L'amore di Isshin

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view post Posted on 10/8/2015, 13:25
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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La storia di Akoya, da cui il racconto prende le mosse, si incrocia con quella di Maya e Masumi (che partono al capitolo IV). E' il uovo punto di vista della "nota saga" di A Scarlet Rose.Buona lettura!

Capitolo Primo



L’amore della dèa



“Albeggia.”
Questo pensiero attraversò la mente di Isshin, mentre, ancora incerto, si levò leggermente dal suo giaciglio ad osservare il blu ancora intenso e non baciato dal sole della volta celeste.
Nuvole fosche, in lontananza, indicavano che quella era stata una notte di tempesta.
Lo scultore sacro aveva a stento preso sonno. Aveva patito gli spifferi freddi che penetravano attraverso le porte scorrevoli non perfettamente aderenti al pavimento.
Gettò uno sguardo su alcuni ceppi di ciliegio, posti a ridosso della parete spoglia alla sua destra.
“Anche il lavoro, come la mia vita, è a un bivio.”
Il capo villaggio gli aveva affidato una impresa quasi ardua: costruire il portale in legno del nuovo tempio shintoista. Isshin era un uomo di grande levatura morale, conosciuto anche al di fuori della sua comunità religiosa, ma la sua fede, per quanto all’apparenza incrollabile, era ancora piuttosto incardinata sul dubbio.
Che forma avevano gli dèi? E, se non ne avevano una, di che cosa erano fatti? Provavano amore per le creature o le avevano poste sulla terra senza fine alcuno, destinandole anche all’autodistruzione? Essendo d’indole buona, il giovane scultore provava quasi orrore per quanto non riusciva a spiegarsi: la guerra, da lui ritenuta un abominio, era una costante della storia dell’umanità; troppo frequentemente l’innocenza dei fanciulli era violata; gli oltraggi ai deboli da parte di chi esercitava il potere costituivano legge infame.
La pena di morte, poi, era il culmine delle nefandezze.
Cosa avrebbe dovuto scolpire, su quel portale? Isshin proprio non sapeva donde iniziare il suo lavoro.
Il capomastro, un uomo di circa sessant’anni, entrò nella sua cameretta con passo felpato.
“Sensei…” disse il giovane levandosi “Buongiorno…”
E si chinò in segno di rispetto.
“E’ un grande giorno, per te.” Fece l’altro sorridendo e mostrando con naturalezza la bocca sdentata.
“Già…” masticò l’allievo poco convinto.
Strinse con vigore il suo obi alla vita:
“Che debbo fare? Io…non ho idea di cosa scolpire. E’ come se, tutt’intorno, vi fosse solo menzogna…inganno…”
Vide che il maestro arcuava le labbra, gli occhi stretti di chi conosce da più tempo la disillusione e l’angoscia che da essa deriva.
“Se l’uomo vive nell’inganno, l’inganno sarà rappresentato. Se vive nel sogno, narrerai <il tuo> sogno.” Disse con bonaria ironia.
“Ma dov’è la verità?” chiese con impeto Isshin.
“Pensi che, a questo mondo, ci sia qualcuno che conosca l’aspetto della verità? O i fini degli dèi?” domandò serio il suo interlocutore.
Dal suo volto era scomparsa ogni traccia di ilarità: era, adesso, preoccupato che quell’intoppo esistenziale potesse nuocere al lavoro e al futuro del suo allievo prediletto.
“Ed è questo il punto.” Sottoscrisse il giovane “Come si può credere in qualcosa che non si vede? E perché esiste l’ingiustizia? Dove vivono gli dèi non si conosce il dolore, mentre il mondo ne è pieno…”
“Le dichiarazioni che fai odorano di empietà, figlio mio.” Affermò con rammarico il maestro “Ed è triste che, proprio oggi, esse ti tentino al punto da bloccare la tua attività.”
Isshin terminò davanti a lui la vestizione, quindi prese a preparare la sua bisaccia.
“Ti prego di andare avanti, quest’oggi.” Disse convinto, ma senza guardarlo in faccia “Di’ al monaco shintoista che farò tardi.”
“Che intendi dire, ragazzo?” chiese allora concitatamente l’anziano “Non puoi tardare! Si dirà che non hai a cuore ciò per cui sei stato chiamato! È un grande onore per te che sei buddhista! Chiamato addirittura dal tempio shintoista a scolpire il portale del nuovo edificio sacro!…E tu fai torto a chi ha riposto in te la sua fiducia!”
“E’ proprio per non farmi beffe di essi che devo andare via, ritrovare la mia ispirazione.” Dichiarò Isshin chiudendo con uno scatto deciso la borsa coi suoi attrezzi “Debbo cercare un senso – anche uno soltanto! – a ciò che non mi spiego.”
“E pensi davvero di poterlo trovare, stolto?!”
La mano del maestro, rugosa e tremante, si poggiò sul suo avambraccio.
“Ci sono centinaia di cose <sbagliate> a questo mondo!” proseguì “Di cui persone umili come siamo io e te non potranno mai trovar spiegazione!”
“Umiltà, dunque, significa accettare spiegazioni sciocche e banali?” fece Isshin con rabbia “Sono diventato buddhista perché sono stato accolto, dopo la morte dei miei genitori, da una comunità buddhista. In altre parti del mondo, poi, esistono persone che non credono affatto in Buddha né lo conoscono anche solo per nomina!... Quale dio ha ragione? E quale ha torto? Chi conduce alla salvezza?! Cosa significa questo, mio Maestro?”
“Significa che sei un blasfemo e che non hai nessun diritto di stare in questa comunità!” urlò l’anziano percuotendolo violentemente sulla spalla col suo nodoso bastone “Sei stato accolto come un figlio e questo è il tuo grazie! Sarai maledetto dagli uomini, rejetto!”
Il giovane scultore sorrise mestamente:
“Forse, la maledizione degli uomini mi varrà la benedizione di un dio, in qualunque modo egli si chiami.”

***


Passarono diversi giorni.
Nel piccolo villaggio nessuno più ebbe notizie dell’uomo che, per viltà o altro, aveva rifiutato di scolpire il portale del tempio shintoista.
Isshin vagava per i boschi senza troppa convinzione, rimuginando tra sé e sé riguardo a ciò che, per tutta la vita, gli era stato insegnato in merito agli dei e al culto. Cose che, di minuto in minuto, assumevano un significato relativo.
Le sue certezze di ventenne erano definitivamente scosse davanti alla vita. Si sedette sotto un albero a contemplare una statuetta votiva grande non più di due palmi e sorrise con amaro rispetto.
Incrociate le gambe, tirò fuori gli arnesi del mestiere e iniziò a scolpire.
“Sembra che stia flagellando questo povero ceppo…” masticò tra sé.
“Che stai facendo qui?” gli urlarono alle spalle pochi istanti dopo “Sei un monaco? …una spia?”
Isshin tirò indietro il lungo ciuffo scuro, rivelando iridi azzurre penetranti.
“Sei uno straniero…” proseguì l’uomo che lo aveva quasi aggredito “Che cosa vuoi? Ti è proibito procedere per questo bosco.”
“E’ tuo, il bosco?” chiese allora lo scultore riprendendo a modellare il legno.
Ciocche di lisci capelli neri gli ricaddero davanti agli occhi azzurri, ondeggiando alla brezza che, dolcemente, attraversava le foglie.
Lo stupore dell’altro montò alle stelle:
“Non hai paura? Bada che sono armato! Ti ho già detto che non puoi stare qui. Il bosco non apparterrà a me, ma neppure a te.”
“Non intendo disturbare nessuno.” Replicò Isshin serio, una calma glaciale nel tono di voce caldo “Sbagli, se pensi che voglia attaccar briga. Sono rejetto dal mio villaggio: se uno dei miei…concittadini mi trova, ha il permesso di uccidermi. Se intendessi farmi ammazzare da qualcuno, non farei tanta strada.”
L’uomo sedette di fianco a lui:
“Sei un ladro, allora. Capisco la tua situazione. Io sono il capo di un gruppo di briganti: siamo famosi, nelle valli intorno a Nara. Razziamo nelle case dei ricchi samurai, che il demonio se li porti via!…Credono d’essere i padroni del mondo.”
“Nara?” ripeté Isshin come folgorato “Non posso credere di avere fatto tanta strada…”
“Da dove vieni, ragazzo? Sei curioso. Solitamente, quando mi si incontra, i pusillanimi fuggono a gambe levate, ma tu hai retto il mio sguardo sin dal primo istante. Ciò è degno di stima.”
“Sbagli.” Quasi troncò lo scultore “Non ti ho mai fissato. Se l’avessi fatto, probabilmente sarei fuggito anche io…”
Udì il brigante sospirare:
“Di certo, sei un artigiano. In due minuti, hai realizzato qualcosa di incredibile.”
Chiese al giovane di passargli il ceppo abbozzato, cosa che Isshin fece, seppur con riluttanza.
Maki – così si chiamava il brigante – girò tra le mani l’oggetto come fosse ispirato, un tenue sorriso sulle labbra.
“Sei un artigiano, sì.” Riprese “Ma anche un monaco o qualcosa. C’è un’anima, dentro questa statuetta. Ispira benevolenza.”
“Dici?” chiese il ragazzo non troppo convinto “Devo simulare piuttosto bene ciò che non sento…”
Maki gli rese la scultura:
“Simulano gli attori e tu non mi sembri un attore. Che cosa ti porta a vagabondare?”
“Il non senso.” Replicò serissimo Isshin “Per tutta la vita ho creduto di dover agire in virtù della fede che mi sosteneva. Poi, un giorno, mi sono scontrato con l’amara realtà ed eccomi qui, privo di certezze.”
“Se non credi negli dèi, perché scolpirli?” chiese il brigante interessatissimo.
L’altro lo fissò dall’alto in basso: indossava un buffo panciotto che gli tratteneva a stento il ventre enorme; i suoi baffoni erano rivolti all’insù, come da moda dell’epoca. Gli occhi piccoli trasudavano sincerità e una certa allegria anche.
“Non so fare altro.” Disse lo scultore sacro “E vado in cerca di ciò che io stesso ho rinnegato.”
“Sai come si dice in giro?” rise Maki “Gli uomini creano gli dèi quando non sanno spiegarsi la morte.”
Si abbassò un poco fino a lambire l’orecchio di Isshin, che, però, non si mosse di un millimetro.
“Vedi…” fece sottovoce il brigante “Io ci penso spesso alla morte. Quando vado in battaglia, insieme ai miei compagni, la sento prossima. Mi ammicca sorniona: prima o poi, si prenderà anche me. Io sono già abbastanza vecchio, del resto…Penso che, se davvero esiste un <altrove>, non è così male. Cioè, tu muori e, poi, ti reincarni…Non si dice così?”
“Non chiederlo a me!” esclamò lo scultore “Ti ho appena detto che non credo in niente…”
Maki lo sgomitò:
“Neppure io ci credo. Non credo in quello che raccontano i monaci, ma, come c’è una morte, so che ci sono anche degli dèi, in giro. La natura è così grande e la morte è parte della vita: un animale morto è fonte di sostentamento.”
“Se vuoi metterla in termini così semplicistici, fa’ pure.” Disse Isshin incupito.
Gettò il ceppo ai piedi della statuetta votiva con uno scatto rabbioso:
“E’ legno, dannazione. Arriva l’acqua e lo fa marcire! Arriva il fuoco e lo arde. Senza lasciarne traccia! Come può una cosa del genere arrivare al cuore degli dèi? Come impetrare una grazia? Perché un dio o una dèa dovrebbero curarsi dell’uomo? Tu, Maki, con tutto il rispetto, sei la dimostrazione che essi non hanno pena per il destino degli uomini! Parlo di te, ma dovrei citare me medesimo: prima orfano, poi rejetto! E mi intrattengo con un brigante perché nessun altro uomo mi vuole tra i piedi…!”
Maki annuì stringendo le labbra:
“Come ti ho detto, neppure io posseggo risposte. Mi sono solo stupito del tuo coraggio e, in seconda istanza, della bellezza del tuo lavoro. Passa pure per il bosco, se può servirti. Dirò ai compagni di non toccarti, <uomo che non possiede la verità>…”
Isshin ridacchiò.
“Già.” Sottoscrisse “Sono una contraddizione vivente visto che il mio nome è <una verità>.”
“Isshin?” ripeté l’uomo “E’ davvero così che ti chiami?”
Il ragazzo annuì.
“Voglio chiederti un’ultima cosa.” Disse Maki sorridendo “Quella statuetta che hai gettato…vorrei proprio tenerla. Quando morirò, mi piacerebbe fosse arsa insieme a me.”
“Prendila pure.” Replicò Isshin nervoso “L’ho gettata, in fondo. Non mi importa del suo fato. Stai bene, amico.”
E si allontanò.

Capitolo secondo



Il brigante aveva parlato di Nara.
Isshin non riusciva ancora a crederci.
Aveva visto quella terra incantata quando era un bambino, poco prima che i suoi genitori venissero a mancare tragicamente nel conflitto tra due clan rivali.
Era un posto incantato, almeno per come se lo ricordava: circondato da montagne alte duemila metri, il piccolo villaggio pareva uno scrigno prezioso. Il verde degli alberi ad alto fusto si confondeva col marrone e con le trasparenze dei numerosi corsi d’acqua che cingevano l’abitato. Ma c’era un luogo, quasi un sogno ad occhi aperti, che catturava sopra ogni altro i pensieri del giovane uomo.
Sorrideva, mentre camminava di buona lena, al ricordo di una vallata posta un po’ più sotto rispetto al villaggio, un luogo protetto da strapiombi spaventosi, cui era possibile accedere attraverso un ponte di funi piuttosto malmesso. Era l’unica via per arrivare ad un tempio all’interno del quale si venerava una divinità femminile.
Non se ne rammentò il nome, ma la cosa non gli parve grave né preoccupante.
In un baleno, come fosse guidato da una forza misteriosa, si trovò prossimo al ponte dei suoi ricordi: le vertigini, guardando dabbasso, lo assalirono, ma fu subito distratto da un tintinnio delicato.
“Campanelli?” fece tra sé girandosi a destra e a sinistra.
La nebbia, resa scarlatta dagli alberi di susino che svettavano in ogni dove, rendeva ogni tanto visibile il vuoto sotto i suoi piedi.
Isshin non avvertiva né caldo né freddo: la paura di camminare col nulla sotto di lui si confondeva con l’euforia di ritrovarsi nei luoghi dell’infanzia.
Sentì scrocchiare le funi quando i lunghi piedi presero a percorrere il ponte.
“Non è proprio come quando ero fanciullo…” sorrise “All’epoca, pesavo molto meno.”
Di nuovo suono di campanelli.
Il passo si fece più lesto, mentre le mani afferravano due rientranze di corda: ma un insieme di cause fisiche e misteriose insieme fecero sì che, quando si trovasse nel mezzo del ponte, una parte di esso cedesse, facendolo precipitare verso il basso.
“Dèi!” imprecò Isshin aggrappandosi all’unica corda rimasta intatta.
Penzolava nel buio, spaventosamente.
“E’ la fine…!” pensò tra sé, mentre l’angoscia lo stringeva sempre di più.
Il fiato già mancava a causa del panico galoppante.
La mano, pur ferma, iniziava a dare segni di stanchezza. Nello sfregamento causato dalla caduta, la sinistra si era ferita e delle gocce sottili di sangue scivolavano ora sul braccio ora sul viso dello scultore.
Allo scultore parve di berlo: era amaro e si mesceva a lacrime disperate.
Prima di precipitare nel vuoto, gli sovvenne il viso scolpito di una divinità femminile e fu inondato da un senso di pace.

***


“Forse è così, quando si muore.”
Isshin vide se stesso su un giaciglio paglia profumata. Si contemplava <dall’alto>, come se il suo spirito fosse già sopra le spoglie mortali.
Ma non poteva essere davvero la morte.
Questo perché, man mano che la coscienza di sé tornava, anche i dolori alle ossa e alla testa diventavano <presenti>, pulsanti.
Provò a muoversi, ma non poté.
Cacciò quindi un urlo angosciato, nella speranza, forse, di essere udito da qualcuno. La stanza era deserta: si udiva il ticchettio della pioggia, all’esterno.
Nessun segno di umanità. Come avrebbe fatto ad alzarsi? Chi lo avrebbe curato?
Chi lo aveva soccorso, evidentemente, lo aveva abbandonato in quel luogo.
Era un tempio antico: il legno delle pareti, marcio in più punti, odorava di muffa e di vecchio. Le pareti di carta di riso erano macchiate e la stufa a legna spenta.
Il suono dei campanelli lo destò dal suo torpore.
“Ma che diavolo è?” fece infastidito.
La porta scorrevole si aprì quasi di scatto, rivelando una figurina di giovane donna.
“Perdonami!” esclamò ella sollecita “Non avrai avuto paura, spero! Ero uscita a raccogliere delle radici per prepararti un infuso.”
“Radici…” ripeté Isshin “Ma chi sei? Dove…dove mi trovo?”
“Sei a casa mia.” Rispose la ragazza “Adesso accendo il fuoco. A Nara si passa repentinamente dal caldo al freddo, quando arriva l’inverno…Il temporale che è in corso segna l’addio alla luce estiva.”
Lo scultore sospirò:
“Nara?...E dove diamine è Nara?...io…non ricordo niente…”
“Imprecare non ti aiuterà.” Disse l’altra con tono serio “E’ già la seconda volta che lo fai. Sappi che è una cosa che non gradisco.”
“Scusami.” Mugugnò Isshin “Ma che pretendi? Sto dicendoti che non so neppure chi sono…”
“Sei vivo per miracolo.” Spiegò allora la ragazza “Sei fortunato ad aver perduto solo la memoria. Non ti sei rotto alcun osso. Alcuni alberi di susino hanno frenato la tua…corsa nel vuoto.”
“Sono caduto in un dirupo, è così?” chiese allora lo scultore.
“Più o meno…Ti trovavi su un ponte malmesso. È crollato a causa del tuo peso…”
Ella, nel mentre, aveva attizzato il fuoco e messo su un pentolino di coccio alcune foglie.
“Che intruglio vuoi darmi?” domandò di nuovo il ragazzo. Ma non ebbe risposta.
Isshin contemplò la figura che gli prestava soccorso. Era magrissima e anche piuttosto alta per essere una giapponese. I suoi occhi avevano una luce dolce, ma decisa.
“Sei molto giovane.” Disse lui “Sei certa di sapere come soccorrere un disgraziato?”
“E siamo a tre.” Si risentì la sua salvatrice “Non riesci proprio ad evitare di imprecare? Se non ne sei capace, almeno, morditi la lingua!”
“Akoya!” urlò una voce femminile, anziana, dal cortile “Vieni fuori, Akoya!”
La ragazza arrossì, quindi, scusatasi con Isshin, uscì fuori per andare incontro alla nuova venuta.
Isshin udì nitidamente ogni parola.
“Ti avevo detto di non prestare soccorso al forestiero! Può recare disgrazie! Il nostro villaggio non conosce la legge dell’ospitalità, dopo che, due secoli fa, un visitatore si rivelò essere <il messaggero del maligno>! È la prima cosa che insegnano a Nara!”
“Ma io non sono di Nara.” aveva replicato con dolce tranquillità Akoya “Nonnina, qualunque cosa tu dica, io farò ciò che devo. A che serve essere capaci di guarire, se mi è vietato?”
“Il capo villaggio è molto risentito con te! Che gli dirò, quando farò ritorno a casa senza di te?”
“Dirai la verità.” Era stata la risposta della fanciulla “Sai bene che mentire non è nella mia indole.”
“Si dirà anche che sei diventata sfrontata!” aveva sbottato la nonna “Tutta sola, nel tempio, con quel ragazzino!”
“Non abuserà di me.” Sorrise Akoya, facendo un passo indietro.
“Sì, sei proprio una sfrontata!” rincarò l’anziana “Ed io non posso farci nulla. Fa’ come ritieni giusto, ma sappi che la disobbedienza agli anziani è un peccato, agli occhi degli dèi.”
“Lo è anche abbandonare i bisognosi.” Mormorò Akoya abbracciando la sua parente con infantile trasporto.
Isshin udì passi pesanti allontanarsi e, subito dopo, la giovane fu da lui.
“Devi tornare al villaggio.” Disse “Non voglio che la tua reputazione sia messa a repentaglio a causa mia.”
Akoya lo fissò stupita:
“Finalmente, una espressione di sincera preoccupazione. Ma non dubitavo che ne fossi capace…”
“Non so di che parli.” Arrossì lo scultore sacro “Ho solo udito la vecchia: urlava ed era impossibile non carpire ogni singola parola del vostro conversare.”
La ragazza non gli diede retta e tornò ad occuparsi del suo infuso.
Isshin osservò le curve delicate evidenziate dall’obi scarlatto che le stringeva delicatamente il kimono alla vita. Pur essendo un semplice vestire, trasudava un che di regale, come se quella stoffa fosse particolarmente pregiata.
I capelli, nerissimi e lucenti, avevano le stesse sfumature della cinta.
“Non avevo mai visto un colore simile.” Disse vago “Non addosso ad una persona, per lo meno. Come fai ad avere una stoffa dello stesso colore della chioma degli alberi di susino, Akoya?”
Ella gli porse la scodella:
“Bevi, ora. È un infuso di radice di ginseng e di foglie di quercia: il ginseng ti darà energia, mentre la quercia è un rigenerante, oltre che un anestetico naturale.”
“Parli come un dottore.” Ridacchiò Isshin “O sei la figlia di uno speziale?...”
“Dovresti preoccuparti di ricordare il tuo passato, piuttosto che fare domande a me.” Replicò fintamente piccata Akoya.
Si inginocchiò davanti a lui, facendo cenno con la mano di bere in fretta.

***


“E’ strano.” Pensava Isshin mentre, al braccio di Akoya, incedeva nella stanza per dirigersi all’uscita del tempietto “Dovrei essere disperato: qualunque uomo lo sarebbe. Privo del passato. Privo di un punto di riferimento certo.”
“A che stai pensando?” lo distolse la ragazza.
“Da quanti giorni sono qui?” chiese allora lo scultore provando a camminare con le sue gambe. Ma un capogiro lo costrinse ad aggrapparsi di nuovo a lei.
“Sei salda come una roccia, nonostante il fisico esile…Come fai?”
“Non riesci a fare una domanda per volta?” domandò simpaticamente Akoya.
“E’ che mi incuriosisci.” Rispose franco il giovane “Credo che la curiosità sia una mia dote, anche se non ne ho ricordo alcuno.”
“Sei qui da tre giorni.” Spiegò allora l’altra “E sono forte perché gli dèi – siano essi benedetti! – mi hanno reso tale.”
“Gli dèi, se esistono, ti hanno fatto un sacco di doni, oltre alla forza fisica.” Disse Isshin, ma subito si pentì del suo dire ed Akoya, come se gli leggesse nel pensiero, non ebbe ancora a redarguirlo per la sua empietà.
“Sei un’anima in ricerca, è così?” chiese quest’ultima scrutandolo negli occhi.
“E chi lo sa?” fece di rimando lo scultore “Come sai, non rammento nulla. Forse, sono un assassino o un falsario. A giudicare dai vestiti che indosso, non appartengo a famiglia nobile.”
“C’era una cosa, vicino a te, quando ti ho trovato.” Mormorò quasi riluttante Akoya.
Isshin la fissò interrogativo mentre ella, fattolo sedere su una panchetta di legno, tornava indietro, all’interno della casa, per andare a recuperare una scatola di pelle chiusa da una fibbia dorata.
“Credo ti appartengano.” Disse porgendogliela.
Il giovane, senza replicare, prese ad armeggiare con la chiusura.
Uno scatto e dieci scalpelli da scultore si presentarono alla sua vista: ogni lama era lucidissima. L’impugnatura di ognuno era di legno pregiato, lucido anch’esso nelle parti non destinate ad essere impugnate.
“Se questa roba è tua, di certo non sei indigente.” Sorrise Akoya.
“O, forse, sono un ladro.” Replicò amaro il ragazzo.
“C’è un solo modo per scoprire se gli scalpelli ti appartengono.” Disse allora la sua giovane interlocutrice.
C’era una catasta di legna, poco distante da loro ed Isshin intuì immediatamente il suo pensiero. Tuttavia, se la memoria non lo aiutava, lo stesso non poteva dirsi dell’istinto dell’artista:
“Non si può scolpire legna da ardere.”
Akoya arcuò le labbra.
“Te ne intendi, a quanto pare…” motteggiò.
Isshin appoggiò il mento al palmo della sua mano sinistra, che bruciava ancora un poco a causa dello sfregamento della corda.
“Se anche me ne intendessi, non cambierebbe nulla.” Fu il pessimistico commento mentre scambiava una rapida occhiata con la giovane.
L’aveva sentita <inquieta>, mentre gli porgeva la scatola di pelle ed ora era lui medesimo a provare una sorta di riluttanza: non riusciva a capire cosa potesse significare.
“Sai che, da quando viviamo qui dentro, ho come l’impressione di capire che cosa ti passa per la testa?” chiese a bruciapelo quand’ella ebbe preso posto di fianco a lui.
La bocca di Akoya, allora, si aprì ad un sorriso così splendente da fargli battere il cuore.
“Ne sono lieta.” Fece “Vedi, è così che gli uomini dovrebbero vivere. Occorrerebbe smettere di fronteggiarsi, capire le rispettive esigenze…Amarsi, semplicemente.”
Divenne rossa.
“Se ad amarsi sono un uomo e una donna diventa tutto più semplice.” Disse Isshin senza neppure cogliere la portata delle sue parole “Mentre è assai più arduo che a comprendersi siano più uomini: tu litighi con tua nonna. Io non ho passato e, probabilmente, sono un rejetto.”
Sentì la mano piccola e calda di Akoya stringere la sua.
Entrambi guardavano nella medesima direzione, guardavano lo stesso punto indefinito davanti a loro.

Capitolo terzo



Isshin mise piede nel villaggio di Nara in un freddo tardo pomeriggio d’inverno. La neve, ai bordi delle strade, aveva creato bizzarre sculture, che molto gli rammentavano le bambole kokeshi.
Sorrise, guardandosi intorno in cerca di Akoya.
C’era una fiera o qualcosa di simile.
La gente lavorava alacremente come se il sole splendesse: le ragazze giovani, chine davanti ai banchetti della frutta o del pesce, erano piacevoli d’aspetto, ma nessuna eguagliava la bellezza della sua salvatrice. I suoi setosi capelli neri con sfumature scarlatte erano davvero singolari, per non parlare dello sguardo lucente e del portamento regale.
Se fosse nata in una reggia, Akoya sarebbe potuta diventare una splendida principessa.
Dacché era guarito, la ragazza era tornata a vivere con la nonna e, per conseguenza, egli rimaneva solo a lungo, in compagnia soltanto della scatola di scalpelli che ella gli aveva portato.
Tuttavia, non una statua o un solo abbozzo era uscito dalla sua mano sapiente, ché si sentiva come bloccato da dentro.
E non poteva immaginare che quel <blocco> derivasse proprio dalla sua vita passata, dal suo rifiuto di credere in qualcosa che non poteva comprendere: il grande mistero della vita e della morte porta tanti uomini a una fede incrollabile.
O all’ateismo più coriaceo.
Ma, per quanto la convivenza con una giovane che non era sua sposa si fosse interrotta prima di trasformarsi in scandalo, la gente di Nara, chiusa in se stessa per mentalità e tradizione, accolse Isshin nel modo peggiore, sottoscrivendo quanto l’anziana nonna, giorni prima, aveva urlato sprezzante alla di lei nipote.
Lo scultore senza passato, oltre a non dare notizia intorno al <perché> del suo arrivo per ovvi motivi, tradiva con estrema evidenza le sue origini <occidentali>. I grandi occhi azzurri lo smentivano all’istante, per quanto il vestiario fosse, fuor di dubbio, di fattura nipponica.
Ma come lo aveva avuto? E, se era vissuto sempre in Giappone, chi lo aveva condotto nella Valle? Era nato, forse, da una unione sconcia e clandestina?
Mentre incedeva tra le bancarelle, Isshin sentiva che, intorno a lui, veniva a crearsi un vuoto rumoroso, pieno di chiacchiere infondate. Tanto più infondate perché egli stesso non rammentava nulla.
Si sentì disgustato della faciloneria con cui si emetteva sentenza, ma non se ne stupì, ché conosceva l’indole umana.
Si sentì sfiorare da due mani dalle dita lunghe e sottili e comprese, prima ancora di voltarsi, che si trattava di Akoya.
“Ti ho cercata dappertutto.” Fece arrossendo “Stamane non sei venuta…”
Ella schiuse la bocca al sorriso:
“Vuoi dire che non hai trovato la colazione…?”
“No…” disse prontamente Isshin “Non volevo dire…cioè, è solo che dormivo della grossa e non ti ho sentito.”
“Sono arrivata all’alba.” Spiegò la ragazza prendendo a camminare di fianco a lui, incurante dei commenti malevoli “Oggi, ho lavorato nella stalla. La nonna mi ha costretta a ripulirla da cima a fondo perché dovevo fare ammenda.”
“E’ colpa mia, mi spiace.” Si rammaricò lo scultore scrutandola di sottecchi.
Ella non appariva per nulla preoccupata.
“Io amo stare a contatto con gli animali.” Proseguì Akoya “I loro escrementi puzzano esattamente come quelli degli uomini… Inoltre, da essi si imparano molte virtù.”
“La pazienza di certo.” Le fece eco Isshin “Non ti accorgi che siamo additati da tutti gli abitanti del villaggio?”
“E allora perché sei venuto a cercarmi?” chiese la ragazza divertita “Era ovvio che suscitassi un gran vespaio…Se volevi evitare chiacchiere, potevi anche non venire. Anche se…”
Il volto del suo interlocutore, rosso d’emozione, si fece interrogativo.
“Anche se sono felice tu lo abbia fatto!” cinguettò Akoya con una dolcezza nella voce che lo sciolse del tutto.
Ella si <legò> al suo braccio e, incedendo, prese a presentarlo a chiunque le capitasse di incrociare.
Isshin udì nitidamente qualcuno che diceva:
“Guarda, è lui l’uomo di Akoya…”
E pensò che, forse per la prima volta nella vita, sentiva l’esigenza di dedicarsi a qualcuno, di proteggerlo, di amarlo.
Senza immaginare come potesse essere possibile, si era scoperto attratto da quella ragazza sconosciuta e misteriosa. La sua dote, un misto di bellezza e saggezza, era appetibile agli occhi di un giovane pieno di valori qual era lui.
In quella o in una vita precedente.
“Senti, Akoya, non ti sembra di vivere troppo all’occidentale?” le domandò a bruciapelo mentre passeggiavano.
“Seguire il proprio cuore significa vivere all’occidentale?” fece di rimando l’altra “Allora, sì, vivo sicuramente all'occidentale. Di che cosa ti preoccupi, mio caro?”
“Sei una ragazza in età da marito e ciò potrebbe nuocerti.” S’arrischiò Isshin fermandosi di colpo davanti a lei.
Voleva carpire la sua reazione e la cosa ebbe su di lui un effetto ancora più devastante.
“Un uomo cui piaccia una donna e a cui questa donna fa capire di provare i medesimi sentimenti può commettere tante imprudenze.” Disse con un fil di voce lo scultore.
I lunghi capelli di Akoya gli lambivano, ora, le braccia.
“Di quali imprudenze parli? Per quel che ne so io, un uomo e una donna che si innamorano, s’amano e basta.” Fu la sua risposta.
“Sei una donna strana. Ed io lo sono altrettanto. Se fossi una persona dabbene, dovrei fuggire lontano da te mille miglia, ché le tue parole odorano di spaventosa leggerezza. Una ragazza in età da marito, come ho detto prima, deve trovarsi <degna>.”
“Ma tu non mi consideri indegna.” Sorrise maternamente Akoya “E’ così, mio caro?”
“Se anche lo fossi, non riuscirei a frenare…” provò a dire Isshin.
Ma la nonna, che li aveva seguiti come un segugio per buona parte del tempo, batté forte sulla sua spalla, facendolo sussultare:
“Hai proprio deciso di essere la causa della rovina di mia nipote, oltre che di tutta la valle?”
Il volto dello scultore si fece subito cupo.
“Nonna!” la rimproverò Akoya “Stai dicendo delle parole tremende! Come puoi dire che Isshin è foriero di sventure! È una creatura degli dèi e nessuna creatura degli dèi può essere fonte di disgrazia!”
Isshin ridacchiò amaro:
“Ne sei davvero persuasa, dolce fanciulla?”
Si stupì di sé e del suo dire. Pareva, infatti, che qualcuno gli avesse messo in bocca quelle parole: il loro suono non era del tutto nuovo alle sue orecchie.
“Gli uomini” proseguì Isshin “hanno una volontà che tende al male e, quando si avvicina il loro tempo, si affidano agli dèi. Ma chi può dire se esistano?”
“Blasfemo!!!” urlò l’anziana.
Egli lasciò Akoya costernata in compagnia di sua nonna.
I passi lo condussero di nuovo nella zona sacra, dov’era stato accolto e curato dalla sua salvatrice.
“Se questo posto fosse davvero caro agli dèi, un indegno come me non potrebbe neppure accedervi. Sarebbe fulminato all’istante.”
Si accucciò sotto un albero di susino come fosse assalito da oscure forze e iniziò senza volerlo a piangere sulle proprie miserie.
Non era il passato che gli mancava.
Non gli importava del suo nome, da quando viveva a Nara. Akoya si rivolgeva a lui con affetto in ogni caso. Eppure, c’era qualcosa che lo rimandava alla sua indegnità.
Ella non temeva di essere <leggera> agli occhi del popolo e ai suoi stessi occhi di giovane uomo ancora scapolo, ma lui sì: aveva paura di non meritare affetto.
Non da una creatura tanto speciale.
La conosceva da pochi giorni e già i tormenti d’amore erano straripati dal suo cuore fino a raggiungere la testa, ora piena di lei. Nutriva troppo rispetto per approfittarsi dell’affetto che sentiva provenire dalla stessa Akoya.
Ma, anche se ricambiato con evidenza, non poteva ambire a qualcosa di diverso che una semplice amicizia: il villaggio lo accettava a malincuore, per non parlare del parentado della ragazza.
Se avesse potuto ucciderlo con le sue mani, la nonna lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
“Gli uomini sono pieni di sciocche superstizioni. Ed io non faccio eccezione.”
Mentre parlava così, una pioggia di petali scarlatti prese a cadere dalla chioma dell’albero presso il quale aveva trovato rifugio.
La sinfonia di colori che si aprì davanti a lui gli tolse ancora una volta il fiato: il bianco della neve e il rosa si fondevano magicamente, come a rammentargli qualcosa di arcano.
“Mistero! Tutto è mistero!” sbottò “Il mistero è la causa dell’infelicità dell’uomo.”
Mentre si alzava, una figura delicata si palesò, da lontano, alla sua vista. Era coperta dal kimono, certamente per ripararsi dal nevischio gelido.
Eppure – Isshin ne era certo – non c’era gelo, in quel momento.
“Chi c’è laggiù?” chiese “Fatti vedere!”
Due passi in avanti, ma, mano a mano che procedeva, la figura si faceva più evanescente, lasciando lo <spazio visivo> ad una pianta secolare maestosa, dal fusto incredibilmente possente.
Le curve del susino scarlatto erano sinuose; parevano turbini in fuga verso le stelle e i petali che cadevano da esso creavano a loro volta piccoli vortici, quasi ne imitassero la postura.
Raramente, il giovane scultore si era trovato davanti un albero così incantevole.
Appoggiò la mano ad una piega legnosa, percependone forza e calore. Nel farlo, aveva pensato per qualche oscuro motivo ad Akoya e, pertanto, il suo tocco era stato delicato, gentile.
Levato il capo in alto, Isshin vide il cielo come aperto sull’universo.
“Com’è possibile tutto questo?” si chiese scioccato.
Tutt’intorno la neve sottile cadeva ricoprendo la ghiaia, la terra e qualsiasi cosa non fosse al riparo.
“E’ un braccio della Via Lattea…”
“E’ un mistero…” disse una voce femminile da dietro al tronco dell’albero. Isshin la ricondusse subito ad Akoya.
“E’ un mistero” Proseguì quest’ultima “che tutti gli elementi, seppur diversi, convivano insieme. La disarmonia è solo negli occhi dell’uomo, che pretende di ordinare tutto come fosse un dio. Le nuvole non possono convivere col sole. Le stelle non possono vedersi se nevica.”
“Akoya,” fece Isshin avvicinandosi di più “difendendomi da tua nonna, hai detto che l’uomo è pur sempre una creatura degli dèi e, come tale, sacra ai loro occhi.”
“L’uomo è una creature come tutte le altre, che aspira alla perfezione.” Rispose con saggezza la ragazza “Non c’è nulla di male nel vagliare le proprie capacità, realizzandosi attraverso i doni che la Natura ha concesso. Il <problema>, semmai, è la brama di sopraffazione che deriva dal prendere coscienza del proprio limite. Anche per noi, nella vita reale, esistono dei limiti. Il buon cittadino li rispetta e chi non lo fa non è un buon cittadino.”
“C’è una linea sottile tra la bontà e la malvagità.”
“Un fiore aspira ad essere quel che è.” Riprese Akoya “Ma non l’uomo. Tuttavia, mio caro, quella linea di cui parli, pur esistente, non separa la malvagità dalla bontà. È la luce che si contrappone all’oscurità. Ma, agli occhi degli dèi, l’oscurità è il potenziale, non <il male>.”
“L’uomo genera il male da sé, allora?” chiese lo scultore scrutandola negli occhi scuri “Dalla sua ansia di libertà scaturisce la perversione.”
Akoya sospirò:
“Si dice che, tra non molto tempo, il progresso umano sarà tanto e tale che questo mondo, la stessa valle in cui noi dimoriamo e ci sentiamo così protetti, cambieranno aspetto. Muteranno radicalmente.”
“Parli del terremoto?” l’incalzò Isshin “Non credo siano <punizioni> del cielo. Tutto il Giappone poggia su un grappolo di vulcani. Viverci sopra e pagarne lo scotto è automatico, non trovi?”
“Non mi riferisco alle punizioni.” Lo corresse con dolcezza l’altra.
Si appoggiò al tronco, come se traesse forza dalla creatura che, in qualche modo, sosteneva il suo peso:
“Non credo nelle punizioni del cielo come catastrofe fine a se stessa. Gli dèi non cercano la vendetta. Parlo, piuttosto, di quel che l’uomo saprà fare in piena autonomia: tra meno di cinquant’anni, si vedranno cose che, adesso, ci sembrano fantasie sciocche e assurde.”
“Ad esempio?”
Ella si scostò, prendendogli dolcemente un braccio:
“Verrà un tempo in cui solcheremo i cieli senza ali. E sarà solo l’inizio.”
“Da qualche parte, in Europa, lo fanno già. Con un pallone pieno di gas, pensa…” ridacchiò Isshin accostando il suo viso a quello della ragazza.
“E si arriverà a tanto altro, amor mio.”
Il ragazzo rimase di sasso. L’espressione accorata di Akoya lo aveva sconvolto al punto da renderlo immobile come una statua.
“Come…hai detto?”
La voce gli era uscita a stento.
“Amor mio…” rispose la giovane.
E appose le sue labbra su quelle di Isshin.

Capitolo quarto



Masumi Hayami depose il copione del capolavoro scomparso sul comodino di fianco al letto che l’ospitava.
Con l’altra mano, recuperò dal davanzale dietro di lui la sigaretta rimasta accesa, ma constatò subito che si trattava, ormai, di un mozzicone arso sino al filtro.
“Proprio bravo, Ichiren Oozachi…” masticò amaro “Hai creato una bel miscuglio di fandonie. L’unico personaggio credibile che ti eri preoccupato di creare lo hai reso pian piano un pusillanime succube di sentimenti e fantasie stereotipate. Isshin rappresenta la verità, ma solo perché crede in ciò che la stragrande maggioranza degli uomini crede. E, poi, se fossi stato minimamente convinto di quanto hai messo in bocca allo scultore, non ti saresti mai tolto la vita.”


“Perché gli uomini si combattono?” chiese Akoya guardando la natura circostante come fosse ispirata da ciò quanto colpiva i suoi occhi.
Si sganciò dallo scultore, concentrandosi sui primi colori di cui il sole nascente tingeva il cielo. Il pianeta Venere, luminosissimo, ne precedeva il sorgere.
Credeva che Isshin dormisse, ma non era così: il suo cuore in tumulto per quella notte di baci e tenerezze lo aveva come trasportato in una dimensione parallela, <beata>.
Ella strinse la sua mano, costringendolo ad aprire gli occhi.
“Akoya può dirsi perduta, dopo questo gesto avventato?” chiese divertita.
Lo scultore, invero, era serissimo:
“Se è questo che ti preoccupa, chiederò subito la tua mano al capo del villaggio…”
La giovane scosse il capo.
“Pensi che me ne importi?” fece di rimando “Cosa pensi, mio caro, del matrimonio? Ci sono alcune culture, al mondo, in cui per ritenersi sposati basta giacere insieme una notte. Lo sapevi questo?”
“Sarà una cultura più evoluta della nostra…” ridacchiò Isshin mettendosi a sedere.
“Anche gli animali si uniscono,” proseguì la giovane “ma nessuno si sogna di dire che quell’amplesso sia sbagliato.”
“Gli uomini amano costruire gabbie e schemi per evitare che l’anarchia prenda campo.” Sospirò Isshin “Cosa sarebbe se, domani, me ne andassi liberamente con un’altra? E se tu facessi altrimenti? Sarebbe il caos, non credi? I sentimenti sarebbero sviliti, ridotti al nulla. Ed io penso che, ad oggi, il vero amore, la vera amicizia e devozione, siano le uniche cose che nobilitino la nostra specie.”
“Stai tornando a ribadire che l’uomo ha natura malvagia.” Mugugnò la giovane accarezzandogli il viso chiaro “Ma non riuscirai a convincermi.”
“Tu riesci ad essere materna persino con tua nonna.” Sospirò Isshin poco convinto “Tutto è bene, tutto è buono, tutto è meraviglia. Eppure, poc’anzi, ti sei chiesta perché gli uomini si combattono.”
Akoya rimase stupita dal suo dire: era convinta di non essere stata udita.
“Ma davvero” tornò a chiedergli “dopo quanto vissuto con me, troveresti normale rivolgere il tuo cuore ad un’altra?”
Egli la strinse a sé con impeto, costringendola a ricadere sul giaciglio:
“Ma stai scherzando? Dopo avere conosciuto te, che sei il mio primo amore, pensi che me ne andrei in giro a cercare altro? E cosa c’è di meglio, per me, a parte Akoya?”
Ella sorrise deliziata:
“Se gli uomini e le donne vanno in cerca, si sposano e si lasciano, è perché non si sono congiunti realmente con l’altra metà del proprio sé. I disegni degli dèi sono tanti e tutti imperscrutabili. Ancor più grandi del pianeta che ci ospita.”
“Se, per ipotesi, l’anima gemella di tua nonna vivesse di là del mondo, ecco spiegato il perché della sua acidità.”
Risero entrambi di cuore.
“Forse, non hai torto, amor mio.” Sottoscrisse Akoya “Deve essere terribile vivere senza qualcuno che non si ama completamente. Sentirsi…a metà. Io non ho paura di nulla perché ti ho conosciuto, caro. Non mi importa se, domani, mi cacceranno via perché so che ti sarò accanto, in qualche modo. E tu sarai al mio fianco, è così?”
“Non potrei più lasciarti.” Disse il giovane scultore.
Ella annuì:
“L’individuo, in origine, era <uno>. E l’unità generava perfezione. Quando gli dèi crearono il mondo dal Caos, disposero che le creature popolassero la terra in quantità, ma non concessero loro la perfezione dell’uno perché già leggevano nel loro futuro il peccato di tracotanza di cui si sarebbero macchiati…”
Isshin ridacchiò amaro:
“Non so da chi tu abbia…saputo questa verità, ma mi pare qualcosa di spaventoso. Se così fosse, ogni individuo sarebbe condannato a non vivere il vero amore. Se l’altra metà dell’anima dovesse dimorare dall’altra parte del globo, nessuna felicità per l’uomo che resta solo.”
“L’amore vero è un premio.” Disse ispirata Akoya “Sovente, si trova racchiuso in un cespuglio di rovi taglienti, che fanno male, feriscono inesorabilmente, ma colui che godesse di quel sentimento anche per un solo istante nella vita, comprenderebbe in un soffio per quale motivo è nato.”
“Non lo so, Akoya.” Mormorò titubante il giovane “Sto male al solo pensiero di dovermi, un giorno, allontanare da te. Che cosa può mai significare questo?”
Ella gli accarezzò teneramente la guancia:
“Significa che siamo le due parti dello stesso uno. Siamo vissuti in simbiosi, nel pensiero degli dèi e, oggi, viviamo separati in due corpi mortali, come i due bracci di un medesimo fiume, come gli angoli di una figura geometrica…”
Si incupì un istante.
“Ormai, non mi è più possibile vivere separata da te.” Concluse accoccolandosi di nuovo al suo petto. Isshin l’accolse con tenerezza: non riusciva, però, a sentirsi sereno. Percepiva, per quanto le sue parole trasudassero saggezza, ogni suo turbamento, ogni sua inquietudine.
Sicuramente, il loro amore nato da semplici gesti e semplici conversazioni nascondeva radici forti: era quasi impossibile, per lo scultore, pensarsi senza Akoya e un sentimento del genere non poteva essere nato dall’oggi al domani.
“Dimmi, amor mio,” le sussurrò all’orecchio “pensi allora che, nell’altra mia vita, io e te fossimo congiunti?”
“Come adesso.” Rispose senza indugio la ragazza.

La lettura di Masumi fu distolta dal bussare delicato alla porta.
Senza troppa convinzione, egli ordinò che venissero avanti.
Non era né un inserviente né il direttore dell’albergo, bensì la sua solerte segretaria.
“E’ successo qualcosa?” chiese subito il Presidente della Daito Art Productions.
“A parte suo padre che, nel corso della mattinata, mi ha chiamato circa sessanta volte, è tutto nella norma.” L’informò Mitzuki sedendosi sulla poltroncina e accavallando le gambe in modo professionale.
Gli sciorinò il programma del pomeriggio, che Masumi udì appena.
Non era quanto gli interessava.
“Inoltre,” disse finalmente la donna “ho preso contatto con quello specialista di cui mi ha chiesto.”
Tirò fuori dalla cartelletta molte carte e prese ad esporle con cipiglio serio:
“La signorina Shiori soffre di una sindrome isterica. In questo, aveva visto giusto. Questa sindrome la porta ad un attaccamento possessivo nei confronti di chi le sta intorno.”
Disse altre cose che Masumi, sostanzialmente, conosceva per averne a lungo cercato spiegazioni sul web.
“La compulsione, tipica della malattia di cui ella soffre, è esercitata tanto nei riguardi della sua persona, di cui non sopporta la <limitatezza> quanto nei confronti delle persone che …toccano il suo cuore. Il primo problema è imputabile all’educazione ricevuta. Shiori non conosce la sconfitta: le è sempre stato accordato tutto. Finché è vissuta nella bambagia, lontana dai turbamenti amorosi, ciò che…era in lei non ha avuto modo di manifestarsi. Per ventotto anni, è praticamente rimasta chiusa in serra. Ha una passione per i fiori, che le ha sempre dato soddisfazioni perché vi è portata o perché è stata aiutata dai giardinieri di casa Takamiya…”
“Stai cercando di giustificarmi, Mitzuki?” chiese Masumi vuotando un bicchiere di brandy.
“Sto dicendo” puntualizzò la segretaria un poco infastidita “che è assurdo che si faccia carico di un problema non suo. Se anche fosse sua la colpa di quanto sta accadendo, nessuno pretende che lei rinunci alla sua felicità.”
Hayami arcuò le labbra.
“Tu e un tale che lavora per me sareste una coppia perfetta.” Ridacchiò.
“Sicuramente, se parla come me, è una persona sensata.”
Il giovane Presidente si levò in piedi, le braccia conserte:
“Perché pensi che me ne sia andato di casa?”
Ella lo fissò tagliente.
“Non ne sono del tutto convinta.” Disse “Non credo che abbia rinunciato al suo istinto autolesionista, signor Masumi. Nascere con questa indole non le giova e non le consente di godere di quel sano egoismo che una qualsiasi persona comune appellerebbe <istinto di sopravvivenza>.”
Hayami si rivolse a lei altrettanto serio.
“La settimana scorsa, quel dipendente di cui ti parlavo ha <attentato> alla mia vita.” Raccontò “Non fisicamente, ma sotto il profilo psicologico. Lì ho compreso che il mio equilibrio è fragile tanto quanto quello di Shiori. Specie in riferimento agli affari della Ditta M.”
“Lasci che le dica quanto non sopporti questo suo <tingere> di commerciale ogni cosa che conti.” Masticò Mitzuki.
“Io sono quel che sono.” Rise Hayami accendendosi una sigaretta “Francamente, la Ditta M resterà tale per sempre. Devo proteggerla come investimento. Dietro ogni investimento, ci sono persone che lavorano, vite che, grazie al lavoro, diventano degne d’essere vissute.”
“Un imprenditore che cita, senza volerlo, Marx è straordinario.” Fece a sua volta la segretaria.
“E’ tutto <straordinario>.” La corresse il giovane figlio di Eysuke “Il mondo intorno a me ha preso forma nel momento in cui ho scoperto di amare. Io non so dire perché quella ragazza abbia destato in me qualcosa di così forte: è un po’ quello che è stato per Isshin, in fondo. Non sapeva nulla di Akoya e già l’amava.”
“Il mistero delle anime gemelle.” Gli fece eco Mitzuki “Masumi-san, una volta mi ha chiesto se due persone che non si sono mai viste possono innamorarsi.”
“Sembra passato un secolo.”
“La risposta non è mutata. Credo che Oozachi sensei abbia visto giusto. L’amore di anime è qualcosa che chiama da lontano. Quando le due parti della stessa anima si incontrano, è impossibile che esse vivano separate. Farlo sarebbe follia.”
“Non posso credere che a parlare sia tu.” Rise di nuovo l’altro “Una donna pragmatica, piena di sano raziocinio!”
“E’ proprio perché sono concreta che le parlo in questo modo. Lei è, esattamente come quella ragazza, un investimento prezioso. Non voglio perderla e perdere, a mia volta, ciò che ho conquistato.” Chiosò pedantemente Mitzuki.
Masumi le sorrise grato, gli occhi socchiusi di chi è soddisfatto della risposta ricevuta.


Capitolo quinto



I giorni passavano lenti, a Nara.
C’è una quieta armonia nello scorrere monotono del quotidiano. La noia è figlia indiscussa dell’insoddisfazione e, di certo, Akoya ed Isshin non ne soffrivano.
Rubavano alla clessidra che, impietosa, si svuotava istanti preziosi e null’altro chiedevano se non di vivere come stavano facendo, circondati dalla natura amica, complici del loro stesso amore.
Senza sapere perché, una mattina Isshin riprese in mano i suoi arnesi: il portale del tempio in cui viveva era rovinato in più punti ed era suo desiderio compiacere la sua donna in ogni modo possibile.
Scalpello alla mano, prese ad eliminare le increspature dovute alle intemperie e al clima sostanzialmente rigido della regione.
Akoya fu deliziata di quell’inatteso regalo.
“Sì,” gli disse abbracciandolo “senza dubbio, questa è l’arte tua. Ed anche la garanzia che non sei stato un disgraziato, bensì un artista di grande valore.”
“Sto solo eliminando qualche crepa e dando una mano di carta vetrata.” Mormorò Isshin senza distogliere lo sguardo dal lavoro “Saper maneggiare qualche attrezzo non mi mette in salvo da quella possibilità.”
Si fermò, ripensando al brigante con cui aveva conversato tempo prima.
Pian piano la memoria stava tornando, ma si guardava ancora dal dirlo alla compagna: non che rammentasse nomi o circostanze. A <stuzzicarlo> erano, piuttosto, scorci di dialoghi e tutti avevano come tema lo spirito, gli dèi, l’indole degli uomini.
Le stesse cose di cui, in pratica, parlava con la stessa Akoya dal momento in cui aveva messo piede nella Valle sacra.
“Sai, ad essere onesto, non vedo più in modo <manicheo> il mondo.”
Akoya tacque: da persona innamorata qual era, pendeva letteralmente dalla sue labbra.
“Già prima di venire qui… prima di conversare con te e di scoprire il lato bello dell’umanità, ho iniziato come una sorta di percorso. Non che ricordi qualcosa di particolare, ma, oggi, ne sono persuaso. Prima di arrivare quassù, dovevo fare qualcosa. O stavo cercando qualcosa.”
Poiché era chino sulla sua cassetta degli attrezzi, non s’avvide dello sguardo un po’ confuso e pallido della giovane donna.
“Credo che la personalità degli uomini sia più varia di quanto non abbia voluto ammettere sino ad ora. Il fatto che esista la superstizione fa pensare che gli uomini ignoranti – la maggioranza, purtroppo – siano tutti uguali, ma non è così. Sono stato troppo duro sinora.”
“Mi fa piacere.” Mormorò Akoya come fosse morta “Era ora che smettessi di emettere ingiusti giudizi, mio caro.”
“Sì,” proseguì Isshin “avevo iniziato un percorso di vita, ma tu mi hai aperto gli occhi.”
“Sono solo una ragazza innamorata.” Sorrise l’altra “Si dice che, quando si ama, tutto il mondo appare diverso, più bello, più positivo.”
“Sei la persona più misteriosa che abbia mai conosciuto.” La lodò lo scultore “Ogni tanto, quando vieni a trovarmi, mi piace spiarti.”
“Mi spii?” si stupì ella “Che bisogno hai di spiarmi? Mi sono mai nascosta ai tuoi occhi?”
“No.” Fece Isshin col capo “Ti ho veduta bene. Conosco di te ogni parte, ma adoro anche <coglierti> in momenti solo tuoi.”
Il cuore di Akoya prese a battere all’impazzata, mentre, con viso arrossato, gli chiedeva implicitamente di spiegare quel pensiero.
Anche lo scultore si fece paonazzo:
“Ad esempio, mentre ieri spazzavi le foglie cadute, hai appoggiato la mano a quel vecchio acero laggiù: hai sorriso e mormorato qualcosa.”
La ragazza sorrise.
“Stavo solo assicurandomi che stesse bene.” Spiegò “L’anno scorso, un contadino voleva tagliarlo. Diceva che era malato e che avrebbe contaminato anche gli alberi vicini.”
Isshin trasecolò:
“E…tu lo hai impedito? Come hai fatto?”
“Al villaggio si stupiscono come te!” rise la giovane donna “Ma per me è naturale come l’aria che respiro: mi riferisco al conversare con gli alberi, con le piante. L’acero era stato attaccato da un parassita, ma io l’ho curato.”
“In che modo?” chiese sempre più stupito lo scultore.
“Quando siamo chiamati a curare gli uomini o gli animali, usiamo rimedi della natura e il nostro amore. Di cos’altro avrebbe avuto bisogno questo vecchio acero?”
“Non saprei.” Rispose l’altro “Di certo, io non ho la tua capacità di conversare o di…amare ciò che è inanimato.”
“Un albero non è diverso da un animale.” Disse Akoya saggiamente.
Lo invitò, quindi, a porre la sua mano sul fusto nodoso di un alberello di fianco all’ingresso del tempio.
“Cosa senti?” gli domandò sorridente.
Isshin levò le spalle:
“Calore, benevolenza…”
La fissò malizioso.
“Sto andando bene, amor mio?”
“Benissimo.” Fu il commento di lei, che cercò le sue labbra e ne ottenne un bacio pieno di affettuosa complicità.

Edited by LauraHeller - 10/8/2015, 15:21
 
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view post Posted on 10/8/2015, 18:07
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Questa non l'avevo ancora letta, ma l' ho fatto adesso. Bellissima, profonda e misteriosa, piena di quegli interrogativi che appartengono a uomini come Isshin, e devo dire che mi ritrovo tantissimo nei suoi mille dubbi sull'esistenza, sul senso dell'uomo nel mondo in relazione a bene e male, ai misteriosi disegni divini che ci appaiono il più delle volte incomprensibili.
La figura di Akoya è splendida e tenera, rappresenta l'armonia perfetta tra uomo e natura, armonia che l'uomo ha perso da molto tempo.
Masumi legge il copione in quella camera d'albergo, e forse, anche lui per quanto perplesso e scettico, è alla ricerca di qualcosa di vero nelle parole scritte da Oozachi.
Complimenti al solito, è sempre entusiasmante leggere quello che scrivi, non è mai banale o prevedibile, e questa ff induce a parecchie riflessioni.
 
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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Grazie, ScarLett. Ho sempre pensato di dover rendere giustizia ai lati che, comunemente, non vengono ritenuti convenzionali della personalità umana. Nei romanzi light, di solito, i personaggi sono strasicuri, strafighi, stratutto. Per me, il vero essere umano non ha nulla di "stra", anzi. E giunge al suo ultimo giorno tenendo in saccoccia ben poche certezze.


Capitolo Quinto

II parte



Maya e Yuu si staccarono l’uno dall’altra, quindi si levò un applauso da parte dei compagni di lavoro, unanimi nel ritenere la loro messa in scena di buona qualità.
Kuronuma, come di solito accadeva quand’era soddisfatto, si grattava la testa imbarazzato.
Chiamò a raccolta i due prim’attori e congedò, nel mentre, gli altri.
“Sono le undici di sera.” Esordì “Tra due settimane ci sarà la prima e voi due state lavorando bene a dispetto di tutto. Alla fine, persino il tuo incidente si è rivelato provvidenziale, ragazzo.”
E fissò le stampelle cui ancora Sakurakoji si reggeva.
“Mi toglieranno il gesso lunedì prossimo.” Spiegò serio “Finalmente, anche io potrò dare il meglio di me.”
Il regista sollevò le spalle, domandando a Maya di lasciarli soli.
Quando la ragazza fu fuori dalla loro portata, si fece altrettanto serio, quasi duro.
“Spero che, insieme al gesso, ti sarai anche tolto dal cuore i sentimenti vergognosi che provi. Quella ragazza non li merita.” Sentenziò come non aveva mai fatto.
“Lei non può capire.” Si difese subito Yuu “Amo Maya da quand’ero un ragazzino delle medie. E…”
“E non tolleri che lei rivolga il suo cuore a un altro?” chiese Kuronuma accendendosi una sigaretta “Una persona che sia incapace di rassegnarsi non è sana.”
“Non <tollero>?” ripeté il giovane “Non è esattamente così: io non posso perdonarmi di averla lasciata andare quando sapevo che provava qualcosa per me. Era solo l’inizio, certo, ma ho messo l’oceano tra noi, nel momento in cui, per dimenticarla o per avere semplicemente successo, sono partito per gli Stati Uniti.”
Strinse i pugni dolorosamente:
“E…saperla finita nelle mani di quell’essere è quanto mi disgusta di più. Come è potuto accadere? Quando ha iniziato a nutrire per Hayami sentimenti d’amore? Lui è l’assassino di sua madre! Un uomo che ha sempre usato il prossimo per raggiungere i suoi squallidi fini! E Maya gli ha ceduto! Ha passato la notte con lui!”
Kuronuma emise una nuvola di fumo sopra di lui.
“E’ meno peggio di quanto tu non creda.” Disse calmo.
Il viso di Sakurakoji si fece interrogativo.
“Sì.” Riprese il regista “So che non è la persona squallida che in tanti additano. Ha fatto molto per quella ragazza ed io stesso gli sono grato per avermi offerto un rilancio. Non scenderò nei dettagli, ma volevo lo sapessi.”
“Che cosa avrebbe fatto per Maya?” domandò arrabbiatissimo il giovane attore.
Ma mentre formulava il quesito, la risposta, terribile, gli si insinuava nella mente in forma di tarlo altrettanto inaccettabile.
“Non me lo dica, la prego.” Masticò.
“Non ho prove a riguardo.” Disse il signor Kuronuma “Ma a me sembra piuttosto ovvio: dopo la crociera, non ho quasi più dubbi. Chi altri, a parte la persona che l’ha più presa in giro e ostacolata, può essere il donatore di rose scarlatte?”
“E’ allucinante…” prese a dire Yuu andando avanti e indietro per il palcoscenico.
Adesso, anche il rumore delle stampelle gli procurava noia.
“E’ impossibile: mi rifiuto di credere che sia il donatore di rose! Che gran bastardo! Che bruci all’inferno! Non è degno di lei: perché l’avrebbe sostenuta nel segreto, nascondendo il suo cuore, se, poi, si è fidanzato con un’altra donna?”
“Una donna che, forse, non potrà più sposare.” Fece titubante il regista.
Il cuore di Yuu perse colpi, ma tutto, ora, gli appariva dolorosamente chiaro:
“Cosa ha detto?...”



La nonna interruppe la loro conversazione facendo la sua apparizione da dietro un grande roveto:
“Sei qui, come temevo! Ti avevo avvertita: quest’uomo è messaggero di qualche spirito maligno! Non solo ti ha sedotto in modo scandaloso, ma ha causato sventura su sventura. Dacché ho fiato, mai, <mai> avevo veduto le guardie dell’imperatore varcare le soglie del villaggio! Stanno cercando qualcuno ed io non ho dubbi su chi sia quel qualcuno.”
Akoya ebbe un tuffo al cuore.
“Perché e chi cercano?” chiese Isshin levandosi in piedi e avanzando verso l’anziana.
Il suo volto era serissimo, gli occhi azzurri ridotti a fessure.
“Un artigiano di nome Isshin è colui che cercano. Un vile che ha rinunciato a scolpire una statua divina per empietà!” Spiegò la nonna.
“Non so come mi chiamo.” Mormorò lo scultore “Ma so maneggiare gli scalpelli, questo è certo. Essi conoscono il viso di quest’uomo? Perché, se è così, non ho nessun problema a palesarmi anche subito.”
Sia Akoya che la sua parente tacquero sconcertate.
“L’accusa di empietà è molto grave.” Iniziò piano la fanciulla “So che sei un uomo dabbene, mio caro, ma gli uomini a volte…”
“Non ho paura di essi.” Dichiarò perentorio Isshin “E tu, amor mio, sai che è giusto che io mi palesi.”
Lasciata la scatola con gli scalpelli aperta, ma al riparo sotto la tettoia, seguì la nonna.
Il suo viso, mentre incedeva, era terreo: non aveva paura di morire.
Altro lo teneva col fiato sospeso ed era <sentire> lo sguardo terrorizzato di Akoya sulla sua schiena. Tutto percepiva di essa: era l’amore di anime a metterli in reciproca comunicazione.
E, così, l’inquietudine di lei diventava anche la sua.
Al Villaggio, le guardie dell’imperatore lo circondarono immediatamente.
“Non so chi stiate cercando.” Disse Isshin fermo “Ho perduto la memoria e…”
Kusunoki, a capo della guarnigione, avanzò per meglio guardarlo in viso. Non appena ebbe incrociato i suoi occhi, non ebbe più dubbi.
Lo scultore, intelligente com’era, comprese di essere il <ricercato>.
Deglutì, sentendosi morire dentro.
“Vuole che lo mettiamo in catene?” chiese spazientita una delle guardie più prossime a Kusunoki.
“Aspetta.” Ridacchiò quest’ultimo “Non sono persuaso che si tratti della persona che cerchiamo.”
“Ma gli occhi azzurri coincidono!” sbottò l’altro “Quanti giapponesi con occhi simili ci sono, in giro?”
“Sei un facilone.” L’interruppe il generale “Non voglio rischiare di irritare ancor di più il grande capo tirando in ballo un qualsiasi individuo. Sei uno scultore, tu?”
E si rivolse di nuovo ad Isshin, che sentiva la mano di Akoya sul suo braccio teso.
“Le ho già detto che non rammento nulla del mio passato.”
“Che cosa volete fare allo scultore, quando lo troverete?” si arrischiò a chiedere la giovane compagna.
Kusunoki la guardò dall’alto in basso, provando un sottile turbamento.
“Non intendiamo ucciderlo.” Rispose “Semplicemente, l’imperatore ci ha chiesto di cercarlo per ricondurlo in città. Ha una missione da portare a termine.”
“E possiamo sapere di che si tratta?” si intromise malevolmente curiosa la nonna.
“Scolpire una statua della dèa.” Rispose senza indugio il generale.
“La dèa…” ripeté l’anziana come folgorata.
E si rivolse ad Akoya.
Isshin seguì quello scambio di battute con ansia crescente.


Maya andò incontro a Karato Hijiri con passo svelto.
“Come sta, signorina?” le chiese quest’ultimo consegnando tra le sue mani un piccolo bouquet di rose scarlatte.
Ella rimase ferma, nessun sorriso sulle labbra.
Era ovvio che cercasse una risposta precisa. Il collaboratore di Masumi comprese subito il perché dell’espressione al limite del corrucciato e sorrise:
“Il biglietto contenuto all’interno le svelerà un piccolo segreto.”
L’attrice, allora, con mani tremanti, mise mano all’interno del bouquet e trasse l’agognata <risposta>.
“Mi permette, signor Hijiri?” chiese emozionata.
“Naturalmente.” Rispose l’uomo soddisfatto.
Vedere Maya finalmente allegra era quanto recava sollievo al suo cuore in ansia.
Stava male tanto per Masumi quanto per la sua protetta: il suo superiore aveva accettato di incontrarla ad Izu, ma non era certo che avesse davvero deciso per il suo futuro.
Hayami appariva tutt’altro che convinto e il pensiero di Shiori gravemente ammalata costituiva un’incognita davvero oscura.
Maya Kitajima balzò letteralmente in aria, abbracciando il collaboratore ombra con foga.
Dunque, era deciso.
Anche la data, ben evidenziata sul biglietto, non lasciava dubbio alcuno.
“Sabato prossimo.” Disse emozionata “E sarà lei a venirmi a prendere, caro amico?”
Karato scosse la testa:
“Non mi chieda di arrivare a tanto. Ho del lavoro da sbrigare e, inoltre, non sono neppure convinto che il donatore di rose mi voglia nei paraggi.”
Maya divenne rossa sino alle orecchie.
“Sabato.” Pensò tra sé “Non si torna più indietro. Saremo onestamente l’uno davanti all’altra e faremo quel passo che non abbiamo avuto il coraggio di compiere sulla nave. Il signor Hayami si presenterà a me come il donatore di rose scarlatte.”
“Lei prenderà il treno alle quattro e tre quarti dalla stazione centrale di Tokyo.” Riferì professionalmente Hijiri “Giunta a destinazione, il guardiano della villa del mio principale si paleserà a lei. La condurrà dove deve.”
Maya congiunse le mani come fosse in preghiera:
“Dopo quanto accaduto, lo ritenevo impossibile.”
“Come le ho detto qualche giorno fa,” riprese l’uomo “si è trattato di una decisione assai sofferta. Non è un buon momento.”
L’attrice non poteva sapere che si riferisse a Shiori. Come sempre accade nell’alta società, le famiglie agiate si spendono in ogni modo perché ogni scheletro nell’armadio rimanga tale.
“Posso sapere di cosa si tratta?” domandò preoccupata “Vede, io ho avuto una conversazione, qualche tempo fa, con quella persona.”
Hijiri divenne terreo.
“Sarebbe lungo - e doloroso, anche - spiegarle in pochi minuti quanto accaduto.” Riprese Maya rossa sino alle orecchie “Lei è un uomo occupato e non voglio certo farle perdere tempo.”
Il collaboratore di Masumi, invero, era sorpreso che ella intendesse confidargli del viaggio in nave.
La ragazza si martoriava le dita incerta:
“Quando ho avuto quel momento di crisi, è stato perché ho visto un improvviso cambiamento, in lui. Mi aveva chiesto di aspettarlo. Sapevo – ne ero certa – che sarebbe tornato sui propri passi per me. Ma ho scoperto di recente che intende perseverare.”
“Non so a cosa si riferisca.” Balbettò imbarazzato Hijiri “Perseverare in che cosa?”
“Signore,” sorrise Maya “io credo che lei abbia compreso perfettamente cosa intendo. È per questo motivo che egli si è a lungo tormentato: lo so. Riesco a leggere nel suo cuore. Ha accettato di fare ciò che non voleva per andare incontro a suo padre. Un uomo che tema per il proprio futuro e per la propria posizione è un uomo destinato ad essere gravemente infelice.”
Hijiri sorrise bonario:
“Il denaro è l’ultima cosa di cui il signore si preoccupi. Ma è vero che ha accettato di compiere quel passo per non perdere i frutti del suo lavoro. E, se mi è permesso aggiungerlo, perché pensava, ormai, di aver perduto ogni speranza a suo riguardo, dolce Maya.”
“So di cosa parla.” Mormorò l’attrice con le lacrime agli occhi “La mia ostinazione ha portato a tutto questo. Per anni, mi sono ostinata a vedere tutto in maniera distorta. Eppure, lo sapevo. Non poteva essere diversamente.”
“Chiaritevi.” Fece Hijiri ponendo entrambe le mani sulle sue spalle “Cogliete insieme la felicità che entrambi meritate.”
 
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Capitolo Sesto



Yuu Sakurakoji corse fuori dal teatro a passo spedito.
Nella sua testa, il proposito di fare ciò che non aveva mai osato. Era a conoscenza dei <rischi>: non aveva ancora abbastanza potere; attraverso l’interpretazione di Isshin passava la sua <promozione> ad attore di razza; ma era anche convinto del fatto che solo in quel modo avrebbe potuto dimostrare a Maya quanto tenesse a lei.
Doveva ancora una volta vedere Masumi Hayami e capire quali fossero le sue reali intenzioni.
A Villa Hayami non c’era: dietro la scusa di dovergli comunicare importanti notizie su La Dèa Scarlatta, era riuscito ad estorcere alla cameriera la location del Presidente della Daito Art Productions.
Trasecolò apprendendo che non viveva più con l’anziano padre, ma in un albergo a pochi passi dalla sede della società.
Un’altra corsa in taxi e giunse al Ritz.
Ripassò il <copione> sentendosi uno scolaretto: ma, stavolta, avrebbe saputo la verità e, soprattutto, avrebbe avuto in cambio la promessa che più gli premeva.
“Chi ti ha detto che stavo qui?” l’accolse Masumi senza troppa grazia.
Non si scostò dall’uscio, per nulla intenzionato a discutere o a farlo entrare.
“Sono stato a casa sua.” Rispose sinceramente l’attore “Mi premeva parlare con lei ancora una volta.”
“A che proposito?” chiese l’altro infastidito all’inverosimile. Questo perché aveva intuito che l’argomento era proprio Maya Kitajima.
Se già il pensiero di doverla incontrare il sabato seguente nella Villa di Izu lo rendeva nervoso parossisticamente, l’ennesimo dialogo con Sakurakoji riempiva di dubbi la sua testa.
“Dobbiamo restare qui e rischiare di essere intercettati da qualcuno?” fece Sakurakoji acido “E’ del tutto ovvio che noi si ha un unico argomento in comune.”
Masumi lo spinse dentro quasi rudemente, quindi richiuse la porta.
Un tanfo potente di alcool e fumo raggiunse le narici del giovane attore: c’erano bottiglie di superalcolici sparse un po’ dovunque.
“E’ così che si occupa di affari?” disse Yuu portando una mano alla bocca come a trattenere un conato di vomito.
“Pago l’equivalente di settecento dollari a notte, in questo buco.” Fu la risposta del giovane Presidente della Daito “Potrò farne pure ciò che voglio, no? Allora, di’ ciò che devi e vattene.”
“Lei è ancora fidanzato con la signorina Takamiya.” Iniziò Sakurakoji “Perché ha provato a sedurre Maya?”
“Non ho fatto nulla.” Tagliò Masumi spossato “Qualcuno non ti ha spiegato che, nel mondo degli affari, ci si accapiglia come dannati per assicurarsi il <miglior prodotto> sulla piazza?”
“Già.” Sottoscrisse Yuu “Maya è una delle tante uova d’oro della Daito. Ha già l’altra dèa. Averne due sarebbe il top. Ma io ho visto altro. Ho entrambe le gambe fratturate perché sono certo di quanto ho compreso, vedendovi.”
“E che cosa avresti visto?” chiese spazientito Hayami.
“Lei l’abbracciava con passione. E Maya la ricambiava. Si percepiva dal vostro sguardo.”
“Maya Kitajima è solo una bambina. Cedere alle lusinghe di un uomo più vecchio, più potente e …piacente fa parte del copione.” Ridacchiò il figlio di Eysuke con un tono roco che pareva non lasciare dubbi.
“Allora, sarei contento se glielo dicesse in faccia.” Replicò Sakurakoji convinto.
Il cuore di Masumi si fermò un istante.
“Dirglielo sul serio. Definitivamente.” Ribadì il giovane.
“Mi pareva di avertela …caldamente consegnata. È tutta tua, ti ho detto…” sbuffò il Presidente della Daito come se la cosa non lo toccasse.
“Non mi basta.” Disse Yuu “Debbo vedere la sua faccia mentre glielo dice e voglio vedere quella di Maya.”
“Sei pazzo…?” chiese Masumi “Io ho un sacco di cose da fare! Figuriamoci incontrare <la ragazzina>, che, poi, è l’ultima cosa che mi preme fare al momento! E per che cosa? Per contentare il tuo egoismo e il suo? Te lo dico io cosa mi urlerà vedendomi: <io la odio!>. E’ quanto prova per me, stanne certo.”
Ma Sakurakoji non se ne andava e Hayami, esasperato, tentò l’ultima carta: ciò che lo avrebbe definitivamente convinto della sua buona fede.
“Vieni con me.”
Dopo due minuti erano in strada. L’auto aziendale della Daito attendeva di fianco alla fila dei taxi ed accolse entrambi.
L’attore non comprese dove stavano andando fino a che non si lasciarono la città alle spalle.
La Villa del magnate Takamiya, appena fuori Tokyo, era un gioiello dell’epoca dei samurai sprofondato in un mare di verde.
Non arrivarono al portone d’ingresso perché Masumi ordinò al suo autista di fermarsi a distanza di sicurezza, nel punto in cui egli stesso, inosservato, sostava spesso. Da lì era perfettamente visibile la stanza di Shiori.
“Questa casa è un bunker.” Disse – e Yuu non si spiegava il senso di quelle parole “Solo io conosco questa postazione e il Presidente Takamiya sa che solo io vengo qui.”
“Che senso ha?” chiese Sakurakoji sconcertato “Come fidanzato ufficiale della signorina, lei ha pieno diritto di farle visita in modo canonico.”
“E’ così.” Sottoscrisse il giovane figlio di Eysuke “Tuttavia, da qualche tempo, sono costretto a starmene qui.”
Attese qualche istante prima di confessargli la verità:
“Non sei l’unico ad essere andato fuori di testa quel giorno…”
“Cos…?” fece Sakurakoji sconcertato.


Kusunoki ed Isshin si addentrarono insieme per la Valle.
Il generale ora fissava il giovane scultore come a carpirne le intenzioni ora cercava di imprimersi nella memoria il tragitto per la zona sacra.
“Hai detto che non sai come ti chiami.” Disse quando furono sul ponte.
“E’ qui che sono caduto.” Svicolò il giovane e, nel mentre, indicava la fune penzolante.
Kusunoki si sporse, provando autentici brividi: c’era l’equivalente di cinquanta metri di strapiombo, sotto di loro.
“Non so come sono sopravvissuto.” Spiegò Isshin “O, forse, sì: è stato grazie a lei, ad Akoya.”
“Capisco.” Fece il generale sconcertato “Ho sentito voci strane su quella ragazza. In tutto il villaggio non si fa che parlare delle sue doti di guaritrice: animali, piante. Tutto <rinasce> in virtù del suo magico intervento.”
“Ne sono persuaso anche io.” sottoscrisse “Del resto, il fatto che io sia vivo, dopo un simile volo, ne è la dimostrazione. Ma non la chiamerei <magia>. I maghi sono dei filibustieri venditori d’almanacchi. Lei non predice nulla: ama e basta.”
Kusunoki annuì sempre più perplesso:
“Certo, mi pare di capire che sia una ragazza di un certo fascino. Un’altra voce piuttosto insistente vuole che siate…intimi.”
Isshin lo guardò torvo.
“E’ qui da poche ore e già sa così tante cose?” chiese “E’ vero: Akoya è la mia compagna. Non è un segreto: noi ci amiamo.”
“Non mi interessa il tuo privato.” Disse l’uomo “Ma io so chi sei ed è mio compito richiamarti all’ordine.”
“E perché avrebbe finto di non conoscermi?”
“Perché volevo capire se eri in buona fede.” Fu la risposta del generale “Sono contento che tu non sia un pusillanime.”
Isshin si accostò per un istante all’albero di susino che aveva innanzi.
“Che c’è?” fece Kusunoki “Ti sei ricordato di qualcosa?”
Lo scultore negò col capo, ma non era del tutto vero.
Un flusso di forti emozioni, scaturito all’udire la parola <pusillanime>, prese a devastare l’equilibrio faticosamente raggiunto.
“Ha detto che è qui per condurmi via. Di quale onta mi sono macchiato?” domandò scettico.
“Sei lo scultore più esperto del Kanto. Nonostante la tua giovane età e le tue oscure origini, eri stato scelto per scolpire il portale di un tempio shintoista. Un grande onore per un cultore del Buddha.”
Isshin si stupì:
“Sicché…sarei buddhista. Qual è il mio nome completo?”
Kusunoki glielo disse, così come gli comunicò che il suo rifiuto stava causando non pochi disordini e scontri anche cruenti tra fazioni opposte.
“La religione è una beffa.” Disse il giovane scultore “Se gli uomini credessero davvero non si scontrerebbero per simili futilità. È tutta una questione di potere e lei lo sa bene, generale.”
Si sedettero sotto il susino.
“Probabilmente,” proseguì Isshin “gli dèi esistono davvero. Ci sono, a questo mondo, persone straordinarie, che ne sono il riflesso: Akoya ne è un esempio. L’amore degli dèi è gratuito, genuino, procura felicità. Quello degli uomini è egoista.”
Kusunoki alzò le spalle:
“Cosa ti piace di Akoya? E, se ti piace, non provi per lei gelosia all’idea che qualcuno possa avvicinarla?”
“Adoro tutto di lei.” Fu la risposta del ragazzo “Solo al vederla, sento mancare la terra sotto i piedi. Ma non sono geloso perché lei ama me. Ha scelto me, uno sbandato, un uomo senza passato né futuro e mi ha dato tutto, a partire dalla vita. Perché dovrei esserne geloso?”
“Si è gelosi dei tesori e tu stai descrivendo un tesoro.” Disse Kusunoki ridendo della sua ingenuità.
“Akoya non è <una cosa>. Lei è l’altra metà della mia anima. Se lo ricordi bene.”

Il venerdì precedente l’incontro con il donatore di rose scarlatte le prove terminarono ad un orario accettabile.
Maya pensò di andare al centro commerciale per acquistare qualcosa di consono, magari sistemarsi i capelli.
Rei non c’era e, per la prima volta, avrebbe fatto tutto da sola.
Pregò gli dèi di non trovarsi inadeguata alla circostanza: Masumi era un uomo di classe, vestiva bene e senza fronzoli, mentre lei, sul piano del look, si considerava un autentico disastro.
Per tutta la vita aveva indossato felpe informi e gonne variopinte. Ma il tempo dei calzettoni, avendo ormai compiuto diciannove anni, poteva considerarsi archiviato, motivo per cui la prima cosa che fece fu comperare delle calze di nylon.
Quindi, anziché procedere all’acquisto dell’abito, pensò di affidarsi ad una estetista e al parrucchiere. Ripensò alla serata sulla nave, quand’era stato lo stesso Masumi a dare precise istruzioni perché ella apparisse splendente.
Ora era sola: avrebbe agito d’istinto pensando in modo autonomo a ciò che sarebbe potuto risultare apprezzabile agli occhi del donatore di rose.
Guardandosi allo specchio, non si trovava poi così inadeguata e spenta come le era capitato di pensare spesso da quando Masumi si era fidanzato con la signorina Takamiya.
“E’ lei?” fece una voce alle sue spalle.
Maya si girò di scatto, quindi la sua bocca si schiuse al sorriso:
“Signore! È bello rivederla!”
“Grazie.” Rispose Eysuke benevolo.
“L’ultima volta, abbiamo mangiato quel delizioso gelato, rammenta?” continuò l’attrice entusiasta.
Hayami, nel mentre, la squadrava da capo a piedi: era la stessa simpatica ragazza, ma qualcosa di diverso, di vibrante, ne sosteneva lo sguardo chiaro.
“Verrò a vederla.” Le disse subito “Spero mi riservi un buon posto, allo Shuttle X.”
Maya annuì entusiasta, prendendo a raccontargli delle prove, dell’incidente di Yuu, di Kuronuma.
Eysuke era piacevolmente frastornato, ma, più la guardava più la sensazione iniziale s’accresceva.
“Non mi sta dicendo tutto.” fece sornione “I suoi occhi nascondono qualcosa: e credo sia riconducibile al ragazzo che, da più parti, si indica come suo prossimo fidanzato…”
L’attrice arrossì violentemente:
“Che dice?...”
“Ogni appassionato di teatro lo sa.” Riprese il vecchio “E, del resto, non è ovvio, visto che interpretate i due amanti sacri?”
Maya era sbocciata all’improvviso anche ai suoi occhi.
Una sorta di inquietudine, al pensiero che Masumi fosse fuori casa e, quindi, incontrollabile, prese a tormentarlo.
“Non è forse vero ciò che dico?” incalzò curioso.
“No.” Rispose ferma Maya “Non sono innamorata di Sakurakoji.”
Eysuke arcuò le labbra:
“I suoi occhi, però, parlano chiaro.”
“Dicono anche il nome di chi amo?” chiese la giovane attrice con una punta di rammarico “Per tutta la vita, ho avuto l’aiuto di una persona che non si è mai manifestata. E, piano piano, ho scoperto di tenere a lui più di quanto non ammettessi.”
 
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view post Posted on 12/8/2015, 16:01
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Una storia nella storia. Il parallelo tra queste due coppie è sviluppato davvero bene e sembrano dipanarsi quasi in contemporanea, ma in direzioni apparentemente opposte; è come se tu stessi tracciando un percorso diverso, e una meta comune, che forse è quello a cui tutti tendiamo più o meno consapevolmente. Akoya e Isshin, Maya e Masumi affrontano le difficoltà che incontrano, ma se i primi accettano il loro amore e lo vivono con forza, opponendosi a chi li ostacola, Maya e Masumi - più Masumi - sembrano impossibilitati a farlo. Masumi accetta l'incontro a Izu, ma si sente messo alle strette e non è convinto del passo che sta per fare; fino ad ora non avevo ancora pensato a un' evoluzione di questo genere, (ci aspettiamo tutte che l'incontro a Izu sia pieno di romanticismo, ma chi lo dice che sarà così?) è verosimile che la Miuchi possa presentare le cose in altro modo, ed è Maya quella più coraggiosa e decisa, e dimostra perfino una sicurezza maturata proprio con i sentimenti per Masumi.
Mi è piaciuto moltissimo il confronto tra Yuu e Masumi; il ragazzino mette l'uomo maturo con le spalle al muro, perchè se Yuu ha ragione, il freddo cinismo di Mister Daito farà aprire gli occhi anche a Maya, sennò la sua maschera si romperà sotto il peso dei sentimenti autentici che prova... e credo proprio che alla fine, Yuu sarà l'artefice stesso della sua sconfitta, almeno è quello che voglio sperare... salvo cambio di rotta dell'autrice.
Bellissima storia, mi sta coinvolgendo tantissimo.
 
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view post Posted on 13/8/2015, 10:35
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Grazie, cara. Ma la vita non va quasi mai in direzione del "necessario" lieto fine. Ne parlavo giusto ier sera con un'amica: chi ha avuto la fortuna di sposare o anche solo di iniziare una relazione per la vita con il proprio grande amore? In pochi ce l'hanno fatta, temo.
Buona lettura.

Capitolo settimo



Eysuke si mosse sulla sedia a rotelle visibilmente preoccupato.
Ancora una volta, aveva fatto in modo che l’incontro con la giovane attrice avvenisse in maniera casuale per non metterla in allarme.
Quasi se ne pentì.
Non solo Maya era mutata d’aspetto all’improvviso: persino il tono della sua voce, la saggezza amara che traspariva dagli occhi languenti la rendevano più brillante del solito.
Il Presidente emerito della Daito pensò che, finalmente, il temuto salto di qualità aveva avuto luogo.
Da sempre estimatore del suo talento, non aveva idea che esso potesse scoppiare prepotentemente in un lasso di tempo così breve.
Inoltre, Maya Kitajima non soltanto stava per ereditare lo spirito di Chigusa Tsukikage, ma, per certi versi, pareva incarnarlo già.
“Non credevo…” fece tra sé “potesse accadere, ma così è stato. Ora, sei del tutto simile a lei e questo mi fa guardare con occhi diversi tutto il contesto. Se, prima, temevo il futuro, oggi mi terrorizza rendermi conto che esso è già presente. E una banale propensione può essersi mutata in un fuoco inestinguibile.”
“Signore…?” chiese Maya del tutto ignara “Sono contenta di incontrarla. Ho qui con me dei biglietti per la rappresentazione che avrà luogo…”
“Le stelle lontane, per quanto fioche, non sono meno lucenti delle vicine. Basta avvicinarsi ad esse per restarne parimenti abbagliati.” Disse Eysuke pensando a Masumi.
“Non capisco.”
“L’amore genera l’odio e l’odio genera amore.” Spiegò l’anziano “Qualche filosofo di strada dice che, in fondo, sono la stessa cosa ed io <anche> ne sono persuaso. Maya-chan, il giovane Hayami le ha mai raccontato di suo padre?”
Ella arrossì:
“Non ne so molto. Ma, di certo, non dev’essere stato un uomo gentile neppure da giovane. Ha distrutto la carriera della mia adorata insegnante; ha provato a sottrarle i diritti di rappresentazione de La Dèa Scarlatta. Quando non ne ha più avuto la forza, ha istruito suo figlio, rovinando la di lui esistenza.”
Eysuke rise fragorosamente:
“Il generale millepiedi è un’anima dannata. Dall’amore atavico è passato all’odio ancestrale. Non potendo avere il susino millenario, ne ha divorato le radici sino a farlo avvizzire…”
“Conosco questa storia.” Confessò Maya inquieta “Me ne ha parlato proprio il signor Hayami. Ma credevo si trattasse di una metafora, non di una leggenda vera.”
“Eppure, come in tutte le storie, anche le più improbabili recano un fondo di verità.” Disse quietamente l’anziano, un’inflessione perfida nella voce “Lei è davvero una ragazza sincera e piena di buone qualità: il suo talento è così evidente da impressionare. Ma vive così presa dal teatro e dall’amore per i personaggi che interpreta da disinteressarsi del tutto al mondo che la circonda. Solo un vero amante dell’arte può ricambiarla pienamente, ché un uomo <normale>, al suo fianco, sarebbe condannato all’infelicità.”
“Che intende…” balbettò Maya “quando dice che mi disinteresso del mondo?…”
Eysuke sospirò:
“Da quanto tempo ci conosciamo, signorina?”
L’attrice fece mente locale e calcolò circa otto mesi dall’ultima rappresentazione di Lande Dimenticate.
“E,” proseguì il vecchio “pur vedendomi salire su auto di gran lusso, pur accompagnandola in locali d’alto livello, non le è mai venuto in mente di chiedermi chi fossi e…quale lavoro svolgessi…?”
“Ho solo pensato che non fosse un indigente. Che frequentasse i teatri e ne conoscesse i grandi interpreti del passato.” Rispose Maya con semplicità “Cos’altro?...”
Hayami strinse le labbra:
“Lei è una ragazza sincera. Non conosce menzogna. Ciò rende le cose più gravose di quanto non pensassi.”
Alla giovane si strinse il cuore.
“Neppure che io conoscessi l’interpretazione del fuoco di Chigusa Tsukikage le suggerisce qualcosa?”
“Non capisco dove intenda arrivare.” Disse la sua interlocutrice, il volto imperscrutabile come il ghiaccio.
Un varco si era finalmente aperto: Maya Kitajima iniziava a intuire chi avesse davanti.
“Signorina, vorrei che sapesse che, in qualche modo, sono stato molto colpito dalla sua schiettezza. E, checché si racconti di me, so apprezzare certe doti. Tuttavia, ciò che conta, ad oggi, è concludere un buon affare. Cercare in ogni modo di preservare un’attività costruita lungo tutta una vita. Nel mercato del mondo dello spettacolo, non basta rappresentare una piccola ditta: molti anni fa, cercai di far capire questo concetto ad Oozachi, ma lui si infuriò, dicendomi che non era giusto <mercificare> il suo capolavoro. Non è che io volessi <mercificarlo>: ritenevo, come lo ritengo oggi, necessario <sfruttare> il talento di Chigusa per assicurare un futuro a lei, al Maestro e a tutte le famiglie che ruotano intorno alla vecchia e alla nuova Daito.”
Una lacrima solitaria solcò il viso di Maya.
“Lei ha condizionato la vita di molte persone. Ha cercato di rendere suo figlio la sua esatta copia.” Mormorò sconcertata “Per non parlare della sensei Tsukikage, costretta a chiudere la propria scuola di teatro, a cercare finanziamenti per la propria attività quasi fosse una mendicante…”
“Non mi pento di niente.” Disse perentorio Eysuke “Il lato umano degli affari è che essi sostentano migliaia di famiglie. Se, domani, il gruppo Takamiya fallisse, ha idea di quanta gente finirebbe sulla strada?”
Maya strinse gli occhi, provando in tutti i modi a non piangere, ma era impresa ardua: la commozione si fondeva, ora, con la rabbia.
Sentiva come profondamente ingiusto e sbagliato ciò che le sue orecchie udivano:
“E, così, in nome degli affari, ha dato un erede a Takamiya perché la Daito Art Productions fosse protetta e s’ingrandisse.”
“Masumi non è stato messo con le spalle al muro: Shiori è una donna piacente e colta. Inoltre, a differenza di molte ragazze, non pretende tante attenzioni. Era così anche la madre di Masumi, sa? Sapeva stare al suo posto. Del resto, ha accettato di stare con me per amore di suo figlio…”
“Ma a che prezzo?” sbottò finalmente Maya “Che cosa c’è di sbagliato nel seguire il cuore?!”
“Provi per un istante a vederlo rifiutato, quel <cuore>.” L’interruppe Eysuke inviperito “Provi a mettersi nei panni di Shiori, così innamorata e fragile! Lei ha il teatro e una carriera radiosa davanti. Se si mettesse tra la signorina Takamiya e mio figlio, la poverina ne morirebbe perché non ha altri che lui.”



“Che cosa ti ha detto il generale?”
Akoya ed Isshin camminavano lungo il fiume, immersi in un tramonto che pareva infinito mano nella mano.
Tutt’intorno, come sempre, era armonia, ma nel cuore di entrambi un che di malinconico campeggiava, ché il destino dello scultore era tutt’altro che deciso: la guarnigione, ancora al Villaggio, sarebbe potuta rientrare in un momento qualsiasi, portandosi dietro il giovane Isshin.
“Non abbiamo conversato un granché.” Rispose quest’ultimo “Mi ha detto come mi chiamo, che cosa facevo prima di perdere la memoria. Pare non ci siano dubbi: sono colui che cercano. Uno…scultore buddhista miscredente che si è rifiutato di scolpire per una comunità shintoista.”
Akoya strinse le labbra:
“E te ne ha dato spiegazione?”
“Non ci vuole molto per arrivarci e credo ci sia arrivata anche tu, amor mio.” Replicò Isshin con semplicità “In fondo, di che cosa mai si è discusso, tra noi, se non del mio strano rapporto con…la fede e la religione in genere? Quando ci siamo conosciuti, mi hai rimbrottato più volte. Sono un empio.”
“Non la penso così da molto tempo, ormai.” Mugugnò la ragazza “Tu sei la persona più onesta che conosca, la più sincera. Sono virtù care agli dèi.”
“Sai anche questo?” si stupì Isshin “Per favore, domanda loro cosa pensano di me, allora.”
Akoya scosse la testa:
“Pensano ciò che penso io, ovvero tutto il bene possibile.”
Lo scultore le prese entrambe le mani, portandole alla bocca.
“Non devi confortarmi per forza. Qui non si parla di piante medicinali o di animali da salvare. Si discute di creature che non hanno nulla a che vedere con questo mondo corrotto e pieno di pregiudizi…Tua nonna mi odia…Tutti mi odiano. Solo tu hai iniziato a volermi bene…”
“Lei non è mia nonna!” replicò pronta la giovane “Non so di chi sia figlia. Nessuno lo sa. Dicono tutti che sono mandata dalla dèa perché so fare cose al limite del miracoloso.”
Isshin la guardò con affetto:
“Non mi stupirebbe se fossi la dèa in persona: la tua bellezza, la tua saggezza sono talmente evidenti da balzare all’occhio al primo sguardo. Una tua parola genera armonia, pacata serenità. Questo, per lo meno, è accaduto a me: assieme al mio corpo, pian piano, hai guarito anche il mio spirito.”
Akoya lo abbracciò con foga.
“Sai,” mormorò lo scultore trattenendo a stento l’impeto di baciarla “la prima volta che ci siamo incontrati, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti ad uno di quegli splendidi alberi di susino che circondano il tempio. Indossavi un chimono scarlatto, i tuoi capelli avevano lo stesso riflesso e, quando mi sorreggevi col tuo braccio, mi ispiravi solidità.”
“Davvero?” chiese la ragazza con voce accorata “Sì, amo profondamente questi alberi. Il loro profumo mi inebria, il loro colore genera in me armonia, la loro possanza mi protegge. Da tutte queste cose io mi sento…intessuta. Vieni, amor mio, c’è una cosa che voglio farti vedere.”
Strinse la sua mano e, con una lieve spinta, lo invitò a seguirla.
Nel folto degli alberi di susino che popolavano il fondovalle, i due amanti, come sospinti da una forza sconosciuta, correvano come se abitassero quei luoghi da lungo tempo.
La neve sotto i piedi, un ghiaccio scarlatto e bianco insieme, strideva sotto le suole delle scarpe di juta.
Finalmente, i passi di Akoya si fermarono.
Isshin rimase senza fiato per un istante. Dopo aver lasciato la sua mano, la giovane si era approssimata ad un enorme e maestoso albero di susino.
“Ecco Mot, il susino millenario.” Disse accarezzandone il fusto rugoso “Esso è lo spirito più antico di questo Paese. Era qui ai tempi delle antiche armonie.”
“Mot? Che storia è mai questa?” chiese lo scultore interessatissimo “Non ne ho mai saputo nulla.”
Qualsiasi cosa uscisse dalla bocca della sua compagna, per quanto finissero per scherzarci su, rivestiva una importanza straordinaria: costituiva una finestra sull’universo intero.
“Gli uomini raccontano poco questa leggenda e, in un certo senso, hai ragione quando affermi che essi rammentano solo ciò che più gli fa comodo.”
Di nuovo, prese ad accarezzare l’albero:
“Gli alberi celano la vita, raccontano la storia di centinaia di uomini che sono stati testimoni di tempi più fausti. Quando gli dèi vivevano sulla terra e le creature erano loro grate per gli infiniti doni elargiti, tutto era armonia. Non esistevano discordie.”
“Questo te lo ha raccontato Mot?” domandò di nuovo lo scultore, profondamente colpito dalla sincera convinzione di Akoya.
“Ascoltare una storia, credere in essa è come riviverla. Il ciclo di vite si ripete e l’universo è un perenne, eterno ritorno. Gli dèi non sono mai <spariti> dal mondo. Non del tutto, almeno: hanno lasciato i loro guardiani. E questi, qualunque fattezza abbiano, non cessano mai di interrogare gli spiriti…”
Lo abbracciò con calore:
“Mot e io siamo la stessa cosa. I tuoi occhi ti hanno guidato bene: ciò che ti ha colpito di me è corretto, adorato Isshin.”
“La…stessa cosa?” ripeté scioccato quest’ultimo.
Udì un sospiro profondo:
“Siamo composti di cellule, di atomi. Ogni cosa è intessuta nella materia dell’universo, dall’uomo al più infimo granello di sabbia.”
“Che sollievo…” sorrise lo scultore “Temevo parlassi seriamente.”
“Ma io parlo <seriamente>.”
 
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Capitolo ottavo



Passarono i giorni: la guarnigione al comando di Kusunoki cominciava a interrogarsi con apprensione sul perché non decidesse di lasciare Nara con lo scultore sacro.
Non c’erano dubbi, ormai, sul fatto che si trattasse proprio del ricercato.
Invero, il generale era roso dai dubbi, ché le parole accorate di quel giovane per nulla pusillanime gli avevano toccato il cuore, invitandolo, tra l’altro, a riflettere sulla vita e sul suo senso più profondo.
Tuttavia, mentre vagabondava per la Valle incerto, fu raggiunto da una notizia che ebbe il potere di rasserenarlo e sconvolgerlo insieme.
Il messaggero parlava di un conflitto devastante tra Terefusa e un clan di samurai ribellatosi all’autorità costituita: gli dèi, quindi, stavano decidendo per la guerra totale e il caos.
Qualunque carta, a questo punto, andava giocata: Isshin <doveva> ad ogni costo tornare per compiere il suo dovere e mettere pace attraverso l’opera sua.
Se gli dèi avevano scelto lui un motivo doveva pur esserci: era nebuloso, agli occhi del generale, ma pur sempre un modo per concedersi un briciolo di speranza.
Mentre si muoveva per radunare l’intera guarnigione, il messaggero gli si avvicinò passandogli un messaggio riservato.
Si scusò per averlo fatto nel momento in cui i suoi diretti subalterni si erano allontanati, ma la questione era della massima urgenza.
Rimasto solo, Kusunoki lesse con avidità il contenuto della pergamena.
“La missione è cambiata. Gli dèi si sono espressi.” Riconobbe la grafia dello scriba di corte “I capi della comunità buddhista e di quella shintoista hanno interrogato separatamente i loro oracoli ed hanno dato unanime parere. Non è più necessario ricondurre qui lo scultore: è a Nara che serve, dove si trova la sua materia prima.”
Il rotolo ricadde sulle gambe del generale:
“Colui che possiede una verità è il prescelto. Chi possiede questo nome è l’unto. E non dovrà usare un legno qualsiasi, ma quello più sacro agli dèi: il legno che racchiude lo spirito della madre terra.”
Il generale uscì dalla casa che lo ospitava come un pazzo: si guardò a destra e a sinistra in cerca di Isshin o di Akoya, ma non vide nessuno. Pensò che fossero al tempio nella Valle sacra e scappò in quella direzione.
Non aveva capito una sola parola di quel messaggio, ma era persuaso che, leggendolo, Isshin ne avrebbe colto il senso.
D’altro canto, pensava di rendergli un favore, dal momento che non sarebbe stato costretto a seguirlo fino alla Capitale.
E davvero i due innamorati sedevano sotto le fronde di un salice, al tiepido sole di un mattino di tardo inverno: discorrevano a bassissima voce e, da lontano, pareva di cogliere, tra essi, armonia e tenerezza.
Kusunoki sospirò:
“Siete qui, grazie al cielo. Non c’è più tempo da perdere. È giunto un dispaccio reale: ci sono notizie buone e meno buone.”
Il viso dei due ragazzi si fece interrogativo.
“Lo scriba dice che il monaco si è espresso: Isshin, dovrài scolpire una statua della dèa madre. Non sarà necessario ricondurti a casa.”
“Se una statua servisse a placare l’ira degli dèi, avrei scolpito non uno, ma ben due portali del tempio shintoista. E avrei modellato l’oro e il granito, non il legno! Come pensi che gli dèi possano anche solo apprezzare la mia opera? Io sono un miscredente! Non saprei neppure che forma dargli!”
Akoya stava un poco distante, il cuore stretto dall’angoscia.
“No, no! Il tuo nome è scritto negli oracoli: sei tu il portatore di una verità. Dell’unica verità!”
Isshin appose entrambe le mani sulle sue spalle:
“Ascolta bene, generale: mi sono ricordato una cosa. L’ultima cosa che ho fatto, uscendo dalla casa del mio maestro, è stata negare l’esistenza degli dèi! Io non credo in essi! Non posso essere io, quello scultore.”
“Sei stato scelto perché la tua arte induce a commozione!” sbottò il generale “Se per te non ha valore, ne ha per chi apprende la fede per tuo tramite! L’arte è da sempre un potente mezzo nelle mani di chi istruisce! Ho…studiato approfonditamente il tuo <caso> e, dacché ti ho conosciuto, più ti parlo più mi persuado che sei l’unica persona a poter dare una svolta a tutto questo caos!”
“Ma te l’ho detto! Non saprei come fare!”
Kusunoki, allora, preda dell’esasperazione più atavica, gettò il rotolo col dispaccio ai suoi piedi.
“Leggilo, per gli dèi!” urlò “E prendi atto che nessun uomo al mondo, neppure il più pio, rappresenta qualcosa di superiore, agli occhi degli dèi. Se sei il prescelto, prendine atto e basta. Anche se ritieni te stesso l’ultimo uomo sulla terra!”
Si portò indietro i capelli con entrambe le mani:
“Dovresti essere felice! Non ti porto neppure lontano dalla tua donna! Potrai restare a Nara, purché porti a termine la statua richiesta dal bonzo! Dovrai solo trovare l’albero sacro agli dèi: c’è un solo legno in grado di soddisfare la loro richiesta.”
Vide Akoya impallidire, quindi si rivolse a lei:
“Dolce fanciulla, te ne prego, persuadilo ad essere ragionevole. Non c’è uomo più degno di colui che è chiamato a soddisfare la volontà degli dèi.”
“Quel legno di cui parli…” cominciò la ragazza con voce tremante “io so dov’è e anche Isshin lo conosce bene.”
Lo scultore si girò di scatto per guardarla in viso.
“Mot…” sussurrò quasi tra sé “Ma…”
Prese per la mano la ragazza e la condusse dietro al tempio, dove non potevano essere uditi:
“Dimmi che si tratta di un incubo! E che le parole che mi hai detto l’altro giorno erano solo delle metafore! Dimmelo, Akoya!”
Ella sorrise stancamente:
“Ti ho già detto che non è così, mio caro: Mot è il mio spirito. Io e lui siamo la stessa cosa e lo hai intuito anche tu: a lui debbo la mia saggezza. A lui debbo la mia aura colorata di scarlatto che tu, per primo, hai saputo cogliere. Perché sei la mia anima gemella e l’altra metà della mia anima.”
Gli prese la mano baciandola con passione:
“Non temporeggiare, amor mio! In questa e in tutte le vite che verranno, io e te saremo destinati all’amore e alla completezza. Siamo nati per questo e, se anche dovessimo venire al mondo ai due poli della terra, ci incontreremo ugualmente. È il nostro fato!”
“Quando ti ho conosciuta,” Fece Isshin con occhi commossi “per la prima volta, ho sentito amore e calore. Protezione. Le tue cure mi hanno restituito fiducia negli uomini. Non posso pensare, ora, di fare qualcosa che possa nuocerti!”

Sakurakoji contemplava ancora, scioccato, l’immagine di Shiori Takamiya, che, seduta su una poltrona a rotelle, faceva a pezzi un bouquet di rose scarlatte.
Il suo viso pareva trasfigurato. Sedeva con gli occhi semichiusi sotto un salice piangente che gettava la sua lunga ombra su un parte del viso emaciato; le mani erano entrambe fasciate, le gambe coperte da un kimono floreale scuro. Pareva un fantoccio in posa, una di quelle statue che, sovente, si vedono nei diversi musei delle cere sparsi per il mondo.
“Signor Hayami…” balbettò.
“Volevi avere certezze?” chiese Masumi con sguardo feroce “Eccotela. La tua certezza l’hai davanti. Adesso puoi realizzare finalmente che Maya è tua!”
Si girò di scatto e tremava visibilmente: Sakurakoji percepì in lui tutta la bramosia repressa che aveva animato sé medesimo il giorno dell’incidente in moto.
“Non capisco cosa sia successo a Maya…” disse “Sembra che gli dèi stiano cospirando per ribaltare il mondo e il normale ordine delle cose: la sua fidanzata che impazzisce, io che mi spezzo le gambe, Maya che passa dall’odio all’amore per lei e lei…lei, signor Hayami, che prova qualcosa per una ragazza che non ha neppure la metà del suo rango.”
Masumi lo fissò ancor più ferocemente:
“Reciti da mesi il capolavoro scomparso e ancora non ne hai cognizione? È tutta una beffa degli dèi o, forse, la dimostrazione che le convenzioni sociali in cui amiamo strangolarci non contano nulla. Davanti all’amore vero, non c’è età, aspetto, rango!”
Lo prese per il colletto della camicia, gli occhi azzurri iniettati di sangue e lacrime:
“Ma, quando lo capisci, realizzi che non serve più a nulla, che il tuo tempo è passato.”
Yuu abbassò lo sguardo.
“So cosa significa. Lo so fin troppo bene.” Mormorò affranto “Io stesso ho provato quanto afferma.”
“E, allora, smetti una volta per tutte di fare domande sciocche e vivi il tuo amore, tu che puoi. Io ti invidio maledettamente e non sono neppure sicuro di sopravvivere a tutto questo dolore. Chi non realizza l’amore vero non può essere felice ed è causa anche dell’altrui soffrire. Fanne tesoro, ragazzo e non commettere certi sbagli.”
 
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view post Posted on 14/8/2015, 22:47
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Molto belli questi ultimi capitoli, a momenti quasi strazianti. Penso anch'io sia molto difficile trovare quell'unica persona, se esiste, che può renderci felici, e credo anche che non tutti nella vita siamo così fortunati. Akoya e Isshin hanno avuto questa fortuna e si sono amati, nonostante questo, nella loro storia non sembra previsto un lieto fine, o così vorrebbe la leggenda della Dea Scarlatta... mi pare che una credenza buddista dica esattamente che l'uomo è in questo mondo per soffrire... chissà, forse non si può avere la felicità senza la controparte di sofferenza, e in quest'ottica sembra dipanarsi la storia di Maya e Masumi, con gli occhi "iniettati di sangue e lacrime", e questa ultima frase mi ha messo i brividi, non potevi rendere il dolore e lo strazio di quest'uomo più intenso.
La stessa sensazione l' ho avuta dal confronto amaro tra Maya e Eisuke.
L'uomo nel bene e nel male dovrebbe essere l'artefice del proprio destino... è qualcosa che ho pensato a lungo, con convinzione, ma negli ultimi tempi spesso mi ritrovo a pensare che non sia del tutto vero, ci sono troppe variabili che condizionano l'esistenza; sarà per questo che nella tua storia, in questo momento mi sto ritrovando molto.
Al prossimo capitolo... ho l'impressione che non manchi molto al finale, vero?
 
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view post Posted on 16/8/2015, 19:38
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No, non manca molto. E' una short fic. A domani! :D
 
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Capitolo nono



Isshin raggiunse Kusunoki al villaggio.
Questi lo accolse nella sua stanza con volto teso.
“Farò come chiedi.” Disse subito sedendosi al tavolino basso.
Il generale annuì col capo ringraziandolo implicitamente: il suo sguardo era carico di benevolenza.
“Mi spiace…” mormorò l’uomo “E’ ovvio che tu non sia persuaso. È perché non sei ancora convinto di essere tu il prescelto o…?”
Isshin sollevò le spalle:
“E’ stata Akoya a chiedermelo.”
L’altro sorrise con rinnovata tenerezza al pensiero della fanciulla cara al cielo.
“Forse,” sospirò “è davvero l’incarnazione della dèa.”
“E avrei voluto, ho…desiderato con tutte le mie forze che si trattasse di un abbaglio.” Disse lo scultore “Akoya vive per cose più grandi. È destinata ad una esistenza superiore. Per questo dovrà sacrificare la sua felicità in questa vita. E io la mia.”
Il volto di Kusunoki si fece gravemente interrogativo.
“Quando hai parlato del legno sacro…avrai udito ciò che ella ha detto…”
“Che sai dov’è?” domandò il generale “Se lo sai, perché perder tempo?”
“Ho paura.” Confessò Isshin tutto d’un fiato “Non…credo di avere la forza per compiere questo gesto. Vedi, Mot, il susino millenario, è lo spirito stesso di Akoya…!”
“Dèi!” esclamò l’uomo “Allora…!”
Ricadde sulla spalliera come fosse spossato:
“Dimmi, Isshin, cosa ti piace di lei? Non fraintendermi: è bellissima, ma, piuttosto che attirare, incute timore e rispetto. Gli uomini che le si avvicinano percepiscono la sua inviolabilità e sacralità. Tu?”
“Lei è la mia donna.” Rispose Isshin fermo “E’ per questo che siamo nati. Ed è per questo motivo che non avverto il senso di repulsa che affermi di sentire.”
Kusunoki annuì.
“Certo, comprendo tu abbia paura di perderla. Deve essere terribile separarsi dalla persona che si ama. La morte è devastante.”
Lo scultore fece un mezzo sorriso:
“Non temo la morte.”
Lo sguardo del generale, che, sino a quel momento, si era mantenuto basso, si levò quasi di scatto.
“E’ stata lei ad insegnarmelo.” Spiegò Isshin “Io vagavo per la Valle alla ricerca di una risposta alla mia empietà. Ho visto la morte da vicino e lei, trovandomi, l’ha allontanata. Poi, ho iniziato a parlare con lei, a capire cose di cui prima non mi ero mai accorto. La mia empietà si è dissolta in un istante. In qualunque mondo o dimensione mi trovi, io rinascerò… io andrò in cerca di lei.”
“E, allora, perché indugi ancora?” chiese Kusunoki sorpreso.
“Perché sono umano.” Fu la risposta dell’altro “Sapere come sarà <domani> non mi mette al riparo dal dolore. Sapere che lo spirito vive, che si ricongiunge in un futuro prossimo o remoto non mi conforta del tutto perché vorrei sempre starle accanto. Sto bene quando percepisco la sua vicinanza. Sto bene perché c’è lei. Tuttavia, so che il mio compito, in questa vita, va adempiuto. Se, poi, servirà a placare l’ira del cielo giustamente scontento di questa umanità fedifraga, ben venga.”

Maya sedette sulla panchina metallica dietro di lei.
“Perché gli dèi mettono al mondo l’uomo?” domandò aprendo appena la bocca “Il capolavoro scomparso è stato composto da un poeta che, poi, si è tolto la vita. Eppure, non c’è riga, su quel copione, che non inneggi alla gioia, all’armonia tra gli elementi. C’è armonia persino nelle intemperie. Tutto segue il suo corso perché così è scritto.”
Eysuke si avvicinò a lei, il tono più basso:
“E’ solo una questione di fede. Ichiren non credeva a una sola parola di ciò che scriveva. La Dèa Scarlatta rappresenta il tentativo di spiegare qualcosa che desiderava come esistente. Le religioni sono nate per questo, lo sapevi?”
Maya Kitajima deglutì.
“No.” Disse pacatamente “Chiunque sia stato a Nara non può che <vedere>. Io stessa <ho visto>. E anche Masumi <ha visto>. Non esistono illusioni condivise, Hayami-san. La follia collettiva è altra cosa.”
Eysuke sospirò profondamente:
“Maya-chan, quale dio può mai volere una follia pari a quella delle anime gemelle? Una follia che condanna chi ci crede a vivere per qualcuno che non potrà mai essere suo! Ci sono religioni, qui in oriente, che parlano chiaramente della necessità di dividere gli esseri umani in caste. Un uomo ricco non si legherà mai ad un povero! È così da sempre.”
“L’uomo è destinato alla felicità.” Mormorò Maya alzandosi.
Non lo guardava neppure in viso:
“Io ne sono convinta, signore. Comunque vadano le cose, qualunque diavoleria si frapporrà tra me e la mia felicità, io ne resterò fermamente convinta. Il Buddha ha predicato la fine delle caste, il riscatto dei deboli per il tramite della reincarnazione. Io ho fede in questo. Ciò nonostante, lei si fa carico di un grave peso: privare due persone della loro giusta collocazione nel mondo, della loro parte di felicità. Fa con Masumi ciò che ha fatto con Oozachi sensei.”


In quel momento, il giovane Presidente Hayami e Sakurakoji erano ancora sulla collinetta antistante la villa del magnate Takamiya.
“E’ assurdo.” Stava dicendo il giovane attore “Continuo a ribadire che si tratta di una assurdità, sì.”
Masumi si accese una sigaretta.
“E’ assurdo che sia andato così <avanti> con Maya, l’abbia sedotta e che ora la lasci a se stessa col cuore infranto. Ho l’impressione sgradevole che sapesse fin dall’inizio di non poter stare con lei! Perché, signor Hayami?”
“Perché l’ho fatto, mi chiedi?” fece l’uomo dando una boccata al fumo ed emettendo una nuvola dimessa come il suo aspetto “Perché la stupidità dell’uomo si annida ovunque. Perché l’uomo, talvolta, osa spingersi dove non è concesso. Ho avuto una visione, quand’ero nella Valle e da lì è mutato tutto. Però, nonostante questo, sono andato avanti per la mia strada: ho fatto un fidanzamento ufficiale. Ho iniziato a prepararmi alle nozze. E, poi, quando sono arrivato al dunque, mi sono tirato indietro.”
Sakurakoji scosse la testa:
“Non ho mai visto tanta indecisione, ma la comprendo, per certi versi: la posizione è importante, in Giappone. Quando ero ragazzino, mia madre mi diceva di allontanarmi da Maya perché non era alla mia altezza. Suppongo che per lei sia anche peggio, vista la poltrona che occupa.”
“Maya è infinitamente superiore a me.” Disse Masumi ispirato “Lei vive nel mondo dell’arte, che io ho percepito attraverso ogni sua rappresentazione. Come avrei potuto non innamorarmi di un sogno ad occhi aperti? Io vivevo nelle tenebre, teso solo a distruggere qualunque ostacolo si frapponesse tra me e un buon affare. Ero un uomo di scarse pretese, un derelitto. Solo il suo sacrificio, durante la prima rappresentazione di Little Women mi persuase che esisteva altro: considerare il teatro come qualcosa di sacro perché è il ponte per un ailleur migliore è un pensiero fisso che ha iniziato a dominare la mia esistenza da allora. Sono passati sette anni ed io non sono cambiato. E il mio amore, il mio trasporto, il mio <grazie> perenne a questa creatura così speciale sono andati amplificandosi. Debbo lasciarla e nel contempo non posso fare a meno di lei. Tu mi chiedi delle risposte, Sakurakoji, ma non so dartele perché ogni parola da te udita corrisponde al vero.”
 
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Capitolo decimo



“Ne è convinto davvero?”
La domanda di Yuu sorprese profondamente Masumi Hayami.
Pensava che, da ragazzo innamorato qual era, egli sperasse solo in una sua ritirata strategica: con lui fuori gioco, non avrebbe avuto nulla da temere.
Invece, il cuore generoso dell’attore lo induceva a riflettere insieme al <rivale> sul da farsi.
“Non voglio che Maya sia infelice. Né, tantomeno, desidero essere un suo ripiego. Voglio che lei sia innamori di me con la stessa profondità con la quale Akoya ama Isshin. Solo così potrò sentirmi realmente sicuro.”
Masumi arcuò le labbra con amarezza:
“E’ da giorni che il copione del capolavoro scomparso sta sul mio comodino. Ogni maledetto giorno lo apro, lo sfoglio, ne leggo qualche pagina alla ricerca di risposte. È ridicolo che un uomo razionale come me si ritrovi a <cercarsi> in una storia scritta da altri. Ho sempre avuto la legittima pretesa di crearmelo io, il futuro. Per quanto, a ben vedere, finché non ho conosciuto Maya, ho accettato di farmi manipolare dal mio patrigno, compiacendolo in ogni modo. Fino ad accettare il fidanzamento con Shiori. Ma lei, però, è innocente. Una ragazza che non sia mai uscita di casa, trovandosi di fronte un ragazzo piacevole e gentile, finisce per innamorarsene al punto che, dopo essere stata scaricata con leggerezza, perde il senno.”
Yuu vedeva in Masumi i tormenti di Isshin: li percepiva con chiarezza.
“I buddhisti non hanno torto quando pensano che ogni passione allontana dalla piena felicità.” Mormorò tra sé.
Ma Hayami l’udì bene.
“L’attaccamento” soggiunse “è qualcosa che genera il male. La gelosia è terribile, se si pensa al clima di sospetto che da essa deriva. Si può arrivare ad uccidere per amore.”
Il giovane presidente della Daito alzò la testa di scatto verso di lui per carpirne l’espressione.
“Sa che cosa penso? Se fosse nato attore, avrebbe interpretato magistralmente questo copione.” Disse Sakurakoji con una scintilla di rabbia negli occhi “Tuttavia, per quanto i buddhisti siano chiari riguardo al modo di approcciare la vita e l’amore, è altrettanto ovvio che l’uomo sia destinato alla piena felicità. Lei non è Siddharta. Non trascorrerà la sua esistenza come un eremita solitario in ricerca. Vuole sacrificarsi per stare accanto ad una donna che non è sana. Il senso di colpa che prova è del tutto infondato perché, se è vero ciò che mi ha detto, la signorina Takamiya è affetta da turbe psichiche da sempre.”
“Mi stupisce che a parlare così sia tu.” Masticò Hayami sorpreso.
“Questo copione è una scuola di vita, per me.” Spiegò Yuu “Ogni sospiro di Isshin mi indica come è giusto amare.”
Strinse i pugni con dolore:
“Maya non mi ama se non sul palcoscenico. Non è a me che pensa, in quel momento, ma a ciò che io rappresento. Questo servirà pure a qualcosa.”
Masumi strinse le labbra.
“Stai illudendoti come sto illudendomi io stesso.” Disse serio.
L’altro annuì:
“Ma, se fossi al suo posto, non avrei dubbio alcuno, lo sa? Ho abbandonato la mia ragazza nella speranza di stare con Maya. Ho procurato dolore, ma non mi pento neppure per un istante di ciò che ho fatto. In cuor mio, facendo la mia promessa d’amore, mi sentivo felice e appagato. Lei, invece, potrebbe avere Maya solo schioccando le dita. Questo mi fa imbestialire e, al tempo stesso, sperare. Un pusillanime non potrà mai battermi perché io so essere incredibilmente insistente, quando voglio. Non sarà lei a <cedermi> Maya, signor Hayami. Sarò io a prendermela. Può starne certo.”


Akoya osservava la volta celeste con occhi ispirati. Ma il pensiero delle sommosse nei villaggi vicini le impediva di essere del tutto serena.
Il vento le accarezzò la nuca e, nitidamente, avvertì le labbra di Isshin posarsi sul suo collo sottile, le braccia cingerle la vita.
“Non dovresti dormire da un pezzo?” chiese la giovane accettando la sua stretta possente.
“Non senza di te.” Rispose lo scultore.
“Arriverò tra poco, ma, giacché sei qui, vorrei parlare con te di ciò che accade qui intorno.”
Il tono di Akoya era commosso:
“Pensi di temporeggiare a lungo, amor mio?”
Le mani di Isshin ricaddero lungo i fianchi, inerti.
“Il tempo fugge.” Riprese la giovane “Io sono l’incarnazione della dèa ed è ormai ovvio che tu sei colui il quale deve scolpire il legno sacro per impetrare la salvezza di questo Paese.”
“Ne sono consapevole.” Disse l’altro “Ma cosa ti fa pensare che, domani, non si torni al punto di partenza? Oggi, noi ci accingiamo a sacrificare la nostra felicità, a distruggerla in questa vita. Per che cosa, Akoya? Ho detto a Kusunoki, l’altro giorno, che dovunque ci porti il Fato, noi ci reincontreremo. Ho preferito queste parole con una sicurezza che mi ha sconcertato! Ci credevo davvero, in quell’istante. Poi, mentre camminavo al villaggio al fianco del generale, ho incontrato il capo in compagnia di tua nonna: avresti dovuto vedere gli sguardi sui loro occhi. C’era rabbia, odio ancestrale. Fino a che gli uomini si guarderanno così tra loro, non ci sarà pace.”
Akoya annuì:
“La tua arte commuove. La commozione genera pentimento. Inoltre, il legno di Mot è caro agli dèi perché esprime uno dei loro spiriti. Io lo so.”
Gli prese il viso tra le mani, baciando teneramente le labbra dello scultore.
“Siamo stati fortunati a incontrarci.” Sussurrò “Questo tempo è stato prezioso. Io sono felice solo per questo.”

Eysuke aprì gli occhi nel cuore della notte, il copione del capolavoro scomparso aperto sul comodino, un rituale che si ripeteva da oltre trent’anni.
Si sentì osservato e, preoccupatosi, si mise a sedere sul letto, buttando le coperte fino alla spalliera. Tentò anche di accendere la luce, ma non ci riuscì.
“Dannazione…” masticò seccato “Asakura! Asakura!”
La voce rimbombò nella stanza, ma all’anziano fu subito evidente che l’eco era stata assai più profonda.
“Sto ancora sognando…”
Si girò a destra e a sinistra: pur nella oscurità, mano a mano che il nervo ottico si adattava, la percezione aumentava, rassicurandolo un poco.
Focalizzò la scrivania, le tende tirate e un tenue raggio di luna come ad <aprirne> la chiusura.
Mise i piedi sul pavimento, percependo calore.
“E’ strano.” Disse piano.
Si avvicinò lentamente alla finestra per osservare la volta celeste e fu qui che quasi rischiò l’infarto.
Non vide il grande parco della sua villa, ma il panorama scarlatto della Valle dei susini.
Gli occhi si sgranarono letteralmente, mentre inquadrava la sagoma di Chigusa Tsukikage davanti al leggendario albero millenario.
Tutt’intorno, i petali cadevano copiosi.
“Che cosa è mai?” si chiese aprendo la stessa finestra.
La dèa scarlatta sorrideva arcanamente.
“Chigusa…” chiamò l’uomo.
Ma la donna non rispose.
Con un gran movimento delle maniche del kimono, creò una sorta di vortice di fiori e scomparve dietro al susino.
L’anziano si mosse verso di lei, tentando di scavalcare l’uscio, ma ad ogni tentativo, il panorama circostante appariva più lontano, comunicandogli un senso di <inaccessibilità>.
“Aspettami…” balbettò Eysuke.
Non si erano mai trovati da soli: stavolta, Genzo non era presente e intendeva approfittarne per parlarle a quattr’occhi.
Ma, giungendo finalmente al susino, fu un’altra sagoma a bloccarlo.
Il cuore del padre di Masumi iniziò a fremere di rabbia e paura.
“Ancora, la tua mano mi divide da lei?” chiese quest’ultimo “Vattene, Ichiren…!”
Ma il maestro non rispose, dileguandosi anch’egli.
Tutto finì così com’era iniziato e il bussare insistente alla porta lo restituì al reale.
“Ti ho chiamato almeno due volte!” sbottò il vecchio Hayami quando Asakura entrò nella sua stanza.
Ciò che Eysuke aveva visto, dacché lo aveva chiamato, era indubbiamente una corposa <visione> della valle dei susini. Ed era durata svariati minuti.
“Ma, signore,” prese a giustificarsi l’altro “è mezzanotte passata e stavo riposando. Sono venuto appena ho potuto…”
Il padre di Masumi scosse la testa con aria di sufficienza, quindi gli ordinò di andare ad avvertire Genzo. Poco importava se era il cuore della notte: il giorno dopo avrebbe fatto visita alla signora in nero.
 
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Capitolo undicesimo



“Se ti dicessi che non posso agire, penseresti male di me, Akoya?”
La domanda dello scultore sacro risuonò come un tuono nel silenzio.
Il tempio antico in cui essi avevano dimorato e consumato il loro amore di anime appariva, quel giorno, cupo e l’odore di legno marcio era tornato ad infastidire le narici sensibili di Isshin.
“Non ho il coraggio.” Rincarò quest’ultimo.
La prese per una mano e l’attirò a sé: il sorriso splendente e innamorato di Akoya gli diede un brivido. La desiderava così tanto da non volere altro: pur di averla, avrebbe rinunciato persino al cibo, all’acqua, alla vista stessa. Perché ciò che vedeva attraverso Akoya gli era sufficiente.
“La speranza, per quanto fondata, di ricongiungermi un giorno a te non rendono ciò che debbo fare meno innaturale.” Spiegò il ragazzo sulle sue labbra.
Erano gemiti disperati, invero, cui la giovane rispondeva con tenere, accorate parole.
La fede non rende gli uomini indistruttibili.
Alzare una mano contro Mot, contro lo spirito di colei che amava, porre fine a ogni alito di vita era inaccettabile, per non dire assurdo. E, più ci pensava, più il senso di inadeguatezza aumentava.
Vide l’ascia, già pronta, nell’angolo della stanza principale del tempio.
Eppure, era uno strumento come tanti altri: non era l’arma del boja, ma il mezzo con il quale gli abitanti del villaggio, da che mondo e mondo, si procuravano la legna per riscaldarsi, per cucinare il cibo, per vivere.
“Amor mio, temporeggiare reca sofferenza a noi e al popolo ogni minuto che passa.” Sussurrò Akoya distaccandosi un poco “Andiamo ora, senza perder più tempo: la luna è alta nel cielo. Ci illuminerà il cammino fino all’albero millenario.”
“Neppure un’ultima notte tra le mie braccia, Akoya?” chiese Isshin guardandola con un ardore tale da farla arrossire.
“Prendi a raccolta tutta la tua fede, amor mio.” Disse la ragazza “E, quando ti rivolgerai a Mot, io sarò lì di fianco a sorriderti.

Masumi si chiuse nella camera d’albergo. Era tardi.
La luna splendeva nel cielo di mezzanotte.
La testa gli doleva: un dolore pulsante, causato dallo stress seguito alla conversazione con Sakurakoji e dalla vista di Shiori insieme.
“Sei sciocco, Masumi.” Si disse “Domani incontrerai l’amore della tua vita; ti rivelerai a lei come il donatore di rose scarlatte. Non dovresti stare nella pelle e invece…”
Si sedette stancamente sul letto, passandosi entrambe le mani tra i folti capelli biondi.
Quindi, metodicamente, prese a spogliarsi: la giacca, la cravatta, prima allentata poi sfilata, la camicia. Rimasto a torso nudo, si sdraiò, percependo il fresco della seta sulla pelle.
“Il mio amore è corrisposto.” Pensò “Maya è la mia anima gemella e prova per me ciò che io provo per lei. Eppure, non riesco ad essere felice, proprio come Isshin. La saggezza può, forse, consolare, ma non rende felici.”
Si girò su se stesso restando bocconi: il mento, ora, era poggiato alla coperta, le braccia distese come fosse in croce.
Altri pensieri, dalle matrici più disparate e disperate, affollavano la sua mente.
“Se Shiori tornasse quella di una volta – e non credo possa essere così – tutto cambierebbe. Io, di certo, penserei a questo appuntamento di domani con minor apprensione. Mi gusterei ogni attimo.”
Si alzò di scatto e raggiunse il mobile bar per prelevare l’ennesima bottiglia di cognac. Ne versò più del dovuto in un bicchiere da acqua, mentre constatava che il ghiaccio contenuto nel cestello d’argento era, ormai, completamente sciolto.
“Pago un casino per un servizio scadente.” Masticò “E’ proprio vero che, quando vai alla deriva, tutto prende a girare al contrario.”
Non c’era soluzione.
Con Shiori in quelle condizioni, non poteva neppure pensare di premiarsi con l’amore vero.
Non lo meritava.
Era colpa sua: se Maya aveva perso sua madre, era colpa sua; se Sakurakoji aveva rischiato la vita era colpa sua; se Shiori era impazzita era colpa sua.
Si dice che l’alcool apra la favella alla verità: è anche vero che impedisce di pensare con il dovuto raziocinio. Più Masumi beveva, più il mostro dentro di lui si ingigantiva.
E lui stesso entrava in simbiosi con la bestia.
Vide Oozachi e vide Genzo. Gli parve di vederli, un pensiero avvolto nella nebbia scarlatta.
“Alla fine,” si disse “chi si è preso tutto è stato proprio l’umile servitore. Lui le è rimasto accanto per tutta la vita, non il maestro. L’attore dalle potenzialità illimitate, sul palcoscenico, ha avuto ciò che all’autore stesso è stato negato. Eppure…non riesco a immaginare Maya tra le braccia di quel ragazzo. Non riesco a vederla tra le braccia di nessun altro. Il solo pensiero mi distrugge…”
Si guardò le mani: tremavano.


Capitolo dodicesimo



Hijiri bussò più volte prima di realizzare il peggio.
“Signor Masumi!” urlò dando una forte spallata alla porta.
Aveva usato tutta la forza che aveva in corpo e, riuscito nell’intento, il contraccolpo lo spinse direttamente al centro della camera da letto. Incespicò nel tappeto, ma non cadde.
Tutt’intorno era un inferno di cristalli infranti, quel tanfo di alcool cui, da mesi, era abituato.
E, poi, c’era il suo superiore: appeso al lampadario di cristallo, un fantoccio in sembianze umane..
Hijiri deglutì come se rivivesse il momento più tragico della sua vita: alla sagoma di Masumi si sovrapposero quelle di sua madre e di sua sorella.
“Per gli dèi!” esclamò correndo dall’uomo, la mano al cellulare che già inviava la chiamata al pronto soccorso.
Prese Masumi con delicatezza: respirava appena e il petto diafano era tutt’uno con il suo viso smorto.
“Che cosa ha fatto?” balbettò commosso all’inverosimile “Che cosa ha fatto?...”
Tolse con decisione il lenzuolo che aveva fatto da forca e prese a massaggiare il volto di Hayami con i due pollici:
“Si svegli, signore, si svegli…”
La sua preghiera <doveva> essere accolta.
“Si svegli, signore…oggi è il suo grande giorno. È il giorno in cui Isshin si ricongiunge ad Akoya, rammenta?”
E, mentre pensava queste cose, i suoi occhi piangevano. Le lenti ambrate si appannavano.
“Questo è un colpo basso.” Disse a bassa voce mentre una cameriera, entrata con il cambio per il letto, cacciava un urlo disumano alla vista di un uomo quasi cadavere.
“Come ha potuto?” continuò Hijiri ignorandola “Lei ha il dovere di essere felice! È la persona più straordinaria che abbia mai conosciuto.”
Strinse i pugni, mentre i soccorsi giungevano e, concitatamente, caricavano in barella il suo capo.
I minuti che seguirono furono ancora più concitati: in ambulanza, ignorava le domande di un infermiere che chiedeva in che rapporti fosse con il malato. Chiamò Mitzuki e avvertì casa Hayami, ma il suo pensiero era fermo sull’unica persona che non avrebbe mai voluto o potuto avvertire: Maya Kitajima.
“Le sue condizioni sono molto gravi.” Aveva decretato il medico dell’ambulanza.
Una serie di informazioni tecniche, inutili come si sentiva inutile lo stesso Hijiri, fu sciorinata con la freddezza di una vecchia telescrivente all’opera. O di un alfabeto morse in tempo di guerra.
Quanto tempo passa tra l’impiccagione e la morte?
Per quanto tempo si può stare senza respirare?
Quali danni per il cervello?
A tutti questi quesiti il medico rispose senza che gli venisse posta la domanda, ma Karato non l’udì neppure.
“Si salverà?” balbettò semplicemente quand’egli tacque.
“Quest’uomo non vuole salvarsi.” Disse l’altro, che aveva compreso in un istante di trovarsi davanti a un caso di suicidio “Deve avvertire la famiglia.”


Isshin e Akoya incedevano per il bosco mano nella mano.
Con la sinistra, lo scultore sacro reggeva l’ascia del boja, una grezza arma col bastone nodoso e una lama arrugginita in più punti.
Non parlavano, per quanto i loro cuori fossero in costante comunicazione.
“Mi manca la tua voce.” Disse rompendo gli indugi la ragazza.
“Che succederà, domani, quando non potremo più udirci a vicenda?” chiese di rimando Isshin.
La domanda suonò come una pietra tombale su fresca erbetta.
“Aspetteremo.” Rispose l’altra stringendogli la mano ancora di più “Aspetteremo il prossimo ciclo di vite. Con pazienza e con rettitudine. La volontà degli dèi è che le anime gemelle tornino ad essere uno. Non importa quanto ci vorrà.”
Egli annuì non del tutto convinto, il cuore in pezzi di chi non vorrebbe mai giungere e, invece, già intravvede il futuro. Davanti a lui Mot, il susino millenario, attendeva il suo fato. Che, poi, era anche il fato dei due giovani lì presenti.
Akoya sedette in ginocchio poco distante, le mani l’una dentro l’altra.
Isshin si dispose a dare il primo colpo d’accetta.
“Se non lo facessi?” fece d’improvviso, guardandola con intensità “Se fuggissimo insieme, questa notte?”
Ella lo fissò con semplicità:
“E vivere per sempre nella menzogna, amor mio? Con la coscienza di non aver agito per il bene dei nostri fratelli? Tu potresti? Davvero potresti vivere così?”
Lo scultore negò, deglutendo dolorosamente.
“Vai, amor mio.”
Egli le diede le spalle e assestò il primo, possente colpo.
Non poteva vedere il volto di lei, che si incrinava di minuto in minuto, come quelle piante a cui sia tranciata d’improvviso la radice e il sostentamento della cara terra.
Se Isshin avesse visto ciò che intuiva soltanto, non avrebbe avuto la forza di continuare.
Ma il primo colpo era andato e, via dicendo, il secondo e il terzo e il quarto, fino a che di Mot non fu visibile che una spaccatura diritta – pareva un taglio cesareo! Da quel <parto> sarebbe rinato il mondo, pensò il ragazzo mentre una lacrima scendeva lungo il bel viso.
Ormai solo un pezzetto di legno reggeva il possente susino.
Isshin appoggiò la mano al fusto e, con un affondo deciso, lo indusse a cadere: si sollevò, al contatto con la terra, una nuvola di polvere e di petali di colore rosa.
Egli si girò verso Akoya.
Era scomparsa.
 
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view post Posted on 22/8/2015, 15:02
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Ciao Laura. Non so dirti cosa ho provato leggendo questi ultimi capitoli... non me lo aspettavo un epilogo tanto disperato e tragico... cioè, avevo intuito che ci sarebbero stati toni drammatici in questa ff, ma non immaginavo questo.
Il senso di tristezza che mi ha preso è stato grande. Il lieto fine in una storia può anche non esserci, anzi, spesso la realtà della vita non porta ai lieti fini e perfino in alcune ff diventa qualcosa di impossibile. Non intravedo nessuna luce in lontananza.
Davvero i sensi di colpa possono uccidere? Sensi di colpa che non hanno ragion d'essere, Yuu ha ragione; l'attore qui è molto più consapevole dell'imprenditore, delle sue scelte e delle conseguenze portate da quelle scelte, e credo che la differenza stia tutta qui, ma quanto incide questa verità... già... verità, consapevolezza, accettazione, sembrano proprio gli ingredienti che a Masumi mancano... è questo che lo fa soccombere?
Per Ichiren non è stato così, almeno non erano questi i presupposti, oppure sì?
Davvero la storia dell' amore di anime si ripete sempre uguale?
Paradossalmente per quanto drammatica anche la storia tra lo scultore sacro e Akoya, nella loro vicenda non percepisco la disperazione che distrugge Masumi... e devo ammettere che anche nel manga, a tratti mi è parso di intravedere l' ombra della tragedia profilarsi sullo sfondo. Spero ancora che non termini così l'opera della Miuchi.
Per la tua ff, temo che dovrò rassegnarmi ad accettare questa possibilità... solo
quell' "uomo quasi cadavere"
mi lascia nel dubbio, ma non vorrei illudermi.
La storia resta grandiosa, profonda e impietosa, cruda e vera nello sviscerare i sentimenti dei personaggi, ma quanto male fa leggerla, adesso... comunque andrò fino in fondo.
 
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view post Posted on 25/8/2015, 17:22
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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Ho voluto dare un taglio diverso alla storia che tutti si aspettano. Forse, era mio desiderio mettere un po' in ridicolo una teoria - quella delle anime gemelle - che è quasi folle anche solo ipotizzare. La perfezione è irraggiungibile, per quanto, suppongo, esistano rapporti idilliaci. Io non ne ho mai avuti... :D Buona lettura e grazie.

Capitolo tredicesimo



Maya si sedette sull’ampio divano, le gambe strette, le piccole mani l’una dentro l’altra.
Ignara.
Mentre la sua vita prendeva un corso inatteso - e lei non ne era ancora cosciente -, mentre l’ennesima rivoluzione copernicana andava a prendersi beffa delle credenze che più le stavano a cuore – gli affetti, la filosofia delle anime gemelle, l’amore – ella attendeva speranzosa.
Aveva seguito i dettami di Hijiri, che non era lì con lei: a parte il custode, sistemato in una casetta attigua alla villa, Maya era sola. Aveva trovato la porta aperta, cosa che a lei parve accostabile alla metafora di un cuore finalmente pronto all’amore.
La felicità completa era a portata di tiro e, per paradosso, si trovò a pensare che quel momento, quell’attesa avesse già un che di perfetto.
Bastava?
No, non poteva bastare, non ancora.
Era la loro serata.
Il loro rendez-vous.
Era la loro notte.
Soli, nella villa.
Con il cielo sopra di loro e il mare sotto.
Maya avvampò, quindi, levatasi in piedi, si diresse verso la vetrata. Immaginò, nel mentre, Masumi che faceva lo stesso gesto e, forse, pensava a lei come lei pensava a lui.
Stava tramontando il sole.
Guardò il quadrante al suo polso: l’orologio era un regalo dell’ammiratore delle rose scarlatte e indicava anch’esso il tempo. Il loro.
Ella si chiese perché fosse in ritardo e attribuì la cosa al lavoro in ufficio: gli uomini d’affari sono sposati due volte, ma, quando staremo insieme – si disse – tutto andrà a posto. Troveremo un modo per convivere comunque.
Maya, del resto, non era un’attrice comune e passava buona parte della sua giornata a teatro.
Si immaginò una scena di quotidiana serenità: lei che, terminate le prove, esce col passo veloce per raggiungere una berlina scura ferma ad aspettarla di fuori. Ma al volante non c’è alcun autista, ma lui, il suo amore.
“Questo momento è solo nostro.”
Il calare della sera descriveva, col suo calore, con quel <canto del cigno astronomico>, la solarità di un sentimento assoluto e forte come il sole. Il viso prese quasi a bruciarle: era una sensazione quasi tangibile, tipica di chi si sta abbronzando.
Maya ne rimase stupita.
Poi, le si chiuse la gola e, quasi spaventata, si diresse alla brocca d’acqua posta sul tavolino lì accanto.
Quando la porta si aprì, la sensazione di essersi liberata di un peso fu tale che calde lacrime le sgorgarono dagli occhi.
“C’è qualcosa che non va, mio caro.” Disse a Masumi senza muoversi di un passo.
Egli era davanti alla porta, col volto un poco in ombra.
“Sono così felice di poterti vedere che non riesco a trattenere le lacrime.” Proseguì “Sentirti lontano stava progressivamente strangolandomi.”
Si mosse, finalmente, mentre egli apriva le braccia come a chiederle di abbracciarlo.
Ella corse davvero e fu completezza.
“Torniamo ad essere uno?” chiese Maya aspirando l’odore del tabacco e della menta, quell’aroma di lui che ben conosceva. Il medesimo, dacché si erano conosciuti.
“Non siamo mai stati separati.” Rispose Masumi con la voce roca “Perpetua questo messaggio, amor mio.”
Ella assentì, quindi lo guardò negli occhi scostandosi un poco.
“E promettimi di sorridere sempre. Perché io sono con te in ogni caso.”
“Lo so.” Fece Maya titubante.
Quel discorso suonava strano. Era un commiato e lei lo sapeva.
Il suo volto, che nel mentre si era fatto asciutto, tornò a bagnarsi:
“Perché?”
“Perché l’animo dell’uomo è corrotto.” Disse l’altro “Perché anche l’uomo più forte, quando non trovi via d’uscita, è destinato a ben misera fine. Io ho ereditato l’anima di un dannato e dannato sono io stesso.”
“Dovevi trovare la forza nel nostro amore…” sussurrò Maya in un soffio, la commozione straripante che dilagava, ora, nella più cupa disperazione “Io…non mi sarei mai lasciata andare, se fossi stata in te…”
“Mi mancava poco, stavolta.” Mormorò Masumi “Ma, quando ho accompagnato quel ragazzo a vedere Shiori, tutto il mio coraggio è stato come annientato dal senso di colpa. Avevo sbagliato. Lei non sarebbe più stata la stessa ed era solo colpa mia. Naturalmente, il pensiero di essere felice con te passava del tutto in secondo piano, mentre realizzare che non avremmo coronato il nostro amore mi ha dato il colpo di grazia.”
Le prese una mano:
“Maya…chiunque realizzi di essere riamato dalla propria anima gemella non può rinunciare…Si finisce per perdere il senno, capisci?”
“Mi hai lasciato…” balbettò la ragazza, un mare di lacrime sul volto “Hai tradito la nostra promessa d’amore eterno…Noi siamo destinati a stare insieme dalla notte dei tempi e tu mi hai lasciata…Non hai avuto fede. Come hai potuto, Masumi? Gli dèi non ti perdoneranno mai…Noi non ci ricongiungeremo mai più…”
Egli le sorrise con tenerezza:
“Ho visto la luce. Ho capito di avere sbagliato quando ho chiuso gli occhi alla vita. Dillo a Chigusa Tsukikage. Questa comprensione è stata la mia salvezza, sappilo. Sto facendo un passo alla volta, vita dopo vita. Abbi fede in me una volta di più, Maya e, se puoi, perdonami per averti lasciata ancora…”


Il tronco di Mot fu tagliato in nove sezioni.
Nei giorni che seguirono la scomparsa di Akoya, Isshin si era chiuso in un totale, volontario mutismo. Si nutriva il minimo indispensabile, così da non perdere tempo. Le parole accorate della fanciulla che amava erano sempre nei suoi pensieri: più il tempo passava, più la guerra infuriava.
La nonna di Akoya lo fissava con apprensione da dietro a una quercia millenaria: ogni astio pareva sparito dai suoi occhi e sentiva la mancanza della bambina che aveva cresciuto. Non riusciva, orgogliosa com’era, ad ammettere di essere stata nel torto sin dall’inizio. Isshin non meritava di essere trattato da criminale e bastava, per questo, dar retta semplicemente alle parole della fanciulla mandata dagli dèi, che lo amava nel segreto e ne aveva conosciuto da subito l’intima essenza.
L’anziana lasciava il pane e una scodella di latte ai piedi dell’albero e si allontanava, convinta di essere non vista: Isshin, però, sapeva che ella era lì, come se vegliasse sul suo lavoro.
Intimamente, ne sorrideva: sbriciolava il pane per farne parte con gli uccelli e beveva il latte.
Lo scalpello modellava con relativa velocità, ma più il lavoro procedeva, più egli sentiva l’esigenza di perfezionare, di migliorare. Il pensiero che quel ceppo di legno potesse essere gradito agli dèi e frenare la guerra era dominante: non poteva creare un oggetto sommario o scadente. Il sacrificio di Akoya doveva essere ricordato di generazione in generazione e così anche il suo.
“L’esigenza dei pochi non vale quella dei molti”
Divenne il suo motto e se lo ripeté come un mantra fino a che, dieci albe dopo la scomparsa di Akoya, la statua della dèa vide la luce. Il marrone del legno aveva delle striature che, non si sa come, richiamavano lo scarlatto dei fiori di susino. Il volto impresso nel legno era caratteristico dell’arte giapponese, ma gli occhi della dèa erano grandi ed espressivi, come fossero quelli di un’occidentale. Pensando ad Akoya, per qualche motivo, Isshin aveva visto i suoi occhi.
“Io sarò i tuoi occhi e tu la mia voce. Noi siamo uno. Non siamo uguali, ma parti differenti di una stessa anima.”
Quel giorno – il giorno in cui lo scultore sacro doveva consegnare la statua a Kusunoki – Isshin si recò a casa di Akoya e chiese della nonna: l’anziana, prim’ancora che il suo parente la chiamasse, si affacciò all’uscio di casa col volto grave.
“Buongiorno.” Disse il giovane “Chiedo scusa per il disturbo. Non ruberò molto tempo.”
Ella si avvicinò senza aprir bocca.
“Sto per andare via.” Proseguì Isshin “Io non prenderò parte alla cerimonia. Volevo consegnare questa.”
E le porse la statua della dèa, ancora avvolta da un telo di colore scarlatto. Quel telo, invero, non era un telo. Era lo yukata che Akoya aveva indossato la sera della festa del villaggio.
L’anziana deglutì:
“Perché non la consegni tu?”
“Io non ne sono degno. Lei è la persona più autorevole di questo posto, la più pia. Le mie mani sono indegne e indegno sono ritenuto da tutta la comunità. Dico bene?”
“E’ così.” Assentì la nonna irrigidendosi “Ma il percorso disposto dagli dèi è, talvolta, stoltezza agli occhi degli uomini.”
“Grazie.” Mormorò lo scultore facendo per andarsene “Le sono grato per il cibo e le sue gentilezze. Ho apprezzato molto.”
Chinatosi in segno di saluto, se ne andò.
“Nonna…” disse l’uomo che aveva assistito a tutta la conversazione “Lo lasceremo andare, dunque?”
“Kusunoki avrà ciò che Terefusa voleva.” Rispose l’altra “Sarà di nuovo pace. Lui, Isshin, ha un altro fato. È ad altri cuori che deve insegnare ciò che ha appreso, anche se il suo, adesso, può dirsi spezzato per sempre. La mia dolce Akoya, però, sarà sempre con lui. Non lo abbandonerà mai.”
 
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view post Posted on 25/8/2015, 20:28
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Beh, che dire? L'incontro tra Maya e il "fantasma" di Masumi è struggente, disperato e di una tristezza infinita. Condivido le "accuse" di Maya: lui non ha avuto fede nel loro sentimento d'amore, questo è stato forse lo sbaglio più grande, dunque è quasi inevitabile che la disperazione prenda il sopravvento.
Nelle ff si può esplorare qualsiasi percorso, ed è giusto che l'autore ci provi, ma spero ancora che la Miuchi non preveda un epilogo di questo genere, non perché io creda nelle anime gemelle e nei rapporti idilliaci - per me costruire un rapporto con qualcuno è un vero "lavoro", può venir bene o male, ma dipende da noi... certo quando c'è una comunione d'intenti, magari sarà più facile... - ma perché spero che il percorso "condiviso e sofferto quanto basta" di Maya e Masumi verso la Dea Scarlatta culmini in qualcosa di positivo.
Detto questo, io colgo una differenza sostanziale tra il suicidio di Masumi, e quello solo tentato di Shiori: quello della donna mi è sempre sembrato un atto ricattatorio, non so se sei d'accordo. Nella dinamica, il modo e il momento in cui Shiori si taglia le vene, mi fa pensare a una disperata - e sbagliata - richiesta di attenzione.
Nella tua storia Masumi si toglie la vita e lo fa con lucida volontà e senza fallire... Shiori, nel bagno di un locale pubblico, in compagnia di Masumi che ha appena rotto il fidanzamento, si mette nelle condizioni di essere soccorsa.
I sensi di colpa di Masumi sono stati inutili, ma era troppo fragile e provato per non soccombere. Paradossale sarebbe se Shiori tornasse in sè; con macabra ironia si ritroverebbe senza più nulla, col risultato opposto di ciò che forse si era prefissata.
E Maya, invece? Perdere la persona amata, indurirà il suo cuore? O l'annienterà per sempre? Non so cosa prevedi per lei.
La storia di Isshin e Akoya è amara, ma non lascia tanta tristezza nell'animo, forse perché almeno loro, il loro amore hanno potuto viverlo, e in quello hanno trovato la forza di accettare il destino.

Ne approfitto per dirti che l'altro giorno, ho riletto "Scalo a Izu"... avevo bisogno di qualcosa di più sereno... e così mi sono accorta, come una stolta, che alla prima lettura avevo del tutto saltato l' epilogo... leggere di Maya che tiene testa a Shiori, ed Eisuke a suo nonno è stato fantastico e appagante!! Grazie mille!!
 
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19 replies since 10/8/2015, 13:25   413 views
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