Sette anni.
Sono passati altri sette anni e io sono qui, sulla spiaggia di Izu, nell’angolo recondito in cui, quella notte in mare, sognavo di condurti.
Le lune si sono avvicendate veloci, al pari dei battiti del cuore. Amarti è stato come non farlo, tanto era spontaneo. A chi crede che l’amore è qualcosa di complesso rispondo che no, non è così. È rinnegare o, peggio ancora, respingere il Fato a essere l’atto più abominevole. Si strazia non solo il proprio cuore, ma anche l’altrui.
E io so bene che cosa significhi questo. Perché, dopo quella notte sull’Astoria, tutto ha preso a girare al contrario, Maya.
Ci eravamo detti tutto ciò che era necessario.
Tu che smettevi di odiarmi; io che ti chiedevo di aspettare.
Mi hai aspettato davvero: sono stato io quello che non ha mantenuto la promessa.
“E’ stato divertente, ragazzina.”
Così ti ho detto qualche giorno dopo la nostra romantica parentesi.
“Ora ho da fare, se vuoi scusarmi…”
Così ho ribadito, due fiati dopo.
E ho tranciato il tuo, di fiato; ho blindato il mio cuore col filo spinato, recitando la parte che più mi è consona.
Scarafaggio, assassino, affarista senza scrupoli.
Son tornati ad essere gli appellativi più consoni alla mia persona.
Se non altro, la mia massima aspirazione alla solitudine è stata realizzata: non potevo sposarmi con una matta. E, alla fine, eccomi qui, a 38 anni, single ambìto come lo ero all’epoca, qualche ruga d’espressione in più attorno agli occhi azzurri, la voce arrochita da un numero incalcolabile di sigarette.
Fumo anche ora, uccidendo la brezza del mare e gli odori che avrei dovuto, oggi, condividere con te.
Mi manchi, Maya.Dovrei esservi avvezzo, suppongo.
Poi, mi viene in mente una cosa – una cosa stupida, banale: mi alzo, scuotendo dai pantaloni arrotolati la sabbia sottile e, lanciato un ultimo sguardo al mare, decido di guadagnare la via di casa.
Faccio due passi e lo vedo: sembra sia rimasto nella stessa posizione da quel giorno in cui ho provato ad ucciderlo. Mi pare di vedere ancora il sangue rosso rubino sul suo collo diafano, così come la ciocca di capelli castani a terra.
“Sei vestito come ieri.” Mi viene da dirgli, ma non lo dico.
Il mio viso è interrogativo e lui, col volto stanco e segnato al pari del mio – ha trentotto anni come me, credo – mi lascia senza parole:
“Signore, mi prendo io Maya Kitajima.”
“Di nuovo?”
E’ un copione vecchio. Ti piace giocare, ogni tanto? Sai che ti odio quando fai così. Mi dici cose che dovrei dire io.
“Questa litania è vecchia e nojosa. Intendi per perpetuarla ancora a lungo? Ogni anno, in questo giorno, mi dici che andrai da lei, che ti rivelerai come il donatore di rose scarlatte. Io provo ad ammazzarti e tu demordi. Sono stanco, Hijiri.”
Egli arcuò le labbra significativamente.
Afferma che oggi è diverso, che è l’anniversario di quel giorno maledetto.
L’appuntamento mancato.Io che vado a schiantarmi a centoventi all’ora sulla curva a gomito, quella che pare fatta di rocce dolomitiche. Stavo correndo giusto da lei, qui, in questa ansa che è solo mia. Lei mi aspettava, ma io non sono mai arrivato.
Ero atteso in ospedale, dove, vivo per miracolo, mi sono voltato indietro dicendomi che era meglio così, che, per quanto non volessi in alcun modo Shiori, non potevo comunque sbatterle in faccia la mia felicità. Così ho deciso di soffrire con lei e di mollare il mio sogno d’amore.
Per sempre.
Credevo che così fosse.
“Lei è qui, signore.” Mi dice Hijiri facendo un passo in avanti.
Anche le sue scarpe sono consunte: non ho un ufficio normale. Il mio ufficio è la spiaggia, talvolta il mare e lui, per raggiungermi, è costretto a camminare molto. Le sue scarpe si sono rovinate e glielo faccio notare con uno sguardo di sufficienza.
“Lei è qui.” Ripeto poi.
Il mio cuore, all’inizio, non ha colto. Come se le mie orecchie fossero <scisse>, disconnesse.
“Lei è sempre qui.” Mi corregge “Non se ne è mai andata.”
Le mie gambe si fanno di piombo: il mio desiderio, ‘tosto che farmi volare, mi affossa, mi uccide dentro, mi impedisce di camminare.
“Basta un passo, solo uno. Essere felici è diritto di ognuno, non una colpa. Lo sapeva, signor Masumi?”
Lo dici a me proprio tu? Tuo padre ti ha tolto persino il diritto di esistere, figuriamoci quello d’essere felice.
“Che sia qui non le suscita nulla? Davvero il suo amore di anime soccomberà al senso di colpa?”
Deglutisco: ho male alla gola. Troppo fumo o, forse, l’aria di mare. Il mare di dicembre è impietoso e tossisco.
Stavo per replicare e la vedo.
Figuretta scarlatta.
Non è cresciuta di un pollice, ma il suo aspetto si è fatto ardito, quasi sfrontato. I tratti abbozzati della giovane donna di allora si sono scavati sul volto espressivo.
La tua dèa scarlatta fu straordinaria: me la ricordo bene. Ti ho vista trionfare su Ayumi e, subito dopo, rinunciare alla grandezza. Per causa mia.
Un’altra colpa, un’altra tegola.
Alla fine, non ho saputo regalarti alcunché né farti felice, Maya.
“Perché sei venuta?”
È ritta, magrissima, di fianco a Hijiri, tanto più alto di lei. Sei cresciuto come un gigante, Hijiri. Ai suoi occhi, di sicuro.
“Un’opportunità.” Risponde semplicemente lei “E un bacio.”
Vedo che la sagoma del mio ex collaboratore si allontana. Invero, pare dileguarsi nel buio, da ombra qual è.
“Sei qui per un bacio?” ripeto con un fil di voce.
Le tue doti d’attrice sono cresciute, ragazzina. Ora, hai il coraggio di sostenere lo sguardo di un uomo fatto.
“Per il bacio che non mi ha mai dato.” Ribadisce lei “Un abbraccio può essere frainteso; un’espressione può essere male interpretata. Ma non un bacio. Un bacio vero, Hayami-san.”
Cosa ti fa pensare che io sia in grado di farlo? Questa spiaggia che ho amato ora tramuta in sabbie mobili. Affondo i piedi, vado sempre più in basso e nessuno mi aiuterà. Mi chiedi un bacio e io non sono neppure in grado di uscire fuori da questa fossa.
“Il nostro tempo è scaduto, chibichan.” Dico.
“Il tempo si è fermato.” Mi corregge Maya “Per tutto questo tempo, è come se avessi atteso su quell’auto. La mia anima non può muoversi da qui, non può neppure pensare di stare lontana da te.”
Ora che mi dà del <tu> mi sento ancora più perso. Non dovresti abbattere queste barriere. Io ho faticato per ergerle.
Mi si avvicina, mi prende per un braccio come quella mattina, all’alba, sulla nave. È piena notte, ma il suo tocco mi rimanda al sole che s’alza sull’orizzonte. Ne avverto il calore. Accanto a lei è solo calore.
È fuoco.
La guardo negli occhi e mi dico che sette anni son stati brevi. Si sono dissolti ora, qui, davanti ai nostri piedi.
Le prendo il mento con due dita e la bacio.
La bacio sul serio.
Non un bacio timido, ma un bacio subito impetuoso, scioccante per entrambi.
Quattordici anni per un bacio, Maya.
Ha rotto l’equilibrio innaturale eretto dai miei sensi di colpa e ora chiede solo di uscire.
Ne avrò la forza?
Neppure il tempo di chiedermelo che la tua mano stringe la mia e i miei ragionamenti, a questo punto, iniziano a languire.
“Ricominciamo da sette anni fa e da questa spiaggia.” Mi dice “Tu non devi arrivare con alcuna auto perché sei già qui. Non ci sarà incidente e io non dovrò allontanarmi per le prove. Ricominciamo, Masumi.”
“Andiamo a vedere le stelle, ragazzina?” le chiedo con le guance in fiamme mentre sento la sua testa – tenera - posarsi sull’avambraccio. Ora siamo a braccetto.
“Sì.” Mi dice lei “Ricominciamo dal terrazzo. Ricominciamo dalle stelle. Poi, sarà la volta dei piedi nudi sulla spiaggia bianca; i piccoli granchi e la schiuma delle onde…”
Le cingo poi le spalle con il mio braccio; lei, col suo, mi cinge la vita e camminiamo così, allacciati:
“Non sarai venuta mica per una visita d’istruzione al museo di storia naturale naturale…”
“E’ probabile.” Mi dice e cerca ancora le mie labbra, labbra che io non nego. Non posso negare.
Mi pento in un istante della mia pusillanimità: la felicità è un attimo. Basta un solo gesto sbagliato per lasciarla scivolare via.
Oggi, mi rendo conto di essere stato salvato da una dèa. La mia dèa.
FINE