La storia di Akoya, da cui il racconto prende le mosse, si incrocia con quella di Maya e Masumi (che partono al capitolo IV). E' il uovo punto di vista della "nota saga" di A Scarlet Rose.Buona lettura!
Capitolo Primo
L’amore della dèa
“Albeggia.”
Questo pensiero attraversò la mente di Isshin, mentre, ancora incerto, si levò leggermente dal suo giaciglio ad osservare il blu ancora intenso e non baciato dal sole della volta celeste.
Nuvole fosche, in lontananza, indicavano che quella era stata una notte di tempesta.
Lo scultore sacro aveva a stento preso sonno. Aveva patito gli spifferi freddi che penetravano attraverso le porte scorrevoli non perfettamente aderenti al pavimento.
Gettò uno sguardo su alcuni ceppi di ciliegio, posti a ridosso della parete spoglia alla sua destra.
“Anche il lavoro, come la mia vita, è a un bivio.”
Il capo villaggio gli aveva affidato una impresa quasi ardua: costruire il portale in legno del nuovo tempio shintoista. Isshin era un uomo di grande levatura morale, conosciuto anche al di fuori della sua comunità religiosa, ma la sua fede, per quanto all’apparenza incrollabile, era ancora piuttosto incardinata sul dubbio.
Che forma avevano gli dèi? E, se non ne avevano una, di che cosa erano fatti? Provavano amore per le creature o le avevano poste sulla terra senza fine alcuno, destinandole anche all’autodistruzione? Essendo d’indole buona, il giovane scultore provava quasi orrore per quanto non riusciva a spiegarsi: la guerra, da lui ritenuta un abominio, era una costante della storia dell’umanità; troppo frequentemente l’innocenza dei fanciulli era violata; gli oltraggi ai deboli da parte di chi esercitava il potere costituivano legge infame.
La pena di morte, poi, era il culmine delle nefandezze.
Cosa avrebbe dovuto scolpire, su quel portale? Isshin proprio non sapeva donde iniziare il suo lavoro.
Il capomastro, un uomo di circa sessant’anni, entrò nella sua cameretta con passo felpato.
“Sensei…” disse il giovane levandosi “Buongiorno…”
E si chinò in segno di rispetto.
“E’ un grande giorno, per te.” Fece l’altro sorridendo e mostrando con naturalezza la bocca sdentata.
“Già…” masticò l’allievo poco convinto.
Strinse con vigore il suo obi alla vita:
“Che debbo fare? Io…non ho idea di cosa scolpire. E’ come se, tutt’intorno, vi fosse solo menzogna…inganno…”
Vide che il maestro arcuava le labbra, gli occhi stretti di chi conosce da più tempo la disillusione e l’angoscia che da essa deriva.
“Se l’uomo vive nell’inganno, l’inganno sarà rappresentato. Se vive nel sogno, narrerai <il tuo> sogno.” Disse con bonaria ironia.
“Ma dov’è la verità?” chiese con impeto Isshin.
“Pensi che, a questo mondo, ci sia qualcuno che conosca l’aspetto della verità? O i fini degli dèi?” domandò serio il suo interlocutore.
Dal suo volto era scomparsa ogni traccia di ilarità: era, adesso, preoccupato che quell’intoppo esistenziale potesse nuocere al lavoro e al futuro del suo allievo prediletto.
“Ed è questo il punto.” Sottoscrisse il giovane “Come si può credere in qualcosa che non si vede? E perché esiste l’ingiustizia? Dove vivono gli dèi non si conosce il dolore, mentre il mondo ne è pieno…”
“Le dichiarazioni che fai odorano di empietà, figlio mio.” Affermò con rammarico il maestro “Ed è triste che, proprio oggi, esse ti tentino al punto da bloccare la tua attività.”
Isshin terminò davanti a lui la vestizione, quindi prese a preparare la sua bisaccia.
“Ti prego di andare avanti, quest’oggi.” Disse convinto, ma senza guardarlo in faccia “Di’ al monaco shintoista che farò tardi.”
“Che intendi dire, ragazzo?” chiese allora concitatamente l’anziano “Non puoi tardare! Si dirà che non hai a cuore ciò per cui sei stato chiamato! È un grande onore per te che sei buddhista! Chiamato addirittura dal tempio shintoista a scolpire il portale del nuovo edificio sacro!…E tu fai torto a chi ha riposto in te la sua fiducia!”
“E’ proprio per non farmi beffe di essi che devo andare via, ritrovare la mia ispirazione.” Dichiarò Isshin chiudendo con uno scatto deciso la borsa coi suoi attrezzi “Debbo cercare un senso – anche uno soltanto! – a ciò che non mi spiego.”
“E pensi davvero di poterlo trovare, stolto?!”
La mano del maestro, rugosa e tremante, si poggiò sul suo avambraccio.
“Ci sono centinaia di cose <sbagliate> a questo mondo!” proseguì “Di cui persone umili come siamo io e te non potranno mai trovar spiegazione!”
“Umiltà, dunque, significa accettare spiegazioni sciocche e banali?” fece Isshin con rabbia “Sono diventato buddhista perché sono stato accolto, dopo la morte dei miei genitori, da una comunità buddhista. In altre parti del mondo, poi, esistono persone che non credono affatto in Buddha né lo conoscono anche solo per nomina!... Quale dio ha ragione? E quale ha torto? Chi conduce alla salvezza?! Cosa significa questo, mio Maestro?”
“Significa che sei un blasfemo e che non hai nessun diritto di stare in questa comunità!” urlò l’anziano percuotendolo violentemente sulla spalla col suo nodoso bastone “Sei stato accolto come un figlio e questo è il tuo grazie! Sarai maledetto dagli uomini, rejetto!”
Il giovane scultore sorrise mestamente:
“Forse, la maledizione degli uomini mi varrà la benedizione di un dio, in qualunque modo egli si chiami.”
***
Passarono diversi giorni.
Nel piccolo villaggio nessuno più ebbe notizie dell’uomo che, per viltà o altro, aveva rifiutato di scolpire il portale del tempio shintoista.
Isshin vagava per i boschi senza troppa convinzione, rimuginando tra sé e sé riguardo a ciò che, per tutta la vita, gli era stato insegnato in merito agli dei e al culto. Cose che, di minuto in minuto, assumevano un significato relativo.
Le sue certezze di ventenne erano definitivamente scosse davanti alla vita. Si sedette sotto un albero a contemplare una statuetta votiva grande non più di due palmi e sorrise con amaro rispetto.
Incrociate le gambe, tirò fuori gli arnesi del mestiere e iniziò a scolpire.
“Sembra che stia flagellando questo povero ceppo…” masticò tra sé.
“Che stai facendo qui?” gli urlarono alle spalle pochi istanti dopo “Sei un monaco? …una spia?”
Isshin tirò indietro il lungo ciuffo scuro, rivelando iridi azzurre penetranti.
“Sei uno straniero…” proseguì l’uomo che lo aveva quasi aggredito “Che cosa vuoi? Ti è proibito procedere per questo bosco.”
“E’ tuo, il bosco?” chiese allora lo scultore riprendendo a modellare il legno.
Ciocche di lisci capelli neri gli ricaddero davanti agli occhi azzurri, ondeggiando alla brezza che, dolcemente, attraversava le foglie.
Lo stupore dell’altro montò alle stelle:
“Non hai paura? Bada che sono armato! Ti ho già detto che non puoi stare qui. Il bosco non apparterrà a me, ma neppure a te.”
“Non intendo disturbare nessuno.” Replicò Isshin serio, una calma glaciale nel tono di voce caldo “Sbagli, se pensi che voglia attaccar briga. Sono rejetto dal mio villaggio: se uno dei miei…concittadini mi trova, ha il permesso di uccidermi. Se intendessi farmi ammazzare da qualcuno, non farei tanta strada.”
L’uomo sedette di fianco a lui:
“Sei un ladro, allora. Capisco la tua situazione. Io sono il capo di un gruppo di briganti: siamo famosi, nelle valli intorno a Nara. Razziamo nelle case dei ricchi samurai, che il demonio se li porti via!…Credono d’essere i padroni del mondo.”
“Nara?” ripeté Isshin come folgorato “Non posso credere di avere fatto tanta strada…”
“Da dove vieni, ragazzo? Sei curioso. Solitamente, quando mi si incontra, i pusillanimi fuggono a gambe levate, ma tu hai retto il mio sguardo sin dal primo istante. Ciò è degno di stima.”
“Sbagli.” Quasi troncò lo scultore “Non ti ho mai fissato. Se l’avessi fatto, probabilmente sarei fuggito anche io…”
Udì il brigante sospirare:
“Di certo, sei un artigiano. In due minuti, hai realizzato qualcosa di incredibile.”
Chiese al giovane di passargli il ceppo abbozzato, cosa che Isshin fece, seppur con riluttanza.
Maki – così si chiamava il brigante – girò tra le mani l’oggetto come fosse ispirato, un tenue sorriso sulle labbra.
“Sei un artigiano, sì.” Riprese “Ma anche un monaco o qualcosa. C’è un’anima, dentro questa statuetta. Ispira benevolenza.”
“Dici?” chiese il ragazzo non troppo convinto “Devo simulare piuttosto bene ciò che non sento…”
Maki gli rese la scultura:
“Simulano gli attori e tu non mi sembri un attore. Che cosa ti porta a vagabondare?”
“Il non senso.” Replicò serissimo Isshin “Per tutta la vita ho creduto di dover agire in virtù della fede che mi sosteneva. Poi, un giorno, mi sono scontrato con l’amara realtà ed eccomi qui, privo di certezze.”
“Se non credi negli dèi, perché scolpirli?” chiese il brigante interessatissimo.
L’altro lo fissò dall’alto in basso: indossava un buffo panciotto che gli tratteneva a stento il ventre enorme; i suoi baffoni erano rivolti all’insù, come da moda dell’epoca. Gli occhi piccoli trasudavano sincerità e una certa allegria anche.
“Non so fare altro.” Disse lo scultore sacro “E vado in cerca di ciò che io stesso ho rinnegato.”
“Sai come si dice in giro?” rise Maki “Gli uomini creano gli dèi quando non sanno spiegarsi la morte.”
Si abbassò un poco fino a lambire l’orecchio di Isshin, che, però, non si mosse di un millimetro.
“Vedi…” fece sottovoce il brigante “Io ci penso spesso alla morte. Quando vado in battaglia, insieme ai miei compagni, la sento prossima. Mi ammicca sorniona: prima o poi, si prenderà anche me. Io sono già abbastanza vecchio, del resto…Penso che, se davvero esiste un <altrove>, non è così male. Cioè, tu muori e, poi, ti reincarni…Non si dice così?”
“Non chiederlo a me!” esclamò lo scultore “Ti ho appena detto che non credo in niente…”
Maki lo sgomitò:
“Neppure io ci credo. Non credo in quello che raccontano i monaci, ma, come c’è una morte, so che ci sono anche degli dèi, in giro. La natura è così grande e la morte è parte della vita: un animale morto è fonte di sostentamento.”
“Se vuoi metterla in termini così semplicistici, fa’ pure.” Disse Isshin incupito.
Gettò il ceppo ai piedi della statuetta votiva con uno scatto rabbioso:
“E’ legno, dannazione. Arriva l’acqua e lo fa marcire! Arriva il fuoco e lo arde. Senza lasciarne traccia! Come può una cosa del genere arrivare al cuore degli dèi? Come impetrare una grazia? Perché un dio o una dèa dovrebbero curarsi dell’uomo? Tu, Maki, con tutto il rispetto, sei la dimostrazione che essi non hanno pena per il destino degli uomini! Parlo di te, ma dovrei citare me medesimo: prima orfano, poi rejetto! E mi intrattengo con un brigante perché nessun altro uomo mi vuole tra i piedi…!”
Maki annuì stringendo le labbra:
“Come ti ho detto, neppure io posseggo risposte. Mi sono solo stupito del tuo coraggio e, in seconda istanza, della bellezza del tuo lavoro. Passa pure per il bosco, se può servirti. Dirò ai compagni di non toccarti, <uomo che non possiede la verità>…”
Isshin ridacchiò.
“Già.” Sottoscrisse “Sono una contraddizione vivente visto che il mio nome è <una verità>.”
“Isshin?” ripeté l’uomo “E’ davvero così che ti chiami?”
Il ragazzo annuì.
“Voglio chiederti un’ultima cosa.” Disse Maki sorridendo “Quella statuetta che hai gettato…vorrei proprio tenerla. Quando morirò, mi piacerebbe fosse arsa insieme a me.”
“Prendila pure.” Replicò Isshin nervoso “L’ho gettata, in fondo. Non mi importa del suo fato. Stai bene, amico.”
E si allontanò.
Capitolo secondo
Il brigante aveva parlato di Nara.
Isshin non riusciva ancora a crederci.
Aveva visto quella terra incantata quando era un bambino, poco prima che i suoi genitori venissero a mancare tragicamente nel conflitto tra due clan rivali.
Era un posto incantato, almeno per come se lo ricordava: circondato da montagne alte duemila metri, il piccolo villaggio pareva uno scrigno prezioso. Il verde degli alberi ad alto fusto si confondeva col marrone e con le trasparenze dei numerosi corsi d’acqua che cingevano l’abitato. Ma c’era un luogo, quasi un sogno ad occhi aperti, che catturava sopra ogni altro i pensieri del giovane uomo.
Sorrideva, mentre camminava di buona lena, al ricordo di una vallata posta un po’ più sotto rispetto al villaggio, un luogo protetto da strapiombi spaventosi, cui era possibile accedere attraverso un ponte di funi piuttosto malmesso. Era l’unica via per arrivare ad un tempio all’interno del quale si venerava una divinità femminile.
Non se ne rammentò il nome, ma la cosa non gli parve grave né preoccupante.
In un baleno, come fosse guidato da una forza misteriosa, si trovò prossimo al ponte dei suoi ricordi: le vertigini, guardando dabbasso, lo assalirono, ma fu subito distratto da un tintinnio delicato.
“Campanelli?” fece tra sé girandosi a destra e a sinistra.
La nebbia, resa scarlatta dagli alberi di susino che svettavano in ogni dove, rendeva ogni tanto visibile il vuoto sotto i suoi piedi.
Isshin non avvertiva né caldo né freddo: la paura di camminare col nulla sotto di lui si confondeva con l’euforia di ritrovarsi nei luoghi dell’infanzia.
Sentì scrocchiare le funi quando i lunghi piedi presero a percorrere il ponte.
“Non è proprio come quando ero fanciullo…” sorrise “All’epoca, pesavo molto meno.”
Di nuovo suono di campanelli.
Il passo si fece più lesto, mentre le mani afferravano due rientranze di corda: ma un insieme di cause fisiche e misteriose insieme fecero sì che, quando si trovasse nel mezzo del ponte, una parte di esso cedesse, facendolo precipitare verso il basso.
“Dèi!” imprecò Isshin aggrappandosi all’unica corda rimasta intatta.
Penzolava nel buio, spaventosamente.
“E’ la fine…!” pensò tra sé, mentre l’angoscia lo stringeva sempre di più.
Il fiato già mancava a causa del panico galoppante.
La mano, pur ferma, iniziava a dare segni di stanchezza. Nello sfregamento causato dalla caduta, la sinistra si era ferita e delle gocce sottili di sangue scivolavano ora sul braccio ora sul viso dello scultore.
Allo scultore parve di berlo: era amaro e si mesceva a lacrime disperate.
Prima di precipitare nel vuoto, gli sovvenne il viso scolpito di una divinità femminile e fu inondato da un senso di pace.
***
“Forse è così, quando si muore.”
Isshin vide se stesso su un giaciglio paglia profumata. Si contemplava <dall’alto>, come se il suo spirito fosse già sopra le spoglie mortali.
Ma non poteva essere davvero la morte.
Questo perché, man mano che la coscienza di sé tornava, anche i dolori alle ossa e alla testa diventavano <presenti>, pulsanti.
Provò a muoversi, ma non poté.
Cacciò quindi un urlo angosciato, nella speranza, forse, di essere udito da qualcuno. La stanza era deserta: si udiva il ticchettio della pioggia, all’esterno.
Nessun segno di umanità. Come avrebbe fatto ad alzarsi? Chi lo avrebbe curato?
Chi lo aveva soccorso, evidentemente, lo aveva abbandonato in quel luogo.
Era un tempio antico: il legno delle pareti, marcio in più punti, odorava di muffa e di vecchio. Le pareti di carta di riso erano macchiate e la stufa a legna spenta.
Il suono dei campanelli lo destò dal suo torpore.
“Ma che diavolo è?” fece infastidito.
La porta scorrevole si aprì quasi di scatto, rivelando una figurina di giovane donna.
“Perdonami!” esclamò ella sollecita “Non avrai avuto paura, spero! Ero uscita a raccogliere delle radici per prepararti un infuso.”
“Radici…” ripeté Isshin “Ma chi sei? Dove…dove mi trovo?”
“Sei a casa mia.” Rispose la ragazza “Adesso accendo il fuoco. A Nara si passa repentinamente dal caldo al freddo, quando arriva l’inverno…Il temporale che è in corso segna l’addio alla luce estiva.”
Lo scultore sospirò:
“Nara?...E dove diamine è Nara?...io…non ricordo niente…”
“Imprecare non ti aiuterà.” Disse l’altra con tono serio “E’ già la seconda volta che lo fai. Sappi che è una cosa che non gradisco.”
“Scusami.” Mugugnò Isshin “Ma che pretendi? Sto dicendoti che non so neppure chi sono…”
“Sei vivo per miracolo.” Spiegò allora la ragazza “Sei fortunato ad aver perduto solo la memoria. Non ti sei rotto alcun osso. Alcuni alberi di susino hanno frenato la tua…corsa nel vuoto.”
“Sono caduto in un dirupo, è così?” chiese allora lo scultore.
“Più o meno…Ti trovavi su un ponte malmesso. È crollato a causa del tuo peso…”
Ella, nel mentre, aveva attizzato il fuoco e messo su un pentolino di coccio alcune foglie.
“Che intruglio vuoi darmi?” domandò di nuovo il ragazzo. Ma non ebbe risposta.
Isshin contemplò la figura che gli prestava soccorso. Era magrissima e anche piuttosto alta per essere una giapponese. I suoi occhi avevano una luce dolce, ma decisa.
“Sei molto giovane.” Disse lui “Sei certa di sapere come soccorrere un disgraziato?”
“E siamo a tre.” Si risentì la sua salvatrice “Non riesci proprio ad evitare di imprecare? Se non ne sei capace, almeno, morditi la lingua!”
“Akoya!” urlò una voce femminile, anziana, dal cortile “Vieni fuori, Akoya!”
La ragazza arrossì, quindi, scusatasi con Isshin, uscì fuori per andare incontro alla nuova venuta.
Isshin udì nitidamente ogni parola.
“Ti avevo detto di non prestare soccorso al forestiero! Può recare disgrazie! Il nostro villaggio non conosce la legge dell’ospitalità, dopo che, due secoli fa, un visitatore si rivelò essere <il messaggero del maligno>! È la prima cosa che insegnano a Nara!”
“Ma io non sono di Nara.” aveva replicato con dolce tranquillità Akoya “Nonnina, qualunque cosa tu dica, io farò ciò che devo. A che serve essere capaci di guarire, se mi è vietato?”
“Il capo villaggio è molto risentito con te! Che gli dirò, quando farò ritorno a casa senza di te?”
“Dirai la verità.” Era stata la risposta della fanciulla “Sai bene che mentire non è nella mia indole.”
“Si dirà anche che sei diventata sfrontata!” aveva sbottato la nonna “Tutta sola, nel tempio, con quel ragazzino!”
“Non abuserà di me.” Sorrise Akoya, facendo un passo indietro.
“Sì, sei proprio una sfrontata!” rincarò l’anziana “Ed io non posso farci nulla. Fa’ come ritieni giusto, ma sappi che la disobbedienza agli anziani è un peccato, agli occhi degli dèi.”
“Lo è anche abbandonare i bisognosi.” Mormorò Akoya abbracciando la sua parente con infantile trasporto.
Isshin udì passi pesanti allontanarsi e, subito dopo, la giovane fu da lui.
“Devi tornare al villaggio.” Disse “Non voglio che la tua reputazione sia messa a repentaglio a causa mia.”
Akoya lo fissò stupita:
“Finalmente, una espressione di sincera preoccupazione. Ma non dubitavo che ne fossi capace…”
“Non so di che parli.” Arrossì lo scultore sacro “Ho solo udito la vecchia: urlava ed era impossibile non carpire ogni singola parola del vostro conversare.”
La ragazza non gli diede retta e tornò ad occuparsi del suo infuso.
Isshin osservò le curve delicate evidenziate dall’obi scarlatto che le stringeva delicatamente il kimono alla vita. Pur essendo un semplice vestire, trasudava un che di regale, come se quella stoffa fosse particolarmente pregiata.
I capelli, nerissimi e lucenti, avevano le stesse sfumature della cinta.
“Non avevo mai visto un colore simile.” Disse vago “Non addosso ad una persona, per lo meno. Come fai ad avere una stoffa dello stesso colore della chioma degli alberi di susino, Akoya?”
Ella gli porse la scodella:
“Bevi, ora. È un infuso di radice di ginseng e di foglie di quercia: il ginseng ti darà energia, mentre la quercia è un rigenerante, oltre che un anestetico naturale.”
“Parli come un dottore.” Ridacchiò Isshin “O sei la figlia di uno speziale?...”
“Dovresti preoccuparti di ricordare il tuo passato, piuttosto che fare domande a me.” Replicò fintamente piccata Akoya.
Si inginocchiò davanti a lui, facendo cenno con la mano di bere in fretta.
***
“E’ strano.” Pensava Isshin mentre, al braccio di Akoya, incedeva nella stanza per dirigersi all’uscita del tempietto “Dovrei essere disperato: qualunque uomo lo sarebbe. Privo del passato. Privo di un punto di riferimento certo.”
“A che stai pensando?” lo distolse la ragazza.
“Da quanti giorni sono qui?” chiese allora lo scultore provando a camminare con le sue gambe. Ma un capogiro lo costrinse ad aggrapparsi di nuovo a lei.
“Sei salda come una roccia, nonostante il fisico esile…Come fai?”
“Non riesci a fare una domanda per volta?” domandò simpaticamente Akoya.
“E’ che mi incuriosisci.” Rispose franco il giovane “Credo che la curiosità sia una mia dote, anche se non ne ho ricordo alcuno.”
“Sei qui da tre giorni.” Spiegò allora l’altra “E sono forte perché gli dèi – siano essi benedetti! – mi hanno reso tale.”
“Gli dèi, se esistono, ti hanno fatto un sacco di doni, oltre alla forza fisica.” Disse Isshin, ma subito si pentì del suo dire ed Akoya, come se gli leggesse nel pensiero, non ebbe ancora a redarguirlo per la sua empietà.
“Sei un’anima in ricerca, è così?” chiese quest’ultima scrutandolo negli occhi.
“E chi lo sa?” fece di rimando lo scultore “Come sai, non rammento nulla. Forse, sono un assassino o un falsario. A giudicare dai vestiti che indosso, non appartengo a famiglia nobile.”
“C’era una cosa, vicino a te, quando ti ho trovato.” Mormorò quasi riluttante Akoya.
Isshin la fissò interrogativo mentre ella, fattolo sedere su una panchetta di legno, tornava indietro, all’interno della casa, per andare a recuperare una scatola di pelle chiusa da una fibbia dorata.
“Credo ti appartengano.” Disse porgendogliela.
Il giovane, senza replicare, prese ad armeggiare con la chiusura.
Uno scatto e dieci scalpelli da scultore si presentarono alla sua vista: ogni lama era lucidissima. L’impugnatura di ognuno era di legno pregiato, lucido anch’esso nelle parti non destinate ad essere impugnate.
“Se questa roba è tua, di certo non sei indigente.” Sorrise Akoya.
“O, forse, sono un ladro.” Replicò amaro il ragazzo.
“C’è un solo modo per scoprire se gli scalpelli ti appartengono.” Disse allora la sua giovane interlocutrice.
C’era una catasta di legna, poco distante da loro ed Isshin intuì immediatamente il suo pensiero. Tuttavia, se la memoria non lo aiutava, lo stesso non poteva dirsi dell’istinto dell’artista:
“Non si può scolpire legna da ardere.”
Akoya arcuò le labbra.
“Te ne intendi, a quanto pare…” motteggiò.
Isshin appoggiò il mento al palmo della sua mano sinistra, che bruciava ancora un poco a causa dello sfregamento della corda.
“Se anche me ne intendessi, non cambierebbe nulla.” Fu il pessimistico commento mentre scambiava una rapida occhiata con la giovane.
L’aveva sentita <inquieta>, mentre gli porgeva la scatola di pelle ed ora era lui medesimo a provare una sorta di riluttanza: non riusciva a capire cosa potesse significare.
“Sai che, da quando viviamo qui dentro, ho come l’impressione di capire che cosa ti passa per la testa?” chiese a bruciapelo quand’ella ebbe preso posto di fianco a lui.
La bocca di Akoya, allora, si aprì ad un sorriso così splendente da fargli battere il cuore.
“Ne sono lieta.” Fece “Vedi, è così che gli uomini dovrebbero vivere. Occorrerebbe smettere di fronteggiarsi, capire le rispettive esigenze…Amarsi, semplicemente.”
Divenne rossa.
“Se ad amarsi sono un uomo e una donna diventa tutto più semplice.” Disse Isshin senza neppure cogliere la portata delle sue parole “Mentre è assai più arduo che a comprendersi siano più uomini: tu litighi con tua nonna. Io non ho passato e, probabilmente, sono un rejetto.”
Sentì la mano piccola e calda di Akoya stringere la sua.
Entrambi guardavano nella medesima direzione, guardavano lo stesso punto indefinito davanti a loro.
Capitolo terzo
Isshin mise piede nel villaggio di Nara in un freddo tardo pomeriggio d’inverno. La neve, ai bordi delle strade, aveva creato bizzarre sculture, che molto gli rammentavano le bambole kokeshi.
Sorrise, guardandosi intorno in cerca di Akoya.
C’era una fiera o qualcosa di simile.
La gente lavorava alacremente come se il sole splendesse: le ragazze giovani, chine davanti ai banchetti della frutta o del pesce, erano piacevoli d’aspetto, ma nessuna eguagliava la bellezza della sua salvatrice. I suoi setosi capelli neri con sfumature scarlatte erano davvero singolari, per non parlare dello sguardo lucente e del portamento regale.
Se fosse nata in una reggia, Akoya sarebbe potuta diventare una splendida principessa.
Dacché era guarito, la ragazza era tornata a vivere con la nonna e, per conseguenza, egli rimaneva solo a lungo, in compagnia soltanto della scatola di scalpelli che ella gli aveva portato.
Tuttavia, non una statua o un solo abbozzo era uscito dalla sua mano sapiente, ché si sentiva come bloccato da dentro.
E non poteva immaginare che quel <blocco> derivasse proprio dalla sua vita passata, dal suo rifiuto di credere in qualcosa che non poteva comprendere: il grande mistero della vita e della morte porta tanti uomini a una fede incrollabile.
O all’ateismo più coriaceo.
Ma, per quanto la convivenza con una giovane che non era sua sposa si fosse interrotta prima di trasformarsi in scandalo, la gente di Nara, chiusa in se stessa per mentalità e tradizione, accolse Isshin nel modo peggiore, sottoscrivendo quanto l’anziana nonna, giorni prima, aveva urlato sprezzante alla di lei nipote.
Lo scultore senza passato, oltre a non dare notizia intorno al <perché> del suo arrivo per ovvi motivi, tradiva con estrema evidenza le sue origini <occidentali>. I grandi occhi azzurri lo smentivano all’istante, per quanto il vestiario fosse, fuor di dubbio, di fattura nipponica.
Ma come lo aveva avuto? E, se era vissuto sempre in Giappone, chi lo aveva condotto nella Valle? Era nato, forse, da una unione sconcia e clandestina?
Mentre incedeva tra le bancarelle, Isshin sentiva che, intorno a lui, veniva a crearsi un vuoto rumoroso, pieno di chiacchiere infondate. Tanto più infondate perché egli stesso non rammentava nulla.
Si sentì disgustato della faciloneria con cui si emetteva sentenza, ma non se ne stupì, ché conosceva l’indole umana.
Si sentì sfiorare da due mani dalle dita lunghe e sottili e comprese, prima ancora di voltarsi, che si trattava di Akoya.
“Ti ho cercata dappertutto.” Fece arrossendo “Stamane non sei venuta…”
Ella schiuse la bocca al sorriso:
“Vuoi dire che non hai trovato la colazione…?”
“No…” disse prontamente Isshin “Non volevo dire…cioè, è solo che dormivo della grossa e non ti ho sentito.”
“Sono arrivata all’alba.” Spiegò la ragazza prendendo a camminare di fianco a lui, incurante dei commenti malevoli “Oggi, ho lavorato nella stalla. La nonna mi ha costretta a ripulirla da cima a fondo perché dovevo fare ammenda.”
“E’ colpa mia, mi spiace.” Si rammaricò lo scultore scrutandola di sottecchi.
Ella non appariva per nulla preoccupata.
“Io amo stare a contatto con gli animali.” Proseguì Akoya “I loro escrementi puzzano esattamente come quelli degli uomini… Inoltre, da essi si imparano molte virtù.”
“La pazienza di certo.” Le fece eco Isshin “Non ti accorgi che siamo additati da tutti gli abitanti del villaggio?”
“E allora perché sei venuto a cercarmi?” chiese la ragazza divertita “Era ovvio che suscitassi un gran vespaio…Se volevi evitare chiacchiere, potevi anche non venire. Anche se…”
Il volto del suo interlocutore, rosso d’emozione, si fece interrogativo.
“Anche se sono felice tu lo abbia fatto!” cinguettò Akoya con una dolcezza nella voce che lo sciolse del tutto.
Ella si <legò> al suo braccio e, incedendo, prese a presentarlo a chiunque le capitasse di incrociare.
Isshin udì nitidamente qualcuno che diceva:
“Guarda, è lui l’uomo di Akoya…”
E pensò che, forse per la prima volta nella vita, sentiva l’esigenza di dedicarsi a qualcuno, di proteggerlo, di amarlo.
Senza immaginare come potesse essere possibile, si era scoperto attratto da quella ragazza sconosciuta e misteriosa. La sua dote, un misto di bellezza e saggezza, era appetibile agli occhi di un giovane pieno di valori qual era lui.
In quella o in una vita precedente.
“Senti, Akoya, non ti sembra di vivere troppo all’occidentale?” le domandò a bruciapelo mentre passeggiavano.
“Seguire il proprio cuore significa vivere all’occidentale?” fece di rimando l’altra “Allora, sì, vivo sicuramente all'occidentale. Di che cosa ti preoccupi, mio caro?”
“Sei una ragazza in età da marito e ciò potrebbe nuocerti.” S’arrischiò Isshin fermandosi di colpo davanti a lei.
Voleva carpire la sua reazione e la cosa ebbe su di lui un effetto ancora più devastante.
“Un uomo cui piaccia una donna e a cui questa donna fa capire di provare i medesimi sentimenti può commettere tante imprudenze.” Disse con un fil di voce lo scultore.
I lunghi capelli di Akoya gli lambivano, ora, le braccia.
“Di quali imprudenze parli? Per quel che ne so io, un uomo e una donna che si innamorano, s’amano e basta.” Fu la sua risposta.
“Sei una donna strana. Ed io lo sono altrettanto. Se fossi una persona dabbene, dovrei fuggire lontano da te mille miglia, ché le tue parole odorano di spaventosa leggerezza. Una ragazza in età da marito, come ho detto prima, deve trovarsi <degna>.”
“Ma tu non mi consideri indegna.” Sorrise maternamente Akoya “E’ così, mio caro?”
“Se anche lo fossi, non riuscirei a frenare…” provò a dire Isshin.
Ma la nonna, che li aveva seguiti come un segugio per buona parte del tempo, batté forte sulla sua spalla, facendolo sussultare:
“Hai proprio deciso di essere la causa della rovina di mia nipote, oltre che di tutta la valle?”
Il volto dello scultore si fece subito cupo.
“Nonna!” la rimproverò Akoya “Stai dicendo delle parole tremende! Come puoi dire che Isshin è foriero di sventure! È una creatura degli dèi e nessuna creatura degli dèi può essere fonte di disgrazia!”
Isshin ridacchiò amaro:
“Ne sei davvero persuasa, dolce fanciulla?”
Si stupì di sé e del suo dire. Pareva, infatti, che qualcuno gli avesse messo in bocca quelle parole: il loro suono non era del tutto nuovo alle sue orecchie.
“Gli uomini” proseguì Isshin “hanno una volontà che tende al male e, quando si avvicina il loro tempo, si affidano agli dèi. Ma chi può dire se esistano?”
“Blasfemo!!!” urlò l’anziana.
Egli lasciò Akoya costernata in compagnia di sua nonna.
I passi lo condussero di nuovo nella zona sacra, dov’era stato accolto e curato dalla sua salvatrice.
“Se questo posto fosse davvero caro agli dèi, un indegno come me non potrebbe neppure accedervi. Sarebbe fulminato all’istante.”
Si accucciò sotto un albero di susino come fosse assalito da oscure forze e iniziò senza volerlo a piangere sulle proprie miserie.
Non era il passato che gli mancava.
Non gli importava del suo nome, da quando viveva a Nara. Akoya si rivolgeva a lui con affetto in ogni caso. Eppure, c’era qualcosa che lo rimandava alla sua indegnità.
Ella non temeva di essere <leggera> agli occhi del popolo e ai suoi stessi occhi di giovane uomo ancora scapolo, ma lui sì: aveva paura di non meritare affetto.
Non da una creatura tanto speciale.
La conosceva da pochi giorni e già i tormenti d’amore erano straripati dal suo cuore fino a raggiungere la testa, ora piena di lei. Nutriva troppo rispetto per approfittarsi dell’affetto che sentiva provenire dalla stessa Akoya.
Ma, anche se ricambiato con evidenza, non poteva ambire a qualcosa di diverso che una semplice amicizia: il villaggio lo accettava a malincuore, per non parlare del parentado della ragazza.
Se avesse potuto ucciderlo con le sue mani, la nonna lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
“Gli uomini sono pieni di sciocche superstizioni. Ed io non faccio eccezione.”
Mentre parlava così, una pioggia di petali scarlatti prese a cadere dalla chioma dell’albero presso il quale aveva trovato rifugio.
La sinfonia di colori che si aprì davanti a lui gli tolse ancora una volta il fiato: il bianco della neve e il rosa si fondevano magicamente, come a rammentargli qualcosa di arcano.
“Mistero! Tutto è mistero!” sbottò “Il mistero è la causa dell’infelicità dell’uomo.”
Mentre si alzava, una figura delicata si palesò, da lontano, alla sua vista. Era coperta dal kimono, certamente per ripararsi dal nevischio gelido.
Eppure – Isshin ne era certo – non c’era gelo, in quel momento.
“Chi c’è laggiù?” chiese “Fatti vedere!”
Due passi in avanti, ma, mano a mano che procedeva, la figura si faceva più evanescente, lasciando lo <spazio visivo> ad una pianta secolare maestosa, dal fusto incredibilmente possente.
Le curve del susino scarlatto erano sinuose; parevano turbini in fuga verso le stelle e i petali che cadevano da esso creavano a loro volta piccoli vortici, quasi ne imitassero la postura.
Raramente, il giovane scultore si era trovato davanti un albero così incantevole.
Appoggiò la mano ad una piega legnosa, percependone forza e calore. Nel farlo, aveva pensato per qualche oscuro motivo ad Akoya e, pertanto, il suo tocco era stato delicato, gentile.
Levato il capo in alto, Isshin vide il cielo come aperto sull’universo.
“Com’è possibile tutto questo?” si chiese scioccato.
Tutt’intorno la neve sottile cadeva ricoprendo la ghiaia, la terra e qualsiasi cosa non fosse al riparo.
“E’ un braccio della Via Lattea…”
“E’ un mistero…” disse una voce femminile da dietro al tronco dell’albero. Isshin la ricondusse subito ad Akoya.
“E’ un mistero” Proseguì quest’ultima “che tutti gli elementi, seppur diversi, convivano insieme. La disarmonia è solo negli occhi dell’uomo, che pretende di ordinare tutto come fosse un dio. Le nuvole non possono convivere col sole. Le stelle non possono vedersi se nevica.”
“Akoya,” fece Isshin avvicinandosi di più “difendendomi da tua nonna, hai detto che l’uomo è pur sempre una creatura degli dèi e, come tale, sacra ai loro occhi.”
“L’uomo è una creature come tutte le altre, che aspira alla perfezione.” Rispose con saggezza la ragazza “Non c’è nulla di male nel vagliare le proprie capacità, realizzandosi attraverso i doni che la Natura ha concesso. Il <problema>, semmai, è la brama di sopraffazione che deriva dal prendere coscienza del proprio limite. Anche per noi, nella vita reale, esistono dei limiti. Il buon cittadino li rispetta e chi non lo fa non è un buon cittadino.”
“C’è una linea sottile tra la bontà e la malvagità.”
“Un fiore aspira ad essere quel che è.” Riprese Akoya “Ma non l’uomo. Tuttavia, mio caro, quella linea di cui parli, pur esistente, non separa la malvagità dalla bontà. È la luce che si contrappone all’oscurità. Ma, agli occhi degli dèi, l’oscurità è il potenziale, non <il male>.”
“L’uomo genera il male da sé, allora?” chiese lo scultore scrutandola negli occhi scuri “Dalla sua ansia di libertà scaturisce la perversione.”
Akoya sospirò:
“Si dice che, tra non molto tempo, il progresso umano sarà tanto e tale che questo mondo, la stessa valle in cui noi dimoriamo e ci sentiamo così protetti, cambieranno aspetto. Muteranno radicalmente.”
“Parli del terremoto?” l’incalzò Isshin “Non credo siano <punizioni> del cielo. Tutto il Giappone poggia su un grappolo di vulcani. Viverci sopra e pagarne lo scotto è automatico, non trovi?”
“Non mi riferisco alle punizioni.” Lo corresse con dolcezza l’altra.
Si appoggiò al tronco, come se traesse forza dalla creatura che, in qualche modo, sosteneva il suo peso:
“Non credo nelle punizioni del cielo come catastrofe fine a se stessa. Gli dèi non cercano la vendetta. Parlo, piuttosto, di quel che l’uomo saprà fare in piena autonomia: tra meno di cinquant’anni, si vedranno cose che, adesso, ci sembrano fantasie sciocche e assurde.”
“Ad esempio?”
Ella si scostò, prendendogli dolcemente un braccio:
“Verrà un tempo in cui solcheremo i cieli senza ali. E sarà solo l’inizio.”
“Da qualche parte, in Europa, lo fanno già. Con un pallone pieno di gas, pensa…” ridacchiò Isshin accostando il suo viso a quello della ragazza.
“E si arriverà a tanto altro, amor mio.”
Il ragazzo rimase di sasso. L’espressione accorata di Akoya lo aveva sconvolto al punto da renderlo immobile come una statua.
“Come…hai detto?”
La voce gli era uscita a stento.
“Amor mio…” rispose la giovane.
E appose le sue labbra su quelle di Isshin.
Capitolo quarto
Masumi Hayami depose il copione del capolavoro scomparso sul comodino di fianco al letto che l’ospitava.
Con l’altra mano, recuperò dal davanzale dietro di lui la sigaretta rimasta accesa, ma constatò subito che si trattava, ormai, di un mozzicone arso sino al filtro.
“Proprio bravo, Ichiren Oozachi…” masticò amaro “Hai creato una bel miscuglio di fandonie. L’unico personaggio credibile che ti eri preoccupato di creare lo hai reso pian piano un pusillanime succube di sentimenti e fantasie stereotipate. Isshin rappresenta la verità, ma solo perché crede in ciò che la stragrande maggioranza degli uomini crede. E, poi, se fossi stato minimamente convinto di quanto hai messo in bocca allo scultore, non ti saresti mai tolto la vita.”“Perché gli uomini si combattono?” chiese Akoya guardando la natura circostante come fosse ispirata da ciò quanto colpiva i suoi occhi.
Si sganciò dallo scultore, concentrandosi sui primi colori di cui il sole nascente tingeva il cielo. Il pianeta Venere, luminosissimo, ne precedeva il sorgere.
Credeva che Isshin dormisse, ma non era così: il suo cuore in tumulto per quella notte di baci e tenerezze lo aveva come trasportato in una dimensione parallela, <beata>.
Ella strinse la sua mano, costringendolo ad aprire gli occhi.
“Akoya può dirsi perduta, dopo questo gesto avventato?” chiese divertita.
Lo scultore, invero, era serissimo:
“Se è questo che ti preoccupa, chiederò subito la tua mano al capo del villaggio…”
La giovane scosse il capo.
“Pensi che me ne importi?” fece di rimando “Cosa pensi, mio caro, del matrimonio? Ci sono alcune culture, al mondo, in cui per ritenersi sposati basta giacere insieme una notte. Lo sapevi questo?”
“Sarà una cultura più evoluta della nostra…” ridacchiò Isshin mettendosi a sedere.
“Anche gli animali si uniscono,” proseguì la giovane “ma nessuno si sogna di dire che quell’amplesso sia sbagliato.”
“Gli uomini amano costruire gabbie e schemi per evitare che l’anarchia prenda campo.” Sospirò Isshin “Cosa sarebbe se, domani, me ne andassi liberamente con un’altra? E se tu facessi altrimenti? Sarebbe il caos, non credi? I sentimenti sarebbero sviliti, ridotti al nulla. Ed io penso che, ad oggi, il vero amore, la vera amicizia e devozione, siano le uniche cose che nobilitino la nostra specie.”
“Stai tornando a ribadire che l’uomo ha natura malvagia.” Mugugnò la giovane accarezzandogli il viso chiaro “Ma non riuscirai a convincermi.”
“Tu riesci ad essere materna persino con tua nonna.” Sospirò Isshin poco convinto “Tutto è bene, tutto è buono, tutto è meraviglia. Eppure, poc’anzi, ti sei chiesta perché gli uomini si combattono.”
Akoya rimase stupita dal suo dire: era convinta di non essere stata udita.
“Ma davvero” tornò a chiedergli “dopo quanto vissuto con me, troveresti normale rivolgere il tuo cuore ad un’altra?”
Egli la strinse a sé con impeto, costringendola a ricadere sul giaciglio:
“Ma stai scherzando? Dopo avere conosciuto te, che sei il mio primo amore, pensi che me ne andrei in giro a cercare altro? E cosa c’è di meglio, per me, a parte Akoya?”
Ella sorrise deliziata:
“Se gli uomini e le donne vanno in cerca, si sposano e si lasciano, è perché non si sono congiunti realmente con l’altra metà del proprio sé. I disegni degli dèi sono tanti e tutti imperscrutabili. Ancor più grandi del pianeta che ci ospita.”
“Se, per ipotesi, l’anima gemella di tua nonna vivesse di là del mondo, ecco spiegato il perché della sua acidità.”
Risero entrambi di cuore.
“Forse, non hai torto, amor mio.” Sottoscrisse Akoya “Deve essere terribile vivere senza qualcuno che non si ama completamente. Sentirsi…a metà. Io non ho paura di nulla perché ti ho conosciuto, caro. Non mi importa se, domani, mi cacceranno via perché so che ti sarò accanto, in qualche modo. E tu sarai al mio fianco, è così?”
“Non potrei più lasciarti.” Disse il giovane scultore.
Ella annuì:
“L’individuo, in origine, era <uno>. E l’unità generava perfezione. Quando gli dèi crearono il mondo dal Caos, disposero che le creature popolassero la terra in quantità, ma non concessero loro la perfezione dell’uno perché già leggevano nel loro futuro il peccato di tracotanza di cui si sarebbero macchiati…”
Isshin ridacchiò amaro:
“Non so da chi tu abbia…saputo questa verità, ma mi pare qualcosa di spaventoso. Se così fosse, ogni individuo sarebbe condannato a non vivere il vero amore. Se l’altra metà dell’anima dovesse dimorare dall’altra parte del globo, nessuna felicità per l’uomo che resta solo.”
“L’amore vero è un premio.” Disse ispirata Akoya “Sovente, si trova racchiuso in un cespuglio di rovi taglienti, che fanno male, feriscono inesorabilmente, ma colui che godesse di quel sentimento anche per un solo istante nella vita, comprenderebbe in un soffio per quale motivo è nato.”
“Non lo so, Akoya.” Mormorò titubante il giovane “Sto male al solo pensiero di dovermi, un giorno, allontanare da te. Che cosa può mai significare questo?”
Ella gli accarezzò teneramente la guancia:
“Significa che siamo le due parti dello stesso uno. Siamo vissuti in simbiosi, nel pensiero degli dèi e, oggi, viviamo separati in due corpi mortali, come i due bracci di un medesimo fiume, come gli angoli di una figura geometrica…”
Si incupì un istante.
“Ormai, non mi è più possibile vivere separata da te.” Concluse accoccolandosi di nuovo al suo petto. Isshin l’accolse con tenerezza: non riusciva, però, a sentirsi sereno. Percepiva, per quanto le sue parole trasudassero saggezza, ogni suo turbamento, ogni sua inquietudine.
Sicuramente, il loro amore nato da semplici gesti e semplici conversazioni nascondeva radici forti: era quasi impossibile, per lo scultore, pensarsi senza Akoya e un sentimento del genere non poteva essere nato dall’oggi al domani.
“Dimmi, amor mio,” le sussurrò all’orecchio “pensi allora che, nell’altra mia vita, io e te fossimo congiunti?”
“Come adesso.” Rispose senza indugio la ragazza.
La lettura di Masumi fu distolta dal bussare delicato alla porta.
Senza troppa convinzione, egli ordinò che venissero avanti.
Non era né un inserviente né il direttore dell’albergo, bensì la sua solerte segretaria.
“E’ successo qualcosa?” chiese subito il Presidente della Daito Art Productions.
“A parte suo padre che, nel corso della mattinata, mi ha chiamato circa sessanta volte, è tutto nella norma.” L’informò Mitzuki sedendosi sulla poltroncina e accavallando le gambe in modo professionale.
Gli sciorinò il programma del pomeriggio, che Masumi udì appena.
Non era quanto gli interessava.
“Inoltre,” disse finalmente la donna “ho preso contatto con quello specialista di cui mi ha chiesto.”
Tirò fuori dalla cartelletta molte carte e prese ad esporle con cipiglio serio:
“La signorina Shiori soffre di una sindrome isterica. In questo, aveva visto giusto. Questa sindrome la porta ad un attaccamento possessivo nei confronti di chi le sta intorno.”
Disse altre cose che Masumi, sostanzialmente, conosceva per averne a lungo cercato spiegazioni sul web.
“La compulsione, tipica della malattia di cui ella soffre, è esercitata tanto nei riguardi della sua persona, di cui non sopporta la <limitatezza> quanto nei confronti delle persone che …toccano il suo cuore. Il primo problema è imputabile all’educazione ricevuta. Shiori non conosce la sconfitta: le è sempre stato accordato tutto. Finché è vissuta nella bambagia, lontana dai turbamenti amorosi, ciò che…era in lei non ha avuto modo di manifestarsi. Per ventotto anni, è praticamente rimasta chiusa in serra. Ha una passione per i fiori, che le ha sempre dato soddisfazioni perché vi è portata o perché è stata aiutata dai giardinieri di casa Takamiya…”
“Stai cercando di giustificarmi, Mitzuki?” chiese Masumi vuotando un bicchiere di brandy.
“Sto dicendo” puntualizzò la segretaria un poco infastidita “che è assurdo che si faccia carico di un problema non suo. Se anche fosse sua la colpa di quanto sta accadendo, nessuno pretende che lei rinunci alla sua felicità.”
Hayami arcuò le labbra.
“Tu e un tale che lavora per me sareste una coppia perfetta.” Ridacchiò.
“Sicuramente, se parla come me, è una persona sensata.”
Il giovane Presidente si levò in piedi, le braccia conserte:
“Perché pensi che me ne sia andato di casa?”
Ella lo fissò tagliente.
“Non ne sono del tutto convinta.” Disse “Non credo che abbia rinunciato al suo istinto autolesionista, signor Masumi. Nascere con questa indole non le giova e non le consente di godere di quel sano egoismo che una qualsiasi persona comune appellerebbe <istinto di sopravvivenza>.”
Hayami si rivolse a lei altrettanto serio.
“La settimana scorsa, quel dipendente di cui ti parlavo ha <attentato> alla mia vita.” Raccontò “Non fisicamente, ma sotto il profilo psicologico. Lì ho compreso che il mio equilibrio è fragile tanto quanto quello di Shiori. Specie in riferimento agli affari della Ditta M.”
“Lasci che le dica quanto non sopporti questo suo <tingere> di commerciale ogni cosa che conti.” Masticò Mitzuki.
“Io sono quel che sono.” Rise Hayami accendendosi una sigaretta “Francamente, la Ditta M resterà tale per sempre. Devo proteggerla come investimento. Dietro ogni investimento, ci sono persone che lavorano, vite che, grazie al lavoro, diventano degne d’essere vissute.”
“Un imprenditore che cita, senza volerlo, Marx è straordinario.” Fece a sua volta la segretaria.
“E’ tutto <straordinario>.” La corresse il giovane figlio di Eysuke “Il mondo intorno a me ha preso forma nel momento in cui ho scoperto di amare. Io non so dire perché quella ragazza abbia destato in me qualcosa di così forte: è un po’ quello che è stato per Isshin, in fondo. Non sapeva nulla di Akoya e già l’amava.”
“Il mistero delle anime gemelle.” Gli fece eco Mitzuki “Masumi-san, una volta mi ha chiesto se due persone che non si sono mai viste possono innamorarsi.”
“Sembra passato un secolo.”
“La risposta non è mutata. Credo che Oozachi sensei abbia visto giusto. L’amore di anime è qualcosa che chiama da lontano. Quando le due parti della stessa anima si incontrano, è impossibile che esse vivano separate. Farlo sarebbe follia.”
“Non posso credere che a parlare sia tu.” Rise di nuovo l’altro “Una donna pragmatica, piena di sano raziocinio!”
“E’ proprio perché sono concreta che le parlo in questo modo. Lei è, esattamente come quella ragazza, un investimento prezioso. Non voglio perderla e perdere, a mia volta, ciò che ho conquistato.” Chiosò pedantemente Mitzuki.
Masumi le sorrise grato, gli occhi socchiusi di chi è soddisfatto della risposta ricevuta.Capitolo quinto
I giorni passavano lenti, a Nara.
C’è una quieta armonia nello scorrere monotono del quotidiano. La noia è figlia indiscussa dell’insoddisfazione e, di certo, Akoya ed Isshin non ne soffrivano.
Rubavano alla clessidra che, impietosa, si svuotava istanti preziosi e null’altro chiedevano se non di vivere come stavano facendo, circondati dalla natura amica, complici del loro stesso amore.
Senza sapere perché, una mattina Isshin riprese in mano i suoi arnesi: il portale del tempio in cui viveva era rovinato in più punti ed era suo desiderio compiacere la sua donna in ogni modo possibile.
Scalpello alla mano, prese ad eliminare le increspature dovute alle intemperie e al clima sostanzialmente rigido della regione.
Akoya fu deliziata di quell’inatteso regalo.
“Sì,” gli disse abbracciandolo “senza dubbio, questa è l’arte tua. Ed anche la garanzia che non sei stato un disgraziato, bensì un artista di grande valore.”
“Sto solo eliminando qualche crepa e dando una mano di carta vetrata.” Mormorò Isshin senza distogliere lo sguardo dal lavoro “Saper maneggiare qualche attrezzo non mi mette in salvo da quella possibilità.”
Si fermò, ripensando al brigante con cui aveva conversato tempo prima.
Pian piano la memoria stava tornando, ma si guardava ancora dal dirlo alla compagna: non che rammentasse nomi o circostanze. A <stuzzicarlo> erano, piuttosto, scorci di dialoghi e tutti avevano come tema lo spirito, gli dèi, l’indole degli uomini.
Le stesse cose di cui, in pratica, parlava con la stessa Akoya dal momento in cui aveva messo piede nella Valle sacra.
“Sai, ad essere onesto, non vedo più in modo <manicheo> il mondo.”
Akoya tacque: da persona innamorata qual era, pendeva letteralmente dalla sue labbra.
“Già prima di venire qui… prima di conversare con te e di scoprire il lato bello dell’umanità, ho iniziato come una sorta di percorso. Non che ricordi qualcosa di particolare, ma, oggi, ne sono persuaso. Prima di arrivare quassù, dovevo fare qualcosa. O stavo cercando qualcosa.”
Poiché era chino sulla sua cassetta degli attrezzi, non s’avvide dello sguardo un po’ confuso e pallido della giovane donna.
“Credo che la personalità degli uomini sia più varia di quanto non abbia voluto ammettere sino ad ora. Il fatto che esista la superstizione fa pensare che gli uomini ignoranti – la maggioranza, purtroppo – siano tutti uguali, ma non è così. Sono stato troppo duro sinora.”
“Mi fa piacere.” Mormorò Akoya come fosse morta “Era ora che smettessi di emettere ingiusti giudizi, mio caro.”
“Sì,” proseguì Isshin “avevo iniziato un percorso di vita, ma tu mi hai aperto gli occhi.”
“Sono solo una ragazza innamorata.” Sorrise l’altra “Si dice che, quando si ama, tutto il mondo appare diverso, più bello, più positivo.”
“Sei la persona più misteriosa che abbia mai conosciuto.” La lodò lo scultore “Ogni tanto, quando vieni a trovarmi, mi piace spiarti.”
“Mi spii?” si stupì ella “Che bisogno hai di spiarmi? Mi sono mai nascosta ai tuoi occhi?”
“No.” Fece Isshin col capo “Ti ho veduta bene. Conosco di te ogni parte, ma adoro anche <coglierti> in momenti solo tuoi.”
Il cuore di Akoya prese a battere all’impazzata, mentre, con viso arrossato, gli chiedeva implicitamente di spiegare quel pensiero.
Anche lo scultore si fece paonazzo:
“Ad esempio, mentre ieri spazzavi le foglie cadute, hai appoggiato la mano a quel vecchio acero laggiù: hai sorriso e mormorato qualcosa.”
La ragazza sorrise.
“Stavo solo assicurandomi che stesse bene.” Spiegò “L’anno scorso, un contadino voleva tagliarlo. Diceva che era malato e che avrebbe contaminato anche gli alberi vicini.”
Isshin trasecolò:
“E…tu lo hai impedito? Come hai fatto?”
“Al villaggio si stupiscono come te!” rise la giovane donna “Ma per me è naturale come l’aria che respiro: mi riferisco al conversare con gli alberi, con le piante. L’acero era stato attaccato da un parassita, ma io l’ho curato.”
“In che modo?” chiese sempre più stupito lo scultore.
“Quando siamo chiamati a curare gli uomini o gli animali, usiamo rimedi della natura e il nostro amore. Di cos’altro avrebbe avuto bisogno questo vecchio acero?”
“Non saprei.” Rispose l’altro “Di certo, io non ho la tua capacità di conversare o di…amare ciò che è inanimato.”
“Un albero non è diverso da un animale.” Disse Akoya saggiamente.
Lo invitò, quindi, a porre la sua mano sul fusto nodoso di un alberello di fianco all’ingresso del tempio.
“Cosa senti?” gli domandò sorridente.
Isshin levò le spalle:
“Calore, benevolenza…”
La fissò malizioso.
“Sto andando bene, amor mio?”
“Benissimo.” Fu il commento di lei, che cercò le sue labbra e ne ottenne un bacio pieno di affettuosa complicità.
Edited by LauraHeller - 10/8/2015, 15:21