A Christmas Carol

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TOPIC_ICON12  view post Posted on 25/11/2016, 20:12
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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Pubblico questa ff breve - un capitolo a settimana - che Vi accompagnerà fino a Natale.

Buone feste a tutti!


A Christmas Carol
- Buon Natale, Hayami-san! –




Era una notte d’inverno, avara di neve come da tempo succedeva.
Niente ombrelli con le fragole.
Niente dolcetti natalizi mangiati all’ombra di un piccolo chiosco tradizionale.
Niente di niente.
Perché, da tempo, ormai, era così.
Mitzuki mi aveva portato una tazza di caffè bollente ed era andata via da una diecina di minuti.
Ero sopraffatto dal silenzio. Fuori di me e dentro di me tutto taceva, procurandomi un senso di quieta solitudine.
Si dice che i dannati vivano l’inferno già sulla terra. Il mio, invero, non era che un limbo. Non avevo idea che si trattasse solo di una fase di passaggio e che, presto o tardi, il mio cuore avrebbe ripreso a pompare sangue e fiamme insieme.


Capo primo

“Il fuoco cova sotto le ceneri”



Mi appisolai sulla poltrona di pelle, abbracciato da una artificiale morbidezza.
L’ultima cosa che avevo guardato era stato l’albero di natale digitale del palazzone di fronte: la stella posta sulla sommità aveva fastidiosamente lampeggiato per tutto il pomeriggio.
Verso le cinque, ero stato tentato di chiamare uno degli uomini assegnati alla sicurezza perché sparasse contro quel dannato coso. Poi, avevo udito Mitzuki augurare buon natale alla sua assistente e, così, ho desistito. In fondo, i comuni mortali meritano una parvenza di normalità e sparare ad una insegna luminosa non costituiva nulla del genere.
“Ma sì, contentatevi delle vostre cazzate.” Avevo detto puntando il mobile dei liquori, ben rifornito come sempre.
Il sonno, dunque, mi aveva colto nel bel mezzo di questi pensieri infelici – no, più che infelici, fastidiosi.
Appena chiusi gli occhi, fui catapultato a casa di mio padre.
Il camino era spento. Nessun addobbo. Niente che richiamasse il Natale.
Stavo proseguendo con successo la felice tradizione inaugurata dal generale Millepiedi: niente festa, niente felicità. Solo lavoro. Il quadro del patriarca Hayami, piazzato sopra il camino, era lugubremente avvolto dalle tenebre.
Inarcai le sopracciglia ironicamente, riducendo la bocca a una piega beffarda.
“Buon Natale, vecchio, dovunque tu sia.”
All’inferno, soggiunsi tra me e me.
Erano passati tre anni dacché lei era salita sul palcoscenico.
Il suo spettacolo dimostrativo, in una fredda cornice novembrina, era impresso nella mia mente.
A ben pensare, aveva smesso di nevicare quell’anno.
La scienza suggeriva che era colpa dei cicloni tropicali e del clima impazzito. I mistici sparavano la loro tirando in ballo punizioni divine e altre amenità.
Lei si muoveva leggiadra tra le macerie, creando armonia in mezzo al caos. Era divina, sì. Divina come nessun’altra avrebbe potuto essere. Neppure la creatura più aggraziata sarebbe riuscita nell’intento di comunicare la genuinità di Akoya. Lei, sì.
Lei, ordinaria come tante.
Straordinaria come poche.
Io avevo perso ogni cosa, insieme a lei: la mia anima, tutto ciò che era riuscita a restituirmi dopo il nostro primo incontro.
Ed ero tornato vecchio dentro.
Trentatré anni e una fidanzata pazza da cui, mio malgrado, non ero più riuscito a staccarmi.
Eppure, tra le tante cose lasciate indietro, ce n’era una che mi era rimasta stupidamente impressa ed era il sapore dei taiyaki che mangiammo insieme alla prima di Hellen Keller, quando lei se la stava facendo sotto pensando che Ayumi l’avrebbe surclassata.
Alla fine, però, fu lei a surclassare Ayumi.
Ed io fui suo. Per sempre.
Per colpa di quei fagioli dolci e di quella coca-cola che, messi insieme, simulavano la cenetta che non consumammo mai.
Ricordo ogni particolare.
Anche il sibilo della linguetta di metallo, le bollicine, tutto.
Avevo pensato tutte quelle cose senza distogliere lo sguardo dal quadro che raffigurava Eysuke.
“Io non temo i fantasmi.” Dissi a voce alta “Se anche uscissi da quel quadro, ora, ti scaraventerei contro il mio odio.”
Ricaddi sulla poltrona che avevo dietro.
Eppure, c’era qualcosa che mi rendeva inquieto: i suoi occhi – quelli di Eysuke – erano nitidi, pur nell’oscurità, come se non avessero mai smesso di scrutarmi, di leggermi dentro.
Distolsi lo sguardo per rivolgerlo alla finestra: le domestiche non avevano tirato le tende. Nella mia testa, per qualche sciocco, inspiegabile motivo, mi figuravo l’albero di natale lampeggiante che avevo lasciato al centro di Tokyo.
Cosa c’era fuori?
Da non crederci: un fiocco di neve transitò davanti ai vetri lucidi.
Poi un altro. Poi un altro ancora.
Forse che era finita l’acidula avarizia degli dei?
La fioccata che seguì mi stupì profondamente, al punto da indurmi a lasciare la poltrona per arrivare alla grande finestra.
Fu lì che quasi mi mancò il fiato. Il mio riflesso sui vetri non restituiva la mia immagine, ma un’altra.
La sua.
Quella di Maya.
“E’ l’altra metà della tua anima, quella che vedi.”
Fu una coltellata alla schiena.
“Sensei?...”
Mi girai piano, ma non vidi nulla, tranne ciò che intesi vedere.

CONTINUA LA PROSSIMA SETTIMANA!



:xmas2:
 
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view post Posted on 28/11/2016, 22:46
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Laura, non vedo l'ora sia la prossima settimana! 😄
 
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view post Posted on 29/11/2016, 16:24
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Grazie, Fiordi, sono onorata che tu mi rilegga! :wub:

Capo secondo

“Lo spirito della dea della luna”



Era vestita di nero?
Mi ero posto la domanda per un decimo di secondo, ma era una cosa molto stupida da pensare, visto che Chigusa Tsukikage non aveva mai indossato abiti a colori.
“No, è tutta una mia fantasia. Sono in ufficio: adesso mi sveglierò.”
“La fantasia è figlia dei rimorsi, talvolta.” Disse ridacchiando come era solita fare.
“Lei è sottoterra da anni, ormai. E tornerà da dove è venuta tra qualche istante.”
“Non crede che io esista?” mi domandò perplessa.
Non aveva più l’aria canzonatoria di prima:
“Eppure, lei è vissuto nel sogno d’amore condiviso, laggiù, nella Valle scarlatta. Lei ha visto.”
“Non so a cosa si riferisce.” Arrossii “E non parlo col mio subconscio o con qualunque cosa lei rappresenti.”
Ella scosse il capo:
“Ma non capisce che è nato tutto da questo? Il dolore che prova, il fatto che non riesce a dimenticare né Maya né la sua vita passata. Il peccato la sta perseguitando anche adesso. Ma, a differenza di suo padre, la sta tormentando da vivo. E dev’essere un’ atroce sofferenza.”
“Sto benissimo come sto.” Bofonchiai infastidito, ma il pensiero di Maya si fece dilagante, assoluto come solo il suo pensiero sapeva essere.
La immaginai nella Valle dei Susini, con lui.
E la gelosia sovvenne ancora, imperiosa.
“Quel ragazzo le vuole molto bene.” Mi disse Chigusa guardandomi dritto negli occhi “E ci sono donne, a questo mondo, che, pur conoscendo l’amore di anime, sanno essere felici anche senza concretarlo: a Maya questo riesce bene perché ha il teatro. Lei, invece, signor Masumi, non ha nulla, ad eccezione del suo lavoro di imprenditore, che non deve gratificarla molto, se non riesce neppure a tollerare la visione di un albero di natale lampeggiante.”
Mi dava enormemente fastidio.
Lui – Sakurakoji – le era stato accanto sino all’ultimo come Isshin e, ora, per quel che ne sapevo, stava con lei, nei dintorni di Nara, in quella che fu la casa del Maestro Oozachi.
Aveva lasciato il teatro patinato anche lui.
Il mio collaboratore ombra mi aveva raccontato che avevano aperto un piccolo teatro all’aperto, attivo solo in primavera e in estate.
Poi, non avevo più voluto sapere niente.
Avevo intimato ad Hijiri di non dirmi quel che facevano: quel tanto bastava per rendermi lei e lui – i due innamorati sulle scene e, ora anche nella vita! – odiosi.
Ero diventato come lui.
Il generale Millepiedi aveva finito per divorare anche le radici del mio susino.
“Vuole davvero vivere così?” mi domandò Chigusa, distogliendomi dai pensieri cattivi e da quel tarlo della gelosia che, costante, mi rodeva all’altezza del petto “Senza amore, circondato solo da gente interessata…Il suo amore non merita, forse, un’altra chance?”
Nel mentre, la sua sagoma s’era fatta più evanescente, fino a scomparire del tutto, lasciandomi addosso, però, una sensazione di calore, non dissimile da quella provata nella Valle la prima volta che ci ho messo piede.
Non era lei, no.
Era l’amore per Maya, mai venuto meno.
Il pensiero corse alla Valle dei susini: ci vidi me e lei quel giorno in cui, casualmente, le nostre anime si erano incrociate.
Quella sensazione di calore data dalla pelle nuda non era venuta mai meno. Più la sentivo e più mi faceva male. Era una ferita aperta, anzi, di più: ché, quando la pelle apre al sangue, il dolore si fa blando e sopportabile, mentre, se serpeggia dentro, hai come la sensazione che faccia male tutto il corpo.
Fa male il cuore.
Fa male persino la pelle, sì.
Come aveva potuto Maya rifarsi una vita con quel ragazzino?
Non ero abbastanza per lei?
La storia che io stavo con Shiori non reggeva: ormai, tutto il mondo sapeva che la nostra era una relazione di facciata, dettata da interessi commerciali reciproci, oltre che dal mio senso di colpa nei confronti di colei che avevo reso una perfetta mentecatta.
Shiori Takamiya aveva perso, insieme al senno, ogni bellezza e attrattiva: viveva in un sanatorio, come i malati di peste del secolo scorso. Io andavo a trovarla ogni tanto, giusto per lavarmi la coscienza o, forse, per prendermi quella dose di veleno che mi spettava in quanto responsabile del suo decadimento.
Di fatto, quindi, ero un uomo solo e Maya avrebbe potuto benissimo starmi accanto o, comunque, scegliere di non mettersi con quel ragazzo.
Erano passati anni, ma il pensiero di loro due insieme mi uccideva ancora.
 
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view post Posted on 7/12/2016, 11:43
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Capo Terzo

“No, padre, lasciami in pace, per favore: io non sono come te.”



Mi svegliai di colpo, gli occhi fissi sul quadro che raffigurava mio padre.
Pensai fosse normale, ma, a ben vedere, non avrei dovuto essere lì. Tutto era iniziato in ufficio, non nel salone di villa Hayami.
Di nuovo ricordi.
“Masumi, se non aggredisci il tuo prossimo, nessuno imparerà a temerti e ad avere rispetto della tua posizione! Tu sei mio figlio e, come tale, erediterai un impero. Non puoi avere questo atteggiamento: dovevi massacrare tuo cugino. Adesso, non hai più il tuo regalo di Natale e, per di più, la famiglia di mio fratello ride di te. Sei una mammoletta senza spina dorsale!”
Ero così arrabbiato.
Mi aveva dato del frocio, quel vecchio maledetto.
Essere buoni è essere froci?
E che ha contro i froci? Lui, pur avendo le palle, è sterile come una terra deserta. E ha finito per inguaiare me, adottandomi.
Non posso perdonare la sua espressione indegna. Non mi faccio fare la morale da uno così.

“Tu sapevi di avere ragione.”
Ero sconcertato.
Il quadro davanti a me parlava? La bocca di Eysuke si stava muovendo e rivolgendosi a me?
No, era tutto nella mia mente, eppure udivo la voce di mio padre in modo molto nitido.
Dov’era finita la signora in nero?
Per quanto indigesta come il resto del mondo, era sempre più gradevole rispetto al mio patrigno.
“Le radici del susino scarlatto avvizzirono, nel corso degli anni.” Proseguì lui “Fu colpa di un amore non corrisposto. Ci sono uomini che, quando vedono profilarsi l’ombra di un antagonista all’orizzonte, reagiscono nel modo che non ti aspetti: distruggono in modo folle ciò che follemente hanno creduto di amare.”
Non avevo fatto lo stesso io?
Avevo scritto a Maya, quella sera. Mi ero dimenticato di quel particolare per nulla irrilevante. Avevo deciso, in uno dei miei tanti lampi di lucidità, di mandare a puttane la bella vita di facciata verso la quale stavo tragicamente avviandomi.
Poi, la rabbia e il frastuono mi avevano travolto: sapevo di fare la cosa sbagliata, ma ho perseverato come un’auto in discesa e senza freni.
“Maya,” le avevo detto nel foyer, proprio davanti alla corona di rose scarlatte a lei destinata. E già la sagoma di Sakurakoji si stagliava dietro di lei e davanti a me.
“…ho…”
Ma il verbo mi morì sulle labbra, mentre reggevo scioccamente una lettera che non le avrei più dato.
Abbassai piano la testa, dandole la colpa, com’ero solito fare per giustificare il mio fallimento esistenziale.
In che cosa ero dissimile da mio padre?

Nel momento in cui realizzai l’indigesta immedesimazione, provai ribrezzo acuto, grave.
Come una spada di Damocle, mi figurai una corda pendere dalla trave principale del tempio shitoista dedicato alla dèa scarlatta.
Non c’era nessun impiccato.
Non ancora.
Meglio porre fine alla vita che emulare Eysuke.
Fu il pensiero che mi traversò la mente, ben più potente del fastidio iniziale.
“È uno spreco.”
Era una voce senza corpo a parlarmi.
Io mi giravo, ora, a destra e a manca, senza trovare posa, senza scorgere nessuno.
Nel Medioevo si pensava che i suicidi vagassero per l’inferno senza testa.
L’inferno dei cristiani si trova, tra l’altro, al centro della terra.
Quale funesta profezia: i morti, se era vero, camminavano insieme ai vivi.
“Uno spreco totale.” Ribadì la voce “Di bellezza; di arte; di talento, anche.”
Un brivido mi colpì la schiena come certe correnti gelide in una stanza oscura, d’inverno.
Dove anche le braci spente del camino comunicano freddo e tristezza.
“Io avevo tutto. Anche l’amore di anime. Una filosofia creata apposta per i sentimentali come me. E c’era una donna che mi stava dietro e mi corrispondeva in tutto e per tutto. Non ero che un vecchio, ma lei mi amava ed era scandalosamente giovane e bella. Come poteva amare me? Capivo che la mia vecchiaia era supplita dal genio dell’artista e ringalluzzii alla grande. Al punto che quel fuoco inestinguibile finì per non bastarmi più.”
“Lei è il… Maestro?” chiesi titubante facendomi largo con gli occhi tra le tenebre fitte, che mi cingevano in ogni dove e mi impedivano ogni percezione del colore.
“Cosa importa?” fece di rimando “Non bastano i capelli color del grano e gli occhi di cielo a comunicarti quanto siamo simili, io e te?”
“Non capisco perché è qui.” Dissi scioccato.
Mi figuravo un morto di fianco e non vederlo materialmente mi terrorizzava nel profondo.
“Ancora non lo sai?” domandò ironico “Quante altre persone hai incontrato, questa notte? Ancora non hai capito cosa sta accadendo, ragazzo?”
“E’ tutto un sogno. Che senso vuole che abbia?”
“Qualcuno, in Occidente, ha scritto che i sogni sono un riflesso del nostro vissuto. Io non ho mai creduto nelle profezie, ma ci sono segni inequivocabili cui dare ascolto. Sei al tuo rendez- vous, ragazzo. È il tuo punto di non ritorno e, dopo questo, c’è il prolungamento della tenebra. Come ti senti ora, con accanto la sagoma di un impiccato? Tu non mi vedi, ma sai che sono qui, che non me ne sono mai andato, che sono appeso per sempre a questa trave. Senti il criccare del legno sotto il peso morto del mio corpo?”
“Non lo sento.” Mentii.
“Come hai detto,” dissi dopo averci riflettuto un istante “si tratta di una filosofia. Non c’è nulla di oggettivo. È una corazza che ti sei costruito intorno per difenderti o ammazzarti.”
“E in cosa sei dissimile da me? Mi domandò lui.
“Io non voglio ammazzarmi.” Risposi.
E mentii ancora.
 
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view post Posted on 22/12/2016, 07:45
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Epilogo



Mi svegliai.
Ero ancora nel mio studio, sprofondato nell’unico conforto della mia esistenza grama: la poltrona in morbidissima pelle.
Avevo sognato.
Prima la signora in nero, poi mio padre, poi il Maestro suicida.
Per fortuna, era finito tutto. Ed era ricominciata la routine.
Tuttavia, quella morbidezza, pur artificiale, stavolta mi avvolgeva le spalle alla stregua di un abbraccio. Non recava calore, certo: soltanto solitudine e tristezza.
E, tra le altre cose, sentivo un certo appetito.
Di nuovo, mi sovvenne il sapore dei fagioli dolci: di taiyaki ne avrei mangiati a josa.
Ricordai che c’era un chiosco, poco distante, in uno dei tanti anfratti tradizionali a ridosso dei palazzoni borghesi. Mi alzai quasi di scatto con l’intento di recarmici e di bere, dopo aver mangiato i biscotti, abbondante sakè.
Sentii le rotelle stridere sulla moquette e la cosa mi diede quasi un senso di liberazione, come quando l’auto sgomma e s’avvia verso strade deserte, libere da ingorghi. Adoravo quella sensazione.
Le scale. Le scale!
Feci i gradini a due a due.
Ottanta piani senza ascensore ed ero di nuovo fanciullo.

“Corri, Masumi, corri!”
La mamma mi sorride dal piano di sotto, bocca generosa e occhi stretti di giapponesina magra.
Sta lavando il pavimento: non sono ancora il figlio di Eysuke, allora? Forse, non lo sarò mai: il professore, infatti, ha detto che ho un brillante futuro, davanti, anche se sono il figlio di una donna sola.
“Quante scale di palazzoni dovrai ancora lavare, mamma?”
“Quante credi ne servano per renderti l’uomo che meriti di diventare?”

Occhi ancora più stretti, eloquenti.
Lo so bene cosa intende: un figlio non chiede di venire al mondo. È il frutto della volontà di un uomo e di una donna. Il minimo che costoro possano fare per renderlo un individuo degno è dargli il meglio.
Solo, non vorrei vedere la mamma così dimessa, con le ginocchia piegate da un lavoro che la vuole serva.
“E tu, mamma?” le domando “Non meriti anche tu qualcosa di meglio?”
“Io ho te.” Mi risponde “Sei tu il mio meglio.”


La scena evaporò davanti ai miei occhi: ero nell’atrio freddo, dabbasso.
Con la mente, percorrevo già la strada. Dal pensiero all’azione e la mia mano sollevava la tendina quadra del chiosco.
“Buona sera, signore.”
Una testa piccola e lucida si rivolse a me con un aperto sorriso.
“Oh,” mi riconobbe “il piccolo Masumi! Non più tanto piccolo, certo…”
E mi invitò con un cenno della mano a sedere per poi versarmi del sakè.
“Lei aveva un chiosco davanti alla scuola elementare.” Mormorai stupito “Come ha fatto a riconoscermi dopo tanti anni?”
Additò i capelli chiari e gli occhi azzurri, ma non lo ascoltai più.
Da tempo, non avevo più provato un piacere così forte e intenso: il profumo di casa mi avvolgeva, mi confortava come nessun’altra cosa.
Poi, l’uomo tacque, limitandosi a servirmi.
Riaprì la bocca solo per chiedermi:
“E quella ragazza? L’hai sposata, vero?”
Di chi stava parlando?
“Ma, sì,” continuò “quella piccoletta insolente cui hai regalato le caramelle il giorno della fiera al tempio…Come sai, sposto il chiosco lì una volta al mese.”
“Lei sta bene.” Risposi con voce appena udibile “E gliela saluterò senz’altro.”
“E’ una ragazza senza peli sulla lingua.” La lodò l’oste “Una così è da tenere cara: non sta con te per interesse.”
Io annuì sopraffatto.
“E se le dicessi che sta con un altro uomo?” mi accinsi a confessare poco dopo, lo sguardo basso sul bicchierino già vuoto.
“E’ impossibile.” Ridacchiò l’uomo “Ti rispondeva a tono, ma si capiva lontano un miglio che amava te e solo te.”
Un altro colpo inferto all’altezza del cuore.
Deposi una banconota sul tavolo di legno e, dopo aver ringraziato, uscii. La nevicata continuava, abbondante, mentre incedevo sempre più a fatica lungo la viuzza per raggiungere la strada principale.
E già il lampeggiare dell’albero di natale tornava a disturbarmi le pupille.
Inquadrai la mia auto, nel posto riservato ai dirigenti e mi ci diressi.
Un’ora dopo, era già aperta campagna.
Pur nell’oscurità della notte, mi figuravo nitidamente i contorni degli abeti e i fianchi sensuali dei monti dalle vette aguzze come seni di adolescenti.
E mi immaginavo lei, nei panni di Akoya, che sorride in modo incantevole.
Come avrebbe reagito vedendomi lì, dopo tutto quel tempo? Io che, in tasca, recavo ancora la copia virtuale della lettera che non le avevo mai dato?


“Buon natale, Hayami-san e bentornato a casa!”
Ci sono storie che nascono per arrivare più o meno consapevolmente ad una conclusione.
La consapevolezza non è per tutti e può succedere che, fino all’ultimo istante della vita, non si comprenda il senso di ciò che si è vissuto.
Io sono nato per essere lì quel giorno, nella Valle.
“Perché mi guardi così?” le domandai sfuggendo il suo sguardo.
“Come ti guardo?” chiese lei, a sua volta, maliziosamente “Ti guardo come ti ho sempre guardato. I miei occhi non sono mai cambiati: da sempre, vanno in cerca di te.”
Un altro colpo bene assestato al cuore.
Mi sentii alla stregua di una donnicciola alle prime armi. Odiavo sentirmi così con lei: da sempre, riusciva a rivoltarmi come un calzino.
“Non sei cresciuta affatto, chibi-chan.” Ammiccai sarcastico e, nel mentre, mi guardai intorno, in cerca di lui.
Dov’era? Di solito, le stava dietro come un cane ammansito dal suo osso polposo.
Lei comprese il mio pensiero in un lampo.
“Sono sola, qui, oramai da tanto tempo.” Spiegò.
Ma non era vero. Io sapevo che Sakurakoji recitava con lei, in quella sottospecie di bettola che chiamavano “Il nuovo teatro della Luna”.
Perciò, finsi disprezzo, ma in realtà bramavo di abbracciarla e soffocarla coi baci mai dati.
“Mi prendi in giro, chibi-chan?”domandai “Da quanto tempo hai preso l’abitudine di menare per il naso il prossimo. E me, soprattutto? Io ti ho sempre apprezzato per la tua onestà.”
Lei mi sorrise dolcemente:
“Non ha mai smesso di seguire i miei passi, è così? Nulla è cambiato, a dispetto del tempo andato e di tutto il resto…”
“Non posso farne a meno.” Confessai tutto d’un fiato. “Fa parte di me. È il mio posto nel mondo: badare che nulla ti accada. In tutti questi anni, mi è bastato saperti al sicuro, seppur in mani d’altri.”
“Quelle mani non sono mai state quelle di Sakurakoji.” Disse lei arrossendo “Abbiamo condiviso pensieri, ma mai sentimenti. Quelli, Hayami-san, erano rivolti a lei solo.”
“Davvero?”
Finsi di stupirmene, ma sapevo d’un tratto che non era così, che per tutto quel tempo io avevo atteso il tempo giusto.
“Pensi sia stato necessario aspettare così a lungo?” le chiesi pur sapendo che la risposta era ovvia.
“E’ il tempo giusto.” Mi lesse nel pensiero.
“Cosa hai fatto per tutto questo tempo?” indugiai prendendole la mano.
Camminavamo sotto i fiocchi di neve, addentrandoci piano lungo il sentiero boscoso. Era tutto rosa.
Ed era la nostra vita.
“Sai, Maya, ho fatto un sogno strano.” Confessai a bruciapelo “Ho visto la signora in nero, mio padre e Ichiren Oozachi.”
“Sono stati i messaggeri.” Mi rispose sapientemente “Coloro che avevano il compito di ricondurti a casa.”
Respirai a pieni polmoni l’aria intorno a me, sentendomi libero.


Fine

 
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view post Posted on 26/2/2017, 14:32
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Ritorno a leggerti dopo tanto tempo, con immenso, immutato piacere.
Le tue storie hanno sempre un tocco in più, una profondità rara che poco si trova nelle ff che si trovano in giro per il web; bello questo spunto/influenza preso da 'Canto di Natale' con i fantasmi di Masumi che tornano a tormentarlo e a indicargli la strada prima che si perda davvero... e Maya è sempre quella più consapevole, a dispetto della sua presunta ingenuità, almeno in alcune delle tue storie, forse perchè l'esperienza del teatro l'ha resa tale.
Complimenti come sempre.
 
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