli che vivono per la materialità, avrebbero desistito dall’attraversare il corso d’acqua.
Io e Masumi non eravamo fisicamente diversi dagli altri, ma avevamo qualcosa di più: la consapevolezza d’essere nati per amarci. L’ipocrisia del mondo, mascherata dal rango di lui e dalla mia giovane età, non era riuscita a vincere. Di questa ipocrisia, purtroppo, resta vittima la gran parte dell’umanità, quella fetta ampia che si contenta del poco per non ambire il molto.
Che pur gli spetterebbe perché, secondo la volontà degli dèi, non v’è un solo individuo che sia destinato all’infelicità e questa è prodotta unicamente da chi ambisce il potere per sé e non vuol farne parte con chi lo attornia.
Era questo, il senso profondo del capolavoro scomparso, il messaggio del Maestro, rimasto egli stesso strangolato dalle convenzioni, pur avendo concettualmente intravisto la luce e, con essa, il vero progetto degli dèi.

“Scendiamo, dunque, sulla terra
E facciamo ciò che dobbiamo.”



Il coro degli spiriti divini, che attorniavano la dèa scarlatta dacché aveva assunto forma mortale, pronunciò queste due frasi, puro brivido, per me che leggevo.
Per me che avevo letto, ritrovandovi il mio vissuto, le pagine scritte da un qualsiasi Umibozu Ayakawa.
“Come ha fatto?” mi chiedo ossessivamente “Oppure, davvero, quel suo manoscritto originale riportava una scena del tutto simile a quello che avevo visto nella Valle congiuntamente a Masumi?”
Indipendentemente da tutto, dovevo comunque riconoscergli il fatto di sapere scrivere in modo egregio: il copione era opera sua, non di Oozachi.
Però, grazie a questa mia sbirciata, iniziavo finalmente ad entrare nell’ottica di Hijiri e di Mitzuki. Loro erano vissuti accanto al mio Masumi e, probabilmente, soprattutto il primo, ne avevano raccolto preziose confidenze, anche relative a quella notte nella Valle.
Sì, forse coglievo appieno ciò che palesemente nessuno dei miei due collaboratori aveva saputo dirmi con chiarezza. Volevano che, come artista, arrivassi da sola a scoprire il segreto di Umibozu e la sua capacità di vedere oltre la dèa scarlatta accreditata ed ufficiale.
Alzo la cornetta e chiamo il mio manager, ma nessuno risponde.
Sbircio fuori dall’ufficio ancora una volta, ma la scrivania è vuota. Non l’i-pad, non i fogli sparsi, non Umibozu. Solo un biglietto:

“Sono al suo servizio, ma non del tutto. Vada a casa e riposi anche lei.”
 
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Capitolo undici.



Mi sento eccitata.
Non lo ammetto perché il rischio è quello di esaltarmi davanti al ragazzino. E, inoltre, se tutto si fosse rivelato un fiasco, non lo avrei facilmente digerito.
Pertanto, provo a mitigare gli impeti meglio che posso.
Pur avendo quarantadue anni, sono rimasta spiritualmente la ragazzina di un tempo. Recitare qualcosa di nuovo mi riempie, rende sopportabile ciò che non può esserlo, nella normalità: la perdita di Masumi, ad esempio, mi era divenuta tollerabile sol perché, subito dopo la tragedia, ero tornata sulle scene a competere con Ayumi Himekawa.
In altre parole, a noi artisti è dato sopravvivere e raccontare le modalità di quella sopravvivenza. Onde, poi, derivare l’appellativo ingiusto di vedovallegra e affini.
Andare in ufficio, dopo la scoperta della gallina dalle uova d’oro, alias Umibozu, è diventato d’improvviso più semplice. Forse, persino più bello.
Sono passati pochi giorni dal suo arrivo e dal nostro viaggetto a Izu, eppure mi pare di lottare con lui da tutta una vita.
È un agone in piena regola, sì.
Perché lui è quello che sta cercando di farmi indossare l’ennesima maschera, una maschera che potrebbe far dimenticare il passato in nome del presente.
È mai possibile, tutto questo?
“Che cosa è cambiato, ragazzina?” chiede sarcastico Umibozu al mio arrivo.
Di lunedì, alle otto, sono arzilla come una vecchietta esaltata dal liquore.
“Debbo pensare che è il freddo a renderla così carina e ben disposta?”
“Niente di tutto questo.” Dico con sicumera “Piuttosto, ho deciso, visto che debbo tollerarla, di provare a capirla.”
Egli mi guarda con sospetto:
“C’è qualcosa che non mi torna.”
Mi avvicino al tavolino.
“Ascolti bene, ragazzino, vuole che reciti? Tiri fuori le frecce dalla faretra e mi dia una buona ragione per perseverare in questo stato di grazia. Oppure, inizi a fare i bagagli.”
Sta per replicare, ma squilla il telefono e Umibozu è lesto nel rispondere.
“Quando avrà finito,” gli dico sottovoce per non disturbarlo nella conversazione “venga nel mio ufficio…con quelle sue carte.”
Obbedisce con un cenno del capo e, due secondi dopo, è da me.
Mi stupisco, pensando che quello studio sta trasformandosi piano in una ideale Valle dei Susini: una valle improbabile per una dèa scarlatta tutta nuova.
Egli biascica qualcosa: il contenuto della telefonata viene rivelato con meccanica professionalità prima che egli segga alla poltrona antistante la mia scrivania e inizi a spargere le sue carte.
“Sakurakoji?” ripeto “Dice davvero, ragazzino?”
Porto le mani sulle tempie, tirando indietro i capelli:
“Non so esprimerle la mia felicità. Non vedo Yuu da tempo immemore: finalmente, è ritornato dall’America.”
E verrà a trovarmi nel pomeriggio. Penso già a quello che potrei raccontargli e la mia esaltazione è tale da farmi dimenticare, per un istante, che Umibozu e lì presente ed attende di mostrarmi una volta di più i risultati dei suoi sforzi.
Vado a sedermi, dopo aver recuperato un barlume di serietà e mi appresto ad udire ciò che ha da dirmi.
Lui si schiarisce la voce, quindi, con sguardo obliquo, visualizzando ora le carte ora la mia sagoma, comincia:
“Quando il Maestro era poco più che trentenne, viveva in bilico tra due diverse visioni del mondo: i due assiomi più importanti, quelli che la filosofia additerebbe a <fondazione del mondo>, dominavano parimenti il suo modo di concepire l’amore e l’universo tutto.”
Comprendo solo l’essenziale, ché la mia preparazione è pari a zero. Le mie uniche conoscenze in ambito filosofico derivano dalla meditazione del capolavoro scomparso.
“In quest’ottica,” continua Umibozu “concepì La Dèa Scarlatta. La prima stesura, quella al nostro esame, è una sorta di primo canovaccio scritto su materiali di fortuna – forse, una vecchia porta rotta spiega il foglio di riso usato come blocco per appunti.”
Rammento bene: era ciò che stava leggendo quel giorno, alla Biblioteca di Izu.
“Ichiren” spiega “ha dato corpo ad un’idea che, agli occhi di filosofi od artisti, può apparire come una qualche scontatezza: la penna tace, quando la bocca s’apre al riso, alla umana felicità. Parallelamente, tacciono le voci degli dèi, quando gli uomini si elevano alla comprensione delle cose. Non è il proibito perché è proibito. È la <ùbris>, il peccato di tracotanza, a bloccare gli uomini in quella medietà posta tra terra e cielo. In certe culture, poi, è difficile ancor di più interpretare l’idea di trasgressione, ché coinvolge gli stessi dèi.”
“E’ questo che mi è sempre parso inspiegabile. Perché?” domando curiosa. Ho sempre interpretato Akoya con il mio cuore, dandole, probabilmente, un taglio psicologico più vicino all’umano che al divino. Sì, la mia interpretazione era commovente, eccelsa, ma, non propriamente vicina alla filosofia e, tantomeno, al pensiero originale di Oozachi.
“E’ semplice.” Mi sorride Umibozu “Essendo tutto composto dai quattro elementi, c’è un substrato comune agli dèi e agli uomini, anche. Se, poi, il mondo è, a sua volta, pieno di anime, sarà anche pieno di dèi. Tutto è circolare, in questo perpetuarsi del ciclo di vite. Ed ecco spiegato perché la leggenda narri un classico di tutti i tempi: la possibilità che un uomo e un dio si leghino in un sentimento all’apparenza ritenuto solo umano.”
Mentre mi spiega queste cose, è esaltato più di un ragazzino. Mi riesce difficile vederlo come tale. Ho visto una sola persona esaltarsi tanto per La Dèa Scarlatta: quella persona era Eysuke Hayami, l’uomo più ossessionato che abbia mai conosciuto, l’uomo che, per reazione al rifiuto della sensei, preferì distruggerla. L’amore – o quello che gli somiglia, non saprei dire – è un sentimento dalle sfaccettature più diverse.
Lui mi prende la mano, come a richiamarmi all’ordine. Ha visto che mi sono persa nei miei pensieri: stavolta, però, non reagisco con stizza. Mi divincolo, ma senza alcuno scatto scortese:
“V’è un particolare ancora, da svelare: quando le anime si riconoscono come tali ovvero gemelle o affini continueranno a cercarsi disperatamente fino al raggiungimento della primigenia unità. Il ciclo di vite, così, dipende in parte dalla volontà dell’uomo.”
Mi accorgo, in questo istante, di avere letto e ascoltato permanendo nella condizione di apnea. Soprattutto le ultime parole avevano avuto il potere di scuotermi: la volontà dell’uomo, dunque, può decidere quando e se reincarnarsi. Se si è conosciuta l’anima gemella, a dispetto delle dolorose interruzioni che il vivere comporta, non si potrà a lungo stare lontani da essa.
Questo, dunque, era il primigenio pensiero del Maestro Oozachi, quando, non ancora fagocitato dai problemi economici e dalla mafia messagli alle calcagna da Hayami, viveva serenamente accanto alla sensei. Fu il pessimismo a fare di Isshin un bonzo errante non era così, nel primo copione.
 
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view post Posted on 12/5/2017, 08:03
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Capitolo dodicesimo.



Sono in ufficio ed è praticamente l’alba. Non ho dormito un granché e, a giudicare da quello che vedo, neppure il mio stretto collaboratore. Necessito con una qualche urgenza d’un bidone di caffè, ma Umibozu non pare dello stesso avviso e continua, dopo un cenno di saluto stentato, a scrivere i suoi appunti. Dalla concentrazione che traspare dai suoi occhi azzurri, deduco si tratti del nuovo copione.
Due minuti dopo sono seduta alla mia scrivania.
“Senti un po’, ragazzino,” dico chiamandolo all’interfono “non ti sarai mica inventato tutta questa roba, vero? Come faccio a sapere che non stai rimaneggiando arbitrariamente il capolavoro scomparso?”
Lui mi fissa – ed è già sulla porta – la cravatta lievemente smollata, gli occhi azzurri stanchi, ma sveglissimi.
“So che lo vorrebbe e disperatamente.”
Che dice? E, nel mentre, ridacchio.
“Vorrebbe che fosse tutta verità, io lo so.”
È contrariato. Turbato.
“Quali <conseguenze> dall’incontro col suo prezioso Isshin?”
Appoggio la schiena alla pelle morbida dietro di me e inizio a capire. Per lo meno, credo di capire, ma non a fondo. Sono sempre stata l’ultima della classe, in questo senso.
Ieri pomeriggio, Sakurakoji era atteso sul tardi ed è arrivato, sul tardi.
Umibozu, stamane, è saccente, sì, non dissimile da ieri e ieri l’altro: solo, s’è aggiunta una punta di sarcasmo.
Da ieri pomeriggio.
Il mio collaboratore ha introdotto Yuu nel mio ufficio come un qualsiasi stagista avrebbe fatto. La differenza, però, stava nel fatto che lui è qualcosa di più che un semplice segretario. Occupa il <posto fisico> che fu di Mitzuki, certo, ma per sua preciso, imperscrutabile, inspiegabile volere.
“Se è un incontro d’affari,” ha precisato “sono tenuto a presenziare.”
Ma io ero già volata tra le braccia di Sakurakoji, senza lasciare dubbi intorno alle finalità di quel rendez-vous.
E così, Umibozu, la coda tra le gambe magre e slanciate, si era ritirato in buon’ordine.
Quando Yuu se ne è andato, erano le otto di sera e l’ufficio, praticamente deserto. Il ragazzino non c’era ed io ho potuto tirare un sospiro di rilassato sollievo.
Mi ha fatto piacere sapere che Sakurakoji è di nuovo in circolazione. I musical di Broadway gli hanno dato una notorietà planetaria, ma, per uno come lui, segnato quanto me dal ruolo di protagonista del capolavoro scomparso, era del tutto naturale, alla fine della fiera, tornare a casa.
E, quando gli ho parlato del nuovo manoscritto e di ciò che Umibozu stava scrivendo, ho visto i suoi occhi scintillare in modo meraviglioso: ho sempre amato, quei suoi occhi scuri e penetranti, specchio di un’anima bella che non conosce rabbia o alterco o cattiveria.
Tornare sulle scene insieme, con vent’anni d’esperienza in più sul groppone, sarebbe davvero un sogno.
“Ho parlato al mio amico del suo lavoro.” Dico scrutando Ayakawa di sottecchi “E nutre un entusiasmo addirittura superiore al mio.”
“Questo non è difficile crederlo.” Ironizza riferendosi a me “Solo di recente, forse, ha iniziato a rivalutare ciò che le sto sottoponendo.”
“Mi diverte immaginarla all’opera.” Sorrido sarcastica “Convincermi è difficile, è così.”
“Lei non ha bisogno di essere convinta, ragazzina…Lo è già, ma si diverte a darmi contro. È nella sua natura, giusto?”
E si appropria delle sue carte, come a chiedermi implicitamente di iniziare la lettura del copione.
“E’, poi, certa che Sakurakoji riesca a vestire ancora una volta il ruolo di Isshin?” mi domanda prima di entrare in ufficio e chiudere piano la porta.
“E’ un dubbio inutile.” Rispondo “Egli è assai più istruito di me. Legge di filosofia e possiede una sapienza del cuore non indifferente, causatagli dalla sofferenza.”
“Oh, sì, dev’essere stato invero doloroso capire di non essere lui, la sua anima gemella.”
Ma che sta facendo?
Cosa dice?
Persevera ancora nel suo atteggiamento sarcastico! Che ne sa lui di chi soffre o ha sofferto per non essere stato ricambiato?
Si siede sulla poltrona e inizia la lettura:

“Quel giorno, quando ti incontrai nella Valle, compresi immediatamente che tu eri la mia anima gemella.”

Mi fissa.
“Questo è sicuramente il passo più oscuro di tutto il capolavoro scomparso ed è uno dei pochi pezzi che ritroviamo, integro, nella prima bozza, ma con una differenza sostanziale.”
Annuisco.
Ed io, a mia volta, inizio a capire il perché di quella complessità: nella stesura definitiva, Oozachi ha aggiunto “per la prima volta”.
Umibozu legge i pensieri di Akoya:
“Ci eravamo <già> visti? Quando era accaduto? Non poteva essere ora, in questa vita.”
“La sensazione di conoscersi da sempre” dico con tono piano “è uno status <tipico>, nelle anime gemelle.”
“Vero, ma il concetto di illusione non implica che non esista! Va solo inteso nel suo significato letterale: l’incontro nella Valle è <ideale>.”
Così dice, lo sguardo brillante, forse un poco triste.
Continuo a non cogliere il significato di quelle parole.
“Non comprendo ancora: cosa vuole dirmi?” chiedo “Forse, che il Maestro era già incancrenito dal tarlo della depressione?”
“Tutt’altro.” Mi sorride “Questo concetto è ben lungi dall’istigare al pessimismo: anzi, è un messaggio di speranza. Vede, Maya, è quasi spontaneo, in una condizione d’ideale realtà, trovarsi, scoprirsi, amarsi senza restare sopraffatti dalle circostanze o dal pregiudizio. Nel mondo reale, dove molteplici sono i richiami e i frastuoni prodotti da santoni e imbonitori, incontrarsi ha del miracoloso e, se l’incontro avviene, il suo valore è amplificato. Le luci della città non possono fagocitare quella delle stelle, se questa si serba nel cuore. Chi ama il cielo una volta, l’ama per sempre.”
E’ bello. Così penso, ma non glielo dico.
Si capisce, forse, dalla piega della bocca, che indica soddisfazione.
“Le piace?” mi chiede Umibozu mentre un raggio di sole, attraversando i due grattacieli di fronte, ci bacia i volti, scaldandoli, arroventandoli lievemente.
Io annuisco. Per la prima volta, provo una grande serenità. E complicità.
Deriva dal semplice fatto che gli sono accanto ed è uno stato d’animo che non mi spiego.
 
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view post Posted on 16/5/2017, 07:04
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Capitolo tredicesimo.



“Oggi,” esordisce Umibozu “siamo ad un punto cruciale.”
Non mi sarà difficile entrare in sintonia con lui, come il giorno avanti. Se non è sarcastico, stare in compagnia di questo ragazzino può rivelarsi arricchente. Senza contare il fatto che capire cosa scrive è fondamentale per mettere in scena questa nuova versione del capolavoro scomparso.
Penso a quello che ci siamo detti ieri: in un certo senso, anche trovarsi a parlare di teatro con una persona che ti comprende profondamente può costituire una situazione ideale. Laddove, disquisendo d’affari, ci siamo azzuffati e non trovati affatto.
La stessa cosa era accaduta a me e a Masumi per lunghissimo tempo.
Scuoto la testa, sconvolta dai miei stessi pensieri: com’è possibile che mi metta a creare parallelismi tra questo ragazzo e il mio amore? Tra la nostra storia d’amore e la <questa>…collaborazione?
Lo sguardo cade sul foglio che mi ha messo sotto il naso e ciò che leggo mi lascia impietrita una volta di più:

“Isshin (rivolgendosi a Kusunoki): L’anima gemella? Se uno avesse l’enorme dono d’incontrarla, comprenderebbe quanto solo sia stato sino ad allora.”
Umibozu mi guarda coi suoi occhi trasparenti.
“Non è tollerabile rinunciarvi.” Precisa e ora mi è difficile reggerlo.
Volendo sfuggire all’imbarazzo, finisco, però, per complicarmi la vita.
“Si è mai sentito solo, ragazzino? Mi riferisco…alla sua anima gemella. Lei ha una ragazza?”
Egli abbassa il capo:
“Sono stato solo dal giorno in cui sono nato. Ho atteso ventiquattro anni, prima di ritrovare me stesso.”
Sospiro, una punta d’incertezza sulle mie costole.
“E’ fortunato, allora.”
E penso a Masumi, ma anche alla ragazza con la quale Umibozu sta costruendo un futuro. Me la figuro appariscente, bellissima, molto concreta.
“Chiunque abbia la fortuna di amare la propria anima affine non può sentirsi più solo. Anche se vive distante da lei, nel tempo o nello spazio, fa di tutto per raggiungerla.”
E’ ispirato.
Ora comincio a provare fastidio: ma perché?
“Deve vivere un amore particolare, ragazzino…” ridacchio “E molto felice, aggiungo.”
“Come il suo, ragazzina.” Mi fa il verso “Tale e quale.”
“E’ così.” Rispondo puerilmente “Non importa che Masumi sia morto. Io lo sento qui, presente, adesso e si frappone tra me e lei perché è geloso anche lì dove si trova…”
“Non ha motivo alcuno per esserlo!” Mi sorride in modo disarmante Umibozu.
Che sorriso splendido.
Non mi ero mai accorta di quanto fosse raggiante.
Sta pensando alla sua giovane compagna, questo è certo.
“Le anime gemelle sono tali per l’eternità. Nessuno si frapporrà tra esse.” Rincara.
“Masumi era molto geloso.” Racconto senza sapere perché “Di Sakurakoji, soprattutto.”
E’ Umibozu, stavolta, a perdere la favella.
“Perché lui rappresentava Isshin.” Si decide a rispondere, ma dopo svariati secondi di apnea “E il palco, come sanno tutti gli artisti, crea alchimie moleste. Forse, il signor Hayami ha desiderato calcare le scene insieme a lei, ragazzina.”
“Non so…” mormoro “Il rapporto tra me e Yuu, in effetti, è sempre stato assai particolare. E’ Masumi la mia anima gemella, questo è vero, ma, quand’ero adolescente, ho avuto qualcosa di più che un semplice trasporto per Sakurakoji: anzi, posso dire d’esserne stata innamorata. Lui è stato il mio primo amore, sì.”
Umibozu deglutisce e, di nuovo, non replica.
“Masumi non era un attore. Era la mia anima gemella nella vita reale, come il Maestro lo fu per la sensei Tsukikage. Sul palcoscenico, però, la mia anima gemella è sempre stato Yuu. Solo Yuu. Non vorrei nessun altro, anche per quest’altra rappresentazione…”
“E’ ardente, il suo interesse, ragazzina.”
Io ho perso Masumi, vent’anni fa, ragazzino. Cosa vuoi saperne, tu che vivi un amore pieno e riamato, del dolore della separazione?
Non lo dico, ma mi capisce: eccome, se mi capisce.
“Non basterebbe solo il tenero ricordo, se si ha avuto la fortuna di viverlo, quell’amore?” chiede arrabbiato.
“Sono divagazioni di un adolescente, queste.” Rimbecco “Tanto vale, allora, votarsi alla castità.”
“Isshin lo fece.” Dice Umibozu alzandosi dalla poltrona “Non posso credere che ancora nutra dei dubbi su Sakurakoji: lui…non è, non può essere un degno sostituto di Hayami. Non lo sarà mai.”
“Sostituto?” ripeto “Ma come parla? Chi ha parlato di <sostituti>?”
“Se pensa di averci avuto una storia o, chissà, d’avercela ancora, è legittimo, non crede?”
“No!” sbotto alzandomi a mia volta “Non lo è!...”
Lui è già sulla porta:
“Senta. Ci pensi su. Con il cuore aperto, però e riveli a se stessa, una volta per tutte, chi è la persona che ama e amerà per sempre!”
 
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Capitolo quattordici.



“Ragazzino, stamane voglio riscattarmi.”
Vado alla scrivania di Umibozu.
“Andiamo a leggere il suo copione al parco, le va?”
“E, a lei, va?” chiede a sua volta.
È ancora cupo, arrabbiato e non ne capisco il motivo: sembra geloso. Ma non è la gelosia di un innamorato. Del resto, è solo un giovanotto. Come potrebbe amare me, tanto più vecchia?
Piuttosto, ho la sensazione che sia suo desiderio conservare viva l’idea che Masumi – e nessun altro – sia la mia anima gemella. È encomiabile, da parte sua, ma assolutamente non necessario, ché il mio cuore, da quando ho realizzato di amarlo, è immoto.
“Questo parco è importante, per me.” Dico mentre usciamo alla luce del sole, il palazzo con gli uffici alle spalle “Molti anni fa, mentre provavo ad entrare nel mio personaggio, sono venuta qui. Ho provato disperatamente a vederci il mondo.”
Egli annuisce come chi sa già tutto.
“Masumi mi ha chiesto” continuo ad ignorarlo “di fargli credere nella dèa scarlatta.”
Imbocchiamo il viale alberato.
“E’ casuale, certo, ma è un po’ quello che le farò leggere tra poco.” Mi dice con tono piano e malinconico.
“Mi parli di lei, ragazzino…” ridacchio “Il posto è ancora distante, del resto. Ieri, mi ha incuriosito molto quel suo modo di parlare della sua anima gemella! Mi è parso di capire che è un sentimentale…”
“Pensa che una persona innamorata sia <sentimentale>?” chiede alzando le sopracciglia ironicamente “E’ amore e basta, ragazzina…”
“Sono curiosa di sapere come ama un pragmatico come lei.”
Sto affondando il coltello della piaga. Solo che, parlando con lui, mi accorgo che la piaga potrebbe essere più mia che sua.
“Ama come ama lei.” Risponde criptico “Spero che si ricordi bene <di come amava> il signor Hayami!”
Perché mi risponde così?
“Me lo ricordo, sì.”
“E, allora, non vada in cerca di presunti sostituti, dannazione…” rincara.
Sì, è chiaro, ma è assurdo comunque: non c’è motivo per cui insista su questo punto.
Teme davvero che possa disinnamorarmi di Masumi. Questo non solo non è possibile, ma è incomprensibile che gli stia tanto a cuore.
“Non butti la questione su di me, per favore.” Ribadisco “Se dobbiamo lavorare insieme, mi piacerebbe conoscerla meglio.”
“Tutto ciò che deve sapere è sul mio fascicolo.” Mormora freddo.
“Andiamo! È possibile che sia sempre così impettito? Mi parli di lei, su!... voglio sapere che tipo di donna le piace e, soprattutto, che tipo di donna può mai amare uno come lei!”
Egli si ferma, costringendomi a fare altrettanto.
“Una donna sensibile, bella e intelligente.” Risponde serio.
Ho un tuffo al cuore.
Mi sembra di rivivere una scena del passato, quando Masumi mi disse qualcosa di simile.
E provo, parimenti, lo stesso senso di vuoto che la risposta mi procurò.
Una donna è nel suo cuore.
Un’altra donna.
Sensibile, bella, intelligente.
Un’altra Shiori, penso tra me.
“Lei non è falsa.” Mi dice “E’ sempre spontanea e allegra, anche. Non teme di tenermi testa ed è per me la ragazza più bella che mi sia stato dato vedere.”
“Allegra…” ripeto tristemente “E’ impossibile non esserlo, quando si è consapevoli di vivere un grande amore. L’amore di anime!”
Faccio il punto della situazione su ciò che io sono, adesso.
Quanto diversa dalla Maya Kitajima d’un tempo, quella che saltò su una nave, quella che si lasciò abbracciare in un tempio deserto, quella che recitò Akoya con una sola immagine negli occhi.
Cos’era rimasto di lei?
“Diventare grandi, a volte,” riprende “può renderci succubi della normalità, dei luoghi comuni. Scema la passione, ma non in lei. Lei è straordinaria. Il fuoco arde sempre, dentro di lei.”
“Perbacco…” ironizzo in modo dolceamaro “Dev’essere proprio una persona eccezionale…”
“Lo è, sì.” Dice.
Abbiamo ripreso a camminare.
“E, ora, signorina Kitajima, vogliamo riprendere la lettura?”
“Com’è la sua fidanzata?” chiedo imperterrita “Fisicamente, intendo. Lei sarà anche un rompiballe, ma è piacente. Di certo, lo sarà anche lei.”
“Com’era la fidanzata ufficiale di Masumi Hayami?” domanda a sua volta Umibozu sedendo sull’erba asciutta “E com’era la sua anima gemella?”
“Mi sta dicendo” mormoro “che non è bella? La sua fidanzata ha poco gusto nel vestire e un linguaggio non consono al contesto? È questo che mi dice?”
“Ciò che mi interessa è la sua anima. E, piacendomi tanto, è ovvio che anche il suo corpo non mi sia sgradito.”
Di nuovo svolazzare di pagine, di appunti: da una parte, il testo del capolavoro scomparso, dall’altro il suo copione nuovo di zecca.
Non credevo davvero, in così poco tempo - poche ore,invero! - di legarmi tanto a lui e a queste pagine. Forse, perché entrambi riescono a suscitarmi una grande nostalgia.
Nostalgia di cosa, però?
Non so spiegarmelo.
Masumi mi manca da vent’anni. Ma è qualcosa che va al di là di Masumi ed è Masumi stesso! Sono consapevole di essere in procinto di perdere la ragione.
“Essere onesti con se stessi è una condizione essenziale per capire questo scritto.” Dico fra me e me. E, tuttavia, quell’onestà mi rimandava ad un sentimento inaccettabile.
Stavo tornando ad amare.
Non Yuu, ma Masumi. Masumi come mi viene offerto da questo ragazzo.
Ma questo ragazzo non ha scritto di Masumi. Ha trovato un manoscritto vecchio di quasi cent’anni e, ora, sta offrendomelo. Insieme al suo vissuto e assieme al mio.
“Lei interpretò meravigliosamente la sua Akoya, il giorno in cui dispersero le ceneri di Hayami, laggiù nella Valle.”
Io non ero andata, no.
Non solo perché non potevo lasciare lo spettacolo, ma perché non intendevo dire addio a chi mi sarebbe stato vicino per sempre. Comunque. In qualche modo.
Lui mi avrebbe raggiunto. Quando il dolore si sarebbe quietato, in un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi, in sordina, lui si sarebbe nuovamente palesato.
Io lo sapevo, ma ero troppo addolorata, all’epoca, per potere razionalizzare tutto questo.
Ora lo so.
Tuttavia, ed è qui che mi inquieto, Umibozu non è Masumi e, soprattutto, ha una compagna che reputa, oggi, la sua anima gemella. Non è a me che rivolge queste attenzioni. Io sono solo lo strumento per mettere in scena un altro successo teatrale. Null’altro.
Senza contare che son troppo vecchia, per lui. L’età mi pare uno scoglio insormontabile.

Come accidenti sto parlando?
Che sto dicendo?
Che problemi ti poni, Maya?
 
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view post Posted on 22/5/2017, 08:48
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Capitolo quindici.



“Vi ho visti, ieri sera.”
Sta leggendo il suo copione con tono quasi sepolcrale, con l’atteggiamento tipico di chi è colpito nel profondo. Non posso credere a ciò che sento. C’è una scena, in questo inedito, in cui è descritta la gelosia di Isshin nei confronti di Akoya.
“Nell’epoca in cui le stelle <cadevano>,” prosegue Umibozu “i sacerdoti s’affrettavano a fornire interpretazioni nefaste.”
Mi stupisce ad ogni istante che passa. Il testo del Maestro, nel testo definitivo, ha dato ampio spazio alle battaglie e all’ira divina <impressa> nella volta celeste: nel copione di Umibozu, invece, la chiave di lettura parrebbe diversa e, comunque, in relazione ai due amanti.
“Le stelle che cadono in picchiata sono i desideri inespressi.” Spiega quest’ultimo “Sono le lacrime di chi non vedrà mai realizzata l’aspirazione più grande.”
“E sarebbe?”
So bene che la domanda è superflua, ma lo sto guardando in viso per capire dove vuole arrivare e lui, in un soffio, mi dice quel che m’aspetto e, cioè, che si tratta dell’amore.
“Nell’atto primo, Akoya dice alla nonna che il suo desiderio non si avvererà mai, perché ci sono cose che vanno al di là della felicità personale. Isshin le fa eco nel secondo, quando pronuncia le stesse parole davanti a Terefusa. Il mio desiderio non s’avvererà mai…”
Deglutisco. La gola fa male.
Costui non si rende conto, penso: ricostruisce tutta la mia vita e non lo sa. Chiedersi come faccia, chiederlo a lui direttamente, suppongo sia inutile. Risponderà nel modo più ovvio, facendo riferimento alle anime gemelle, a come queste si comportano nel momento in cui si incontrano.
Canoni, stereotipi. Mi darebbe in pasto solo cose che non mi interessa udire.
Decido, pertanto, di non porre alcuna domanda diretta, ma di girarci intorno:
“Ho detto la stessa cosa, tempo addietro.”
Il tono della mia voce è, ora, intriso di nostalgia.
“Al signor Hayami?” mi chiede Umibozu alzando un sopracciglio.
Nego col capo:
“A Yuu.”
Lo fisso dritto negli occhi azzurri:
“Non c’è, credo, niente di più doloroso che veder naufragare il proprio sogno d’amore. Ma lei, questo, non può saperlo perché è un uomo fortunato.”
Lo dico senza acredine e voglio che lo sappia. La sua risposta, però, mi spiazza ancora una volta:
“Lo so bene, invece. So perfettamente cosa si prova. Vedi la persona che ami ammirata da tutti, lontana un milione di miglia da te. Pare far di tutto per essere felice senza di te.”
“Magari,” gli faccio eco “lo fa perché pensa di non essere lei stessa all’altezza della situazione.”
Ho il tono scettico, ma comunque aperto a diverse interpretazioni. Interpretazioni che, però, non vengono, quasi sopraffatte da un senso di tristezza sempre più marcato, di cui non so dare spiegazione.
Mi guardo intorno: il parco Asahi è deserto.
Si è già fatta ora di pranzo, ma non ho alcuna voglia di desinare e così anche Umibozu, da quanto mi pare di capire.
“L’incanto poetico è così vicino a sentimenti come questo…” dice.
“Ragazzino, sono stufa.” Affermo alzandomi “Lei mi stupisce ogni giorno che passa, lo sa? Ormai, è dato acclarato: pare che mi legga nel pensiero. Ho bisogno di intimità, quindi me ne torno in ufficio. Ci vediamo domani.”
 
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