L'illusione del palco

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TOPIC_ICON12  view post Posted on 7/7/2013, 15:43
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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L'illusione del palco



Mi muovo.
C’è un assembramento di gente, tra me e lui. Del resto, è sempre stato così dal giorno in cui la storia di Violetta Valery si impresse nella mia mente parola per parola, battuta per battuta.
Questo party è in mio onore, ma non riesco a sentirmene <il centro>. Tutto ciò di cui sento parlare, dopo i convenevoli, dopo i complimenti, è business, pubblicità, immagine. Sembrano già aver dimenticato il monito degli dei, l’invito a vivere secondo natura.
Perché “tutti i corpi tendono naturalmente al luogo dal quale provengono…”
Non mi sento a mio agio, qui, con addosso il mio vestito finalmente “giusto”, fatto di seta lucida e di qualche “svolazzo” discreto.
Non c’è nulla che richiami la ragazza che sono stata fino a ieri. Ho dismesso, indossando il tacco d’ordinanza, le felpe informi e le gonnelline improbabili a richiamare la beata giovinezza.
Oggi, compio <ufficialmente> ventuno anni. Sono i primi vent’anni della mia vita e, per come <lui> mi sta guardando, sento potrebbero essere gli ultimi. Raramente, ho visto occhi più intensi e ardenti. Sono lo specchio dell’amore che ha deciso di frustrare per sempre. E a me non resta che subire una scelta, come è stato anni addietro per la mia maestra e mentore.
Non ci sono state né lacrime né pietà. Nulla l’ha indotto a rivedere la sua posizione di uomo dell’alta società, rispettoso dei ruoli e degli impegni presi.
Mi ha detto: “L’amore è per i poveri.”
Solo ora mi rendo conto che si riferiva a me, allo scenario che, verosimilmente, mi si sarebbe aperto davanti se avesse ceduto alla sua inclinazione fatale: la miseriia, gli sberleffi dei suoi colleghi, la mancanza di sostegno da parte dello stesso mondo dello spettacolo che oggi mi acclama come interprete di prim’ordine.
Ha agito anche nel mio interesse, ma a che prezzo?
Non riuscirò a farmi una vita mia se quell’ombra scarlatta costellata di spine persevererà ad osservarmi come volesse fagocitare la mia minuscola persona e tutto ciò che entra in relazione con me.
Sono felice soltanto di ciò che, questa sera, sono riuscita a rendere <recitando>: credo di aver donato un sogno d’amore a chiunque - con attenzione od anche solo per curiosità - si è accostato alla materia viva che costituisce la filosofia dei padri: una filosofia mistica in cui tutto si fa armonia, a patto, però, che si seguano le leggi di natura.
Come <lui> non ha fatto.
Egli ha seguito solo i dettami della società in cui si è formato, straziando il suo cuore ed anche il mio.
Ogni tanto, la gente qui convenuta si ferma, mi osserva con degnazione, quasi, come non credesse che un essere venuto dal nulla, privo di fascino e di agganci “giusti”, possa trovarsi qui, al posto della “divina”.
Sento che il mio “momento” potrebbe durare che il lasso di una festa e che, domani, chiuso per sempre il palcoscenico, tornerò ad essere la donna ordinaria che tutti conoscono.
Non così per lui, nella cui testa, come nella mia, s’aggira il ricordo dolceamaro di un’unica notte di stelle, trascorsa su uno “spezzone” di roccia bianca, in una casa sita su una scogliera a strapiombo, a simboleggiare il baratro dopo di noi.
E già quella sera, come ora tacitamente, mi ripeteva che qualcosa, nel mio aspetto, pareva portarlo via. Lo rapiva, lo riconduceva alle sue profondità dell’essere. Non sapeva spiegarlo, se non rifacendosi all’armonia prestabilita, al contatto tra le due anime che, dall’eternità, si cercano e s’amano.
Anche solo per un istante nella vita.
Mi ha aperto un testo di Platone, ha declamato le seguenti parole: “Noi eravamo anticamente uniti: il desiderio e lo struggimento di tornare uniti si chiama amore”.
Eppure, davanti al reale, davanti alla concretezza – per me, il sostentamento quotidiano; per lui, il mondo dell’alta finanza – il nostro sentimento si è fatto evanescente.
Vive, ma nel segreto e nell’amarezza di un ricongiungimento sempre più lontano e impossibile.
Ma, allora, perché me lo ha detto?
Perché farmi credere nel sogno, se le sue intenzioni, dall’inizio, erano a me contrarie, come i venti del deserto alle correnti oceaniche? Si cede per debolezza. Si cede anche perché, talvolta, si è consapevoli che certi treni sfrecciano a una sola ora nella vita.
Se non fosse stata quella sera, non ci sarebbe stata altra sera. E’ bastato raggiungere le profondità dell’essere una volta sola, ma assaggiare la completezza mi ha reso impaziente e inappagata, ad oggi. Ed è lo stesso anche per lui, che continua a fissarmi e a ripetermi come qualcosa, nel mio aspetto, lo porta via.
Mentre penso a queste cose, avverto, sul viso e sul petto in parte scoperto, la gradevole brezza della notte. È una notte strana, mi dico, visto che è il due di gennaio e metà della città è coperta da una neve gelida e “insistente”. Sento il bisogno di rifugiarmi nella frescura ovattata che penetra le ossa, di “intirizzirmi” per bene così da sedare il calore che mi porto dentro. Mentre raggiungo la porta , mi accorgo che non si tratta di un balconcino. Mi rendo conto che è l’uscita della sala: solo facendo qualche passo in più, riuscirò a lasciarmi alle spalle gente di cui non mi importa nulla. E, forse, anche lui.
Un passo, due: via di qui.
Respiro a pieni polmoni e la gradevole frescura inizia a “solidificarsi” sul mio petto, quasi mi strangola, per quanto è pungente.
“Ragazzina, di notte fa freddo.”
Mi giro di scatto verso la sala, già lontana di qualche passo, ma non c’è nessuno.
Nessun impermeabile beige a ricoprire spalle e testa con quel modo di fare “rustico”, a metà tra il paterno e l’imbarazzato.
Poi s’ode il suono di un clacson “impazzito”.
Guardo come un automa un uomo che, dopo aver sgommato con la sua automobile per evitarmi, mi dà della stupida puttana. E risento la sua voce:
“Non si è accorta che il semaforo è rosso?!”
Il semaforo rosso è una delle tante costanti, mi dico. Come un ombrello trasparente con le fragole che ci ha coperti, guarda caso, fino all’ingresso di una sala.
Il tacco scivola sulla neve ghiacciata: sono costretta ad appoggiarmi ad una transenna di fortuna. Alzo lo sguardo e mi accorgo di essere davanti al teatro in cui ho recitato questa sera.
Sul cartellone, c’è il mio viso di dea vittoriosa. Non sembro neppure io.
Forse, mia madre aveva ragione. Tutti avevano ragione, quando sostenevano che, fuori dal mondo del teatro, io non sono che un nulla. Ma questo, oggi, non mi basta. Non è accettabile perché so che dalla mia nullità sociale deriva la fine del mio sogno d’amore.
Spingo la porta d’ingresso, scoprendo con mia grande sorpresa, che è ancora aperto. Osservo distrattamente un paio di pulitori che spazzano e lucidano il foyer. Alcune corone di fiori sono ancora al loro posto, compresa la mia, fatta interamente di rose scarlatte. Alcuni petali sono significativamente caduti a terra e mi sembra di assistere a un funerale shintoista.
Quanta patetica saggezza, nelle leggi della fisica!
Mi spingo avanti: oltre il tendone rosso, ci ritroviamo ancora all’aperto. Lo avverto perché ho di nuovo freddo. Il sogno della dèa è finito qui e tutto è tornato ad essere un ammasso di macerie ferroviarie. Cosa mai sono riuscita a creare, sotto la regia di un maestro geniale qual è l’amore?
Il regista ha guidato sapientemente lo straripare del mio cuore, aiutandomi a mettere ordine come si fa in una biblioteca disordinata. Diversamente, sarebbe stato un profluvio di singhiozzi. Dal punto di vista artistico, un nulla. Solo ora mi rendo conto di quanto l’arte abbia bisogno, sì, di schiettezza e sincerità interiore, ma anche di disciplina. Per diventare “bene condiviso”, occorre che essa “si guardi dall’esterno”. Questa è l’ironia ed è l’unico barlume di oggettività a vincere sulla confusione originaria del cuore.
Mi seggo sul parquet dell’unica location stabile in cui il capolavoro scomparso è stato messo in scena. È caldo, a dispetto dei cumuli di neve qui intorno. Di nuovo, mi sento come prima: al sollievo segue un senso di congelamento devastante.
Ma so che, stavolta, è l’assenza di lui a rendermi quel luogo fatale.
Fino a che ha guardato la mia esibizione, mi sono sentita bene, al mio posto. Egli è la mia controparte spirituale: c’era lui, nelle vesti del mio amante, non il mio partner di scena.
“Ti ho cercato dappertutto. Il mondo vuole sapere che fine ha fatto l’attrice del momento.”
Quelle parole mi colgono impreparata, ma non mi sorprendono. Per quanto abbia fatto per allontanarlo, Yuu è sempre stato quello che mi è venuto dietro sino all’ultimo, contro ogni speranza.
Solo una volta, mi ha lasciata a me stessa: è stato dopo la rappresentazione di Anna dei Miracoli. E quella volta mi perse per sempre.
“Non sono l’attrice del momento. Non indosserò mai quella maschera e credo che lo sappia bene.” Rispondo sorridendogli grata per il galante complimento.
Mette le mani dentro le tasche della giacca elegante.
“Si può essere trasportati all’interno di un vortice anche senza volerlo.” mi dice a bruciapelo.
“Ma io non sono una donna <navigata>.”
Alzo le spalle e mi approssimo a lui:
“Non credo nei vortici. Forse, una volta ho pensato a un cambiamento radicale, ad una di quelle cose che, però, sovvertirebbero l’ordine naturale delle cose. E ho perso.”
Yuu capisce al volo che non sto parlando di lui:

“Non è proprio questo ciò che abbiamo messo in scena questa sera. È l’opposto. Tu parli di convenzioni; noi abbiamo portato in scena l’ineluttabilità dei sensi, il tendere degli elementi al loro posto d’origine. Le anime gemelle, Maya…”
“Le anime gemelle sono una illusione del palcoscenico.”
Sorrido mesta. Sono sorretta dalla mia nuova scoperta: la voce, ora, non mi trema neppure.
“Forse è così.” Mi dice Yuu “Sul palco siamo vissuti davvero come i due amanti sacri. Non c’era spazio per ciò che ci aspettava fuori dal teatro o…davanti al palcoscenico.”
“Ti riferisci alla tua ex?” domando con tono un po’ civettuolo.
“Più che altro, mi riferisco al tuo sostenitore.” È il tranquillo commento del mio partner di scena “Mi riferisco all’uomo con il quale hai trascorso la notte, dopo le prove generali che erano state un autentico fallimento. Mi riferisco al Presidente.”
“Ne parli come se la cosa non ti toccasse.” Dico stupita.
“In un certo senso, non è più un problema.” Spiega “So che la data del suo matrimonio <eccellente> è fissata per domani da parecchio tempo. Quindi, ha compiuto la sua scelta.”
La sua scelta.
Yuu ha ragione.
Di quella scelta io ho da piangere, ora, ogni conseguenza, compresa la facilità con cui ho ceduto al nulla.
“Non riesco a sentirmi infelice.” Continua il ragazzo “Adesso, ci sono io davanti a te. E non mi contenterò di essere una seconda scelta.”
Brandisce il ciondolo col delfino che ci scambiammo un giorno indefinito di tanto tempo fa. Scandisce le frasi di rito: prenditi del tempo, fai come se non ci fossi, permettimi di starti vicino.
La nausea si fa incomprensibilmente forte.
Lo ringrazio con un cenno del capo e mi congedo, guadagnando precipitosamente l’uscita. Credo, con la coda dell’occhio, di aver intravisto il riverbero di luce emesso dalla pietra azzurra del delfino. La mano di Yuu è rimasta sospesa a mezz’aria.
Corro nel ghiaccio, scivolando e reggendomi in modo goffo a qualsiasi cosa mi si pari davanti. Rido di me, ora sguaiatamente ora come stessi singhiozzando.
Sono un folle crogiuolo di sentimenti contrapposti e comprendo il senso della pazzia consapevole.
Il pazzo, forse, sarebbe potuto diventare l’ultima delle mie maschere.
Sento che la dèa che è in me è svanita del tutto.
Il tupè che mi lega i capelli si scioglie e ciocche castane ricadono lungo i lati del viso, solleticandomi fastidiosamente le orecchie. Tiro indietro il capo con uno scatto e impreco qualcosa di cui mi dimentico due secondi dopo.
Sono pazza, davvero.
Ma gli incontri non sono finiti.
Seppur a fatica, metto a fuoco la figura della sensei.
Vuole, forse, dirmi anche lei che “il mondo che conta” sta cercandomi.
Desidera, forse, convincermi ad indossare la maschera felice che qualunque dèa che si rispetti possiede e spende al meglio.
“Dov’eri finita?” mi chiede con quel tono aspro che ben conosco.
Ma sono stufa di tutto.
Sono stufa anche di lei, del mio mentore.
Per anni, ho subito angherie d’ogni sorta. Secondo il suo pensiero avrebbero dovuto spronarmi, ma, ora - non so perché - quelle ferite bruciano tutte. Le umiliazioni patite per raggiungere il risultato di oggi sono davanti a me, una ad una.
“Non sono più una bambina ignorante.” Dico avvicinandola “Non può disporre di me quando più le aggrada. La sua filosofia mi ha nutrito sino a stasera: so tutto di essa, adesso. Ne so così tanto da non volerne più sentire.”
La prendo per un braccio, ma non la scrollo: credo, però, che senta la pressione delle mie cinque dita sull’arto:
“A che è servito? Davvero occorreva soffrire a tal punto pur di interpretare un ruolo? La mia rivale è diventata cieca e ha perso! La divina ha perso! E io? Ho in mano i diritti di rappresentazione e null’altro! Dovrò insegnare alle nuove generazioni che esistono due ineffabili anime gemelle che si …cercano dall’eternità?”
Rido sguaiatamente ancora una volta.
“Due anime gemelle…” ripeto “Quale pietosa bugia! In questo Paese, tutto è stabilito, tutto è ordinato da leggi che negano le verità esposte nel capolavoro scomparso! Lo scrittore che ha composto questo copione è morto suicida! In un istante di follia, ha consumato anche la sua felicità, sensei! Come ha potuto vivere con questo peso nel cuore? Ha mai pensato per un istante che meritasse di meglio? Che meritasse un’altra chance? La chance di essere realmente felice e non una semplice amante surrogata.”
“Ed è così che ti senti?” mi domanda l’anziana scostandosi un poco.
Ha perso la sua alterigia: pare dispiaciuta per me.
“Sono felice solo del fatto di averti sottratto ad una vita di mediocrità.” Afferma “Crescendo umanamente e culturalmente, hai potuto realizzare la differenza tra l’arte e la vita reale.”
“L’arte è una beffa.” Mastico guardandola dritto negli occhi.
“E’ una menzogna.” Sibilo come se la voce mi si strozzasse in gola.
“L’arte è ciò che ti ha riscattata!” sbotta “Come fai ad essere così ingrata?”
“Mi dica, sensei: davvero una ragazza comune merita di essere definita <inutile>?”
Chigusa Tsukikage tace addolorata quanto me, mentre io piango sommessamente.
“L’uomo che ho amato con tutta me stessa afferma di avermi amata subito dopo avermi visto sul palcoscenico.” Continuo “E mi ha amata lassù fino a poche ore fa. Ma davvero Maya Kitajima era una ragazza inutile, prima di diventare la dea scarlatta?”
Le tiro il lembo della sciarpa per indurla a guardarmi in viso:
“Non siamo tutti uguali, <almeno> agli occhi degli dèi?”
Nascondo il viso tra le mani, provando ad allontanarmi.
“Comprendo il tuo dolore.”
La voce della sensei giunge appena udibile sui miei canali auricolari.
“Lo comprendo.” Ribadisce “Dopo il suicidio di Ichiren, io stessa ho cercato la morte. Se Genzo non mi avesse salvata, non sarei qui a investirti quale erede della mia anima.”
“Non la voglio la sua anima.” Quasi ringhio “Io ho la mia, sensei. E stasera torno ad essere la ragazza ordinaria e priva di bellezza che sono sempre stata. Finalmente, ho il coraggio di accettarmi per ciò che sono. Non me ne vergogno più! E il bel mondo dello spettacolo dovrà accettarmi per quel che sono.”
Il senso di freddo, all’approssimarsi della mezzanotte, si impadronisce di me. Mi allontano dalla signora Tsukikage, in direzione della mia vecchia casa, quella che ho condiviso con Rei.
Non trovo nessuno, ché la mia compagna di stanza è alla festa, come tutte le altre attrici del resto. Trovo quasi piacevole “scendere” dal mio tacco dieci e poggiare per intero la pianta del piede sul parquet. Un sospiro di piacere si leva nel silenzio della stanza. Non credevo che tornare ad essere <comune> mi desse così tanto sollievo.
Anche dopo essere stata allontanata dal mondo dello spettacolo, in seguito alla morte di mia madre, mi sono sentita così bene: avevo trovato rifugio in un istituto per bambini. Facevo la serva, giocavo coi neonati ed ero serena. Tutti mi avevano preso a cuore.
Ma, poi, l’uomo orribile che ho finito per amare è venuto a riprendermi, a riportarmi a scuola come si fa coi ragazzini disubbidienti. Quanto l’ho odiato, in quel frangente.
Stavolta, per lo meno, so che non verrà.
Non so proprio cosa farò, da domani.
Penso di dovermi reinventare in qualche modo.
Non ho ancora terminato di formulare il mio pensiero e lo sento. Stavolta, davvero.
“Le ragazze perbene non se ne vanno in giro da sole alle tre di notte.”
“E’ lei a vivere di stereotipi, non io.” rispondo senza girarmi di un pollice.
Penso che il fatto di dargli del <lei>, come per sette anni ho fatto prima di arrivare alla nostra notte insieme, lo abbia mortalmente ferito.
“Se ha già parlato con la sensei,” riprendo “ritengo controproducente e <non necessario> ripetermi. Lascio il ruolo, lascio la compagnia. Riparto da me. Se avrò o meno il talento per farlo, ovvio.”
“Che cosa è successo?”
Lo fisso con ironia estrema:
“E’ successo che mi riprendo la mia vita. Che la mia vita, d’ora innanzi, sarò io a scriverla e a interpretarla secondo il mio io. E’ successo che sono stufa di subire le scelte altrui. Comprese le sue.”
Il mio tono è andato abbassandosi senza che neppure me ne accorgessi.
Masumi non indossa lo smoking. Ha un completo grigio scuro su un maglioncino a collo basso chiaro a risaltare la carnagione diafana.
“Non intendi subire le mie scelte…” Ripete “Significa che vuoi lottare per il nostro amore?”
“Non obbligo nessuno a seguirmi. È indubbio che io l’abbia molto amato: avrei lasciato ogni cosa pur di essere felice insieme a lei. Adesso, lascio ogni cosa <a prescindere> da lei.”
E gli do le spalle come a volermene andare.
“L’ho fatto anche io.” dice.
Mi sento gelare di nuovo: che cosa ha affermato? Non riesco neppure a comprenderlo.
“Ricordi quando ti ho raccontato della mia infanzia?” mi domanda “Ero un bambino come tutti gli altri, forse un po’ più smaliziato. Andavo incontro al mio futuro con fiducia e docilità. Mia madre mi aveva insegnato ad aver timore degli dèi. Ero bravo, ma in pratica un illegittimo. È stato l’arrivo in casa del mio patrigno a cambiare la mia vita e, quando ho perso l’unico mio legame con la famiglia d’origine, ho iniziato ad interpretare il ruolo che tutti si aspettavano: quello del cinico figlio di altrettanto cinico padre. Qualcuno arrivò a dire che ci somigliavamo tanto da ritenere impossibile il nostro essere fisicamente estranei l’uno all’altro. Dissero che mia madre s’era inventata la storia dell’adozione per salvarsi dallo scandalo. Non potevo che essere il figlio di Eysuke Hayami e, alla fine, ci ho creduto anche io.”
Che mi succede? Ho le gambe di piombo: vorrei fuggire lontano un milione di miglia. Non vorrei davvero illudermi ancora.
Ma lui è già dietro di me: sento il suo sguardo sulle mie spalle, sull’incavo del collo. Non mi tocca, ma mi sento fagocitata, come già alla festa.
“Che significa?” chiedo debolmente.
“Che riparto da me.” Quasi mi interrompe con veemenza “Riparto da me e da noi, Maya. Lascio tutto. La Società, la famiglia, tutto.”
Non posso credere che lui, così concreto e borghese, possa pronunciare parole di tal fatta. Come ha intenzione di vivere d’ora in poi? Io sono abituata alla miseria, ma non lui.
Non ho il tempo di ribattere che mi sento afferrare. Riassaporo il contatto con le sue labbra: è morbido, caldo, suadente. Non ci sono altri aggettivi per descrivere quel senso di completezza che credevo di non poter mai più provare. Sono di nuovo a dieci centimetri da terra e, così, mi accorgo che non è l’affascinante interprete del capolavoro scomparso che sta baciando, ma me, Maya. Come io sto baciando un uomo comune, che ho conquistato a prezzo del sangue, vista la differenza anche <visiva> tra me e lui.
Che ne sarà di noi? Che ne sarà?
Ci penserò domani. L’alba non è lontana che un batter di ciglia ed io non ho più l’ansia di viverla. Ritengo che ogni momento della mia esistenza sarà il più bello e il più degno, se lo passerò al suo fianco.
Non so ancora come <archiviare> ciò che è stato.
Si dice che ogni esperienza concorra a renderci migliori, ma io non lo so ancora. Il peso delle sofferenze patite, l’idea di perdere Masumi è ancora così forte da non farmi valutare con obiettività quanto di positivo ho vissuto. Sono una attrice, fuori di dubbio. Ma non lo sono più perché debbo dimostrare qualcosa, ma per il piacere d’esserlo, per il piacere di cambiare e sorprendere. Sostanzialmente, non ritengo di avere ereditato un bel niente da chi mi ha preceduto. Anzi, son tornata a vivere la bellezza dei miei vent’anni. Vent’anni di leggerezza, anche, che non mi permetterei mai di definire “mediocre”.
L’uomo sa sempre ciò di cui ha bisogno.
Ed io, ad oggi, ho bisogno di questo.

Fine

 
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view post Posted on 7/7/2013, 18:05
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La sveglia sul collo segnava le ventitré

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La sostenibile leggerezza del sentirsi
 
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Yayoi
view post Posted on 8/7/2013, 20:02




CITAZIONE
La sostenibile leggerezza del sentirsi

Che è la sola cosa che ti fa sentire meglio, con o senza anima gemella al fianco!

E' un bel racconto, Laura!
Mi è piaciuto moltissimo,

Anche se una Maya così ancora non ce la vedo!
Troppo adulta e consapevole!
Ma giustamente, prima o poi, 'ci arriverà' anche lei!
 
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