Grazie, Fiordi, sono onorata che tu mi rilegga!
Capo secondo
“Lo spirito della dea della luna”
Era vestita di nero?
Mi ero posto la domanda per un decimo di secondo, ma era una cosa molto stupida da pensare, visto che Chigusa Tsukikage non aveva mai indossato abiti a colori.
“No, è tutta una mia fantasia. Sono in ufficio: adesso mi sveglierò.”
“La fantasia è figlia dei rimorsi, talvolta.” Disse ridacchiando come era solita fare.
“Lei è sottoterra da anni, ormai. E tornerà da dove è venuta tra qualche istante.”
“Non crede che io esista?” mi domandò perplessa.
Non aveva più l’aria canzonatoria di prima:
“Eppure, lei è vissuto nel sogno d’amore condiviso, laggiù, nella Valle scarlatta. Lei ha visto.”
“Non so a cosa si riferisce.” Arrossii “E non parlo col mio subconscio o con qualunque cosa lei rappresenti.”
Ella scosse il capo:
“Ma non capisce che è nato tutto da questo? Il dolore che prova, il fatto che non riesce a dimenticare né Maya né la sua vita passata. Il peccato la sta perseguitando anche adesso. Ma, a differenza di suo padre, la sta tormentando da vivo. E dev’essere un’ atroce sofferenza.”
“Sto benissimo come sto.” Bofonchiai infastidito, ma il pensiero di Maya si fece dilagante, assoluto come solo il suo pensiero sapeva essere.
La immaginai nella Valle dei Susini, con lui.
E la gelosia sovvenne ancora, imperiosa.
“Quel ragazzo le vuole molto bene.” Mi disse Chigusa guardandomi dritto negli occhi “E ci sono donne, a questo mondo, che, pur conoscendo l’amore di anime, sanno essere felici anche senza concretarlo: a Maya questo riesce bene perché ha il teatro. Lei, invece, signor Masumi, non ha nulla, ad eccezione del suo lavoro di imprenditore, che non deve gratificarla molto, se non riesce neppure a tollerare la visione di un albero di natale lampeggiante.”
Mi dava enormemente fastidio.
Lui – Sakurakoji – le era stato accanto sino all’ultimo come Isshin e, ora, per quel che ne sapevo, stava con lei, nei dintorni di Nara, in quella che fu la casa del Maestro Oozachi.
Aveva lasciato il teatro patinato anche lui.
Il mio collaboratore ombra mi aveva raccontato che avevano aperto un piccolo teatro all’aperto, attivo solo in primavera e in estate.
Poi, non avevo più voluto sapere niente.
Avevo intimato ad Hijiri di non dirmi quel che facevano: quel tanto bastava per rendermi lei e lui – i due innamorati sulle scene e, ora anche nella vita! – odiosi.
Ero diventato come lui.
Il generale Millepiedi aveva finito per divorare anche le radici del mio susino.
“Vuole davvero vivere così?” mi domandò Chigusa, distogliendomi dai pensieri cattivi e da quel tarlo della gelosia che, costante, mi rodeva all’altezza del petto “Senza amore, circondato solo da gente interessata…Il suo amore non merita, forse, un’altra chance?”
Nel mentre, la sua sagoma s’era fatta più evanescente, fino a scomparire del tutto, lasciandomi addosso, però, una sensazione di calore, non dissimile da quella provata nella Valle la prima volta che ci ho messo piede.
Non era lei, no.
Era l’amore per Maya, mai venuto meno.
Il pensiero corse alla Valle dei susini: ci vidi me e lei quel giorno in cui, casualmente, le nostre anime si erano incrociate.
Quella sensazione di calore data dalla pelle nuda non era venuta mai meno. Più la sentivo e più mi faceva male. Era una ferita aperta, anzi, di più: ché, quando la pelle apre al sangue, il dolore si fa blando e sopportabile, mentre, se serpeggia dentro, hai come la sensazione che faccia male tutto il corpo.
Fa male il cuore.
Fa male persino la pelle, sì.
Come aveva potuto Maya rifarsi una vita con quel ragazzino?
Non ero abbastanza per lei?
La storia che io stavo con Shiori non reggeva: ormai, tutto il mondo sapeva che la nostra era una relazione di facciata, dettata da interessi commerciali reciproci, oltre che dal mio senso di colpa nei confronti di colei che avevo reso una perfetta mentecatta.
Shiori Takamiya aveva perso, insieme al senno, ogni bellezza e attrattiva: viveva in un sanatorio, come i malati di peste del secolo scorso. Io andavo a trovarla ogni tanto, giusto per lavarmi la coscienza o, forse, per prendermi quella dose di veleno che mi spettava in quanto responsabile del suo decadimento.
Di fatto, quindi, ero un uomo solo e Maya avrebbe potuto benissimo starmi accanto o, comunque, scegliere di non mettersi con quel ragazzo.
Erano passati anni, ma il pensiero di loro due insieme mi uccideva ancora.