The Disappeared Masterpiece

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TOPIC_ICON12  view post Posted on 4/2/2011, 21:21
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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- The <disappeared Masterpiece> -

storia ispirata a Garasu No Kamen di Suzue Miuchii



Permettetemi di spiegare il perché di un inganno.
Tutti hanno sempre creduto che io fossi un pessimo uomo d’affari, un giapponese ricco baciato dalla fortuna, il cui unico merito è stato quello di saper impugnare la penna e dare sfogo ai suoi sentimenti.
In realtà, io non ho meriti né mi sento un privilegiato.
Ho fatto quel che ho fatto perché per me è scrivere è vivere. Esattamente come mangiare, riprodursi e prendersi cura di se stessi.
Vissi d’arte.
Vissi d’amor.



“Tesoro! Tesoro!”
La voce della mamma, familiare e quasi monotona, mi richiamava all’ordine sempre alla stessa ora.
Era dura, al mattino, alzarsi dal letto.
Soprattutto per me, che attardavo la ritirata per poter leggere o buttare giù una pagina del mio diario.
Lo ricordo anche adesso, come fosse ieri: era piccolo, robusto, con la copertina rossa. E, fra le pagine, avevo sistemavo delle foglie secche di vari colori ad indicarmi l’incedere delle stagioni, il tempo, la vita.
Benché fossi un ottimo studente, non mi piaceva l’idea di star chiuso in un’aula scolastica per otto ore di fila.
Fino a sedici anni, il mio sogno era stato quello di aprire una scuola.
Avevo immaginato una struttura all’aperto, con aule giardino circondate da alberi ad alto fusto come quelli della mia terra d’origine: susini millenari…
E, all’ombra di essi, sognavo si raccogliessero le anime dei poeti per cantare immortali parole intrise di vita vissuta più di qualunque vita concreta.
Io e le mie sorelle attendevamo con ansia il sopraggiungere dell’estate: eravamo condotti a Nara, una regione montuosa a trecento km dalla capitale, dove la mia famiglia, che era originaria di quei luoghi, vi risiedeva per tutta la durata delle vacanze.
Ogni volta che vi facevo ritorno, mi sentivo davvero “a casa”: tra la natura rigogliosa, gli alti monti, i ruscelli, sentivo di esser parte di un tutto più vasto. E la piccola realtà borghese in cui, mio malgrado, ero costretto a vivere stabilmente, “evaporava” davanti a ciò che poteva soltanto definirsi “abbagliante”.
E a me affine.
Fu un viaggio di istruzione in Europa ad aprirmi definitivamente gli occhi.
Decisi che la mia strada era segnata.
La mia strada era il teatro.
Mille maschere, tante quante sono le emozioni di ogni individuo, comprese le sfumature nascoste e il carattere, si assiepavano nella mia mente, desiderose soltanto di venire allo scoperto.
Ero ansioso di conoscere il mondo attraverso esse e, con esse, dar sfogo alla fantasia galoppante, all’ansia di realizzare me stesso nel miglior modo possibile, nella maniera che mi fosse più confacente.
Ma non ero portato per fare l’attore.
Non ne avevo l’espressività né la forza.
Era scrivere ciò che più dava compimento al mio essere.
Tracciare storie di vita, profili corposi come statue michelangiolesche o insondabili come certi Picasso, mi riusciva assai meglio che motteggiare davanti a uno specchio o su un palco nel maldestro tentativo di “darmi una forma”.
Mi innamorai, come quasi tutti gli orientali fanno, di Shakespeare e dei suoi figli incompiuti.
Le sue disperate Ofelia, ma anche le leggiadre Giulietta e le determinate Cordelia attraversavano la mia mente di giovane in ricerca del sé, diventando, pian piano, muse ispiratrici, creature mandate dall’alto per indicarmi la strada.
A Londra presi dimora in un ostello per studenti: ogni sera frequentavo i teatri di Bloomsbury o andavo a cena nei circoli intellettuali della periferia ovest della capitale.
Qui, le menti più brillanti d’Europa dibattevano d’arte e cultura e, fuori delle infagottate aule accademiche, tutto appariva meravigliosamente bello, meravigliosamente libero.
Se avessi avuto possibilità di scelta, sarei rimasto in Europa per sempre.
Mi sentivo estraneo alla mia terra d’origine.
Mi ero sempre sentito un estraneo.
Chi dice che un uomo è il prodotto pressoché esclusivo del contesto in cui viene al mondo o cresce sbaglia fortemente. Io non mi riconoscevo per nulla in molti degli stereotipi nipponici.
Dicevo sempre - e lo pensavo - che non mi interessava prendere le redini dell’azienda di mio padre, come anche contrarre matrimonio con una donna del mio stesso rango. Anzi, più i miei ripetevano questa cantilena assordante, più io me ne lagnavo tra me e me e giuravo, altresì, di non obbedir loro mai.
Trovai un mentore in un anziano drammaturgo inglese che mi indirizzò nei posti più disparati perché io potessi far esperienza.
Conobbi di tutto: le filosofie occidentali come anche i bordelli, scoprendo che certo intellettualismo reca in sé una vena erotica non indifferente.
E le filosofie mi servirono, negli anni a venire.
Furono una medicina all’ansia divorante, come anche uno sprone a resistere finché non avessi portato a compimento il mio “capolavoro”.

Il capolavoro è tutto e niente al tempo stesso. Tutta la vita di un artista è incuneata nella ricerca del perfetto, ma per me l’idea non era questa. Non del tutto, almeno.
Io volevo qualcosa che rappresentasse, conchiudesse in pieno tutto il mio scibile e tutto il lato emotivo di me.
Volevo che il capolavoro che prendeva forma dalle mie mani coincidesse, punto per punto, con il mio io.
Nel contempo, mi rendevo anche conto che, perseguito quell‘obiettivo, la mia vita vegetativa non avrebbe più avuto un senso.
Ma, giudicando lontano il traguardo, me ne preoccupavo relativamente.
Forse avrei dovuto, invece.
Il mio mentore si faceva chiamare “Darker” ed era un assiduo frequentatore dei circoli socialisti. Nel 1921, io avevo diciotto anni e il nazionalismo estremo soffiava già su buona parte del mondo.
Anche sul mio Giappone.
Una sera, io e Darker eravamo a cena in un ristorantino nei pressi di Hyde Park ed egli, dopo essere stato zitto per buona parte del tempo, mi domandò senza mezzi termini se avessi dei progetti per il futuro.
Ero rimasto in Inghilterra ben oltre il periodo della borsa di studio, desideroso di altre esperienze, desideroso di sfuggire ad un fato che, se mai fossi tornato, si sarebbe rivelato ineluttabile.
Sulle prime fraintesi il motivo della domanda di Darker.
Pensai volesse coinvolgermi in una delle sue strambe campagne idealistiche: chiarii allora che non mi interessava diventare un attivista, che la politica era qualcosa di troppo grande e disonesto per aver voglia di interessarmene.
E, soprattutto, non volevo essere assoggettato a nessuno.
Un padre che decideva per la mia vita io lo avevo già. Anche se, speravo, in cuor mio, di ribellarmi.
Ma il mio mentore si riferiva ad altro:
“Tu sei una mente brillante e riesci a comunicare emozioni attraverso ciò che scrivi. Una dote che non tutti posseggono. Riesci ad emergere dal cumulo delle menzogne umane e, pur essendo tu stesso portatore di menzogna perché ne fai uso, risulti più vero di chiunque altro.”
Non capivo dove volesse andare a parare.
Chiesi ulteriori lumi.
“Ichiren,” mi disse “devi trovare qualcosa che ti rappresenti. La tua musa ispiratrice non può essere l’eterea e bionda Emma. È altro che vedi: ha i capelli neri, si alza al mattino col sorgere del sole, conosce le erbe e allevia le sofferenze di un uomo con amorevole e discreta dedizione. Non conosce i morbidi materassi di un letto a baldacchino e la notte distende la schiena su un pavimento di legno. Finché non avrai accettato di appartenere anche tu a qualcosa, non riuscirai mai a creare il tuo capolavoro.”
Sorrisi imbarazzato:
“Signore, non capisco cosa voglia dire…”
“E, invece, credo di sì.” mi interruppe il Maestro “Tu sei quel che sei, ma le mille maschere cui ambisci non saranno mai tante se non ti metti in capo che non esistono luoghi ed esperienze e vite di prima e seconda classe. Tu pensi di essere un incompreso, pensi che il tuo Giappone sia patria di gente malata per il troppo lavoro e insofferente alle passioni, ma esso è ciò che ti dà quel vigore artistico che io, pur nella mia vasta esperienza, ho trovato in pochi.”
“Non voglio tornare laggiù.” mormorai accendendomi una sigaretta.
Darker me la sottrasse:
“Torna, invece, vai nel posto che ti è più congeniale e dai sfogo a te stesso e al tuo estro. Trai la forza da ciò che è realmente tuo. Solo così le foreste che descriverai non risulteranno sterili cattedrali neoclassiche, ma luoghi di vita reale e vissuta!”
“Ma, signore,” provai ad obiettare “ho sempre ritenuto che i sentimenti fossero tutto ciò su cui si fonda la fratellanza fra gli uomini. Che importanza hanno dei…tratti somatici o degli stereotipi sociali?”
“E’ la tua cultura che devi far rifiorire, ciò che conosci profondamente e persino quel che ti è indigesto. Quando lo farai, il tuo sarà un <capolavoro scomparso>.”
“<capolavoro scomparso>, Maestro?” ripetei incerto.
Darker mi sorrise paternamente:
“Voi giapponesi possedete un linguaggio figurato meraviglioso. Ogni ideogramma costituisce di per sé un’opera di pittura, quasi un piccolo idillio, prima ancora che una forma di espressione. Alberi, prati, fiori, monti, stelle, cielo, luna, sole. E poi i quattro elementi di aria, acqua, terra e fuoco. I vostri nomi celebrano la fusione totale dell‘uomo con la natura. Il vostro mondo è meravigliosamente pieno di dèi…”
“Maestro, ho sempre pensato che un capolavoro fosse <manifesto>. Del resto, la natura cui lei si appella è perfettamente visibile.“ obiettai con la semplicità dei miei vent’anni “Come posso creare qualcosa che è già <scomparso>?“
“Non è il capolavoro che devi ancora scrivere a non essere mai nato, ma il tuo spirito, ciò che sei nella profondità del tuo essere. È tutto ciò che ti serve, Ichiren, ed è anche ciò che devi assolutamente recuperare!”
La mia essenza.
Ciò che ero io, nel profondo.
Ciò che ero realmente.
“Ma, dopo che l’avrò concluso, non sarà più un <capolavoro scomparso>.” affermai sconcertato dalla semplicità del suo pensiero.
Darker sorrise:
“Sarà un capolavoro ritrovato, certo. Ma ti servirà, negli anni a venire. E ti conforterà, perché mill’altre volte smarrirai te stesso.”


DA QUI (MC)***

Tornare a casa.
Al solo pensarci sentivo chiudersi la bocca dello stomaco, le parole parevano morire in punta di penna.
L’ispirazione mi dettava solo veleno e angustie.
Mi passai una mano fra i capelli.
La tenda della mia stanza si muoveva piano al vento frizzante dell’autunno inglese.
Ebbi freddo.
Allora, per confortarmi, immaginai luoghi a me cari, lontani dal tran tran cittadino in cui avevo smarrito quella parte di me che il mio mentore mi incitava a ritrovare: le campagne della regione di Nara, che mi videro bambino felice, con le sue valli strette e racchiuse dai monti a scrigno, coi suoi fiumi che si arrampicavano, caparbi e imperiosi, sui pendii, con i suoi alberi dal fusto quasi scarlatto in fuga verso il divino.
Si tramandava una leggenda, da quelle parti.
Era una storia che si rifaceva tanto alla tradizione buddista quanto a quella scintoista: ne era protagonista una fanciulla dai lunghi capelli neri, una persona misteriosa in grado di “comprendere” il linguaggio degli animali come anche quello delle piante.
Si chiamava Akoya e già il suo nome era indicativo, ché racchiudeva in sé la parola “amore”. Ella era infatti la dèa madre incarnata che tutto governava e tutto custodiva.
Mi addormentai pensando con nostalgia alle lucciole e ai petali dei fiori di susino.
Nara era ciò che, forse, avrebbe potuto condurmi alla riscoperta di me stesso.

Ma la vita mi riservava delle amare sorprese e quella che ebbi, qualche giorno dopo il mio colloquio con Darker, fu la prima di una lunga serie.
Giunse una lettera e, poco dopo, un telegramma, in cui mi veniva richiesto di fare immediato ritorno a casa: mio padre, pur non essendo particolarmente anziano, era venuto a mancare d’improvviso ed io, in quanto unico figlio maschio, dovevo subentrargli nella conduzione dell’azienda.
Mi disperavo al pensiero di dovermi arrabattare tra mangimi e pesticidi, cosa che, peraltro non avevo mai fatto in concreto; l’idea di abbandonare ogni velleità artistica, poi, mi gettava nello sconforto più totale.
Proprio nel momento in cui “sentivo” di aver imboccato la strada giusta, ero chiamato a percorrere un altro sentiero.
Ma c’era mia madre e le mie sorelle già grandicelle non ancora maritate.
Dovevo pensare a qualcosa di diverso da me, anche se mi ripugnava non poco.

“Ichiren, tu sei un ragazzo intelligente e responsabile, non abbandonerai la tua famiglia, vero? Torna, figliolo! Siamo nella più cupa disperazione. Già il sol fatto di cremare tuo padre senza di te, ci strazia l‘animo.”

Conservai a lungo la missiva scritta di pugno dalla mamma.
La tenni appallottolata come un sasso nel cassetto “segreto” del mio ufficio, ritenendo, a ragione, che da essa fossero scaturiti il mio malessere e la mia perenne insoddisfazione.
Mio padre mi aveva lasciato una attività florida, oltre che diverse proprietà nella Capitale e a Nara.
Essendo diventato il nuovo capo della famiglia, pensai che avrei in ogni caso potuto gestire la mia vita come meglio credevo.
Ma non fu così.
La scrittura, come anche il semplice leggere un libro, “rubava” tempo prezioso alle responsabilità gravose che, giornalmente, dovevo affrontare.
E così l’accantonai.
Il “mio capolavoro” sprofondava sempre di più negli abissi del mondo vegetativo ed io non riuscivo neanche a capire chi fossi diventato.
Guardandomi allo specchio, vedevo il riflesso di un uomo nel quale non mi riconoscevo.
O, forse, ripugnavo soltanto.
Avevo appena preso dimestichezza con le nozioni di ragioneria e i libri contabili, che fui chiamato a fare un passo ancora più decisivo.
“Non mi sposerò mai.” dissi a mia madre sulle prime, con un tono perentorio che, invero, nascondeva una paura devastante.
Lo ricordo bene, lo ricorderò per sempre.
Ella si mosse nervosa nel centro della stanza, dove campeggiava il ritratto accigliato del padre defunto listata a lutto:
“Ormai hai superato i vent‘anni, Ichiren, ed è giunto il momento di assicurare una discendenza agli Oozachi. Non sta bene che un uomo del tuo rango mantenga il celibato ancora più a lungo.”
“Non voglio un matrimonio d’interesse.” ribadii secco “E le mie sorelle devono ancora finire gli studi.”
La mamma depose sul tavolo una fotografia che ritraeva la mia futura sposa.
“E’ una donna bella e colta,” disse decantandone la bellezza e, insieme, il carattere “suona il koto e si occupa dell‘arte della vestizione. La sua famiglia ha una piccola, ma redditizia industria tessile a Shikoku.”
Non me ne importava nulla.
Vedere quella foto mi procurava lo stesso effetto di una doccia ghiacciata in pieno inverno.
Sul tavolo dell’ufficio c’era una busta proveniente dall’Inghilterra.
Il simbolo della libertà che avevo lasciato contro ciò che mi aspettava.
Mi sentivo perso.
Chiesi alla mamma di lasciarmi solo a riflettere.
Ma scacciai subito dalla testa il pensiero del matrimonio molesto per immergermi nella lettura dell’epistola di Darker, che così mi scriveva:

“Che ne è di te, ragazzo?
La situazione in Europa sta degenerando. In Germania, un uomo di nome Hitler ha tentato un colpo di stato, per fortuna fallito. Ma si fa portavoce di idee umilianti per qualunque essere dotato di raziocinio che viva su questa terra e riesce, nonostante sia un aborto della natura, a sobillare le masse.
In Italia, un maestro di scuola elementare venuto dalle campagne ha preso il potere e i suoi scagnozzi ignoranti hanno marciato sulla Capitale. Hanno ucciso uno dei socialisti più in vista del Paese e un caro amico, malato, è stato condannato a marcire in prigione per il resto dei suoi giorni.
La mia Patria, come anche la Francia, sta attraversando un grave periodo di crisi economica. I disoccupati crescono e i sindacati hanno fatto il boom di iscritti.
Anche dalla Russia, al momento, non arrivano notizie confortanti. Non ti nascondo che il desiderio di poter prendere dimora laggiù, nella vecchia, cara San Pietroburgo, non mi pare più così impellente. Non so perché, ma non riesco a chiamarla con il suo nuovo nome. Forse sto diventando vecchio. Dacché Lenin è morto, il futuro è nebuloso anche in quel che ho sempre definito <il mio Giardino dell’Eden>.
In questo contesto quanto mai incerto, il mio pensiero corre a te, Ichiren, caro amico di un tempo più prospero. Hai dato vita al tuo <capolavoro scomparso>? Io mi auguro davvero che tu possa avere ritrovato finalmente te stesso.
Il tuo vecchio maestro o, come dite voi in Giappone, il tuo <sensei>.”

Una lacrima mi rigò il volto.
Darker, in Europa ed io qui, in Giappone, dove la restaurazione Meiji stava portando rigore, angoscia, censure e, soprattutto, dicotomie incolmabili tra le classi sociali!
Ah, desideravo così tanto essere con lui, sentire le sue parole dense di saggezza piovermi addosso come un balsamo benefico!
E poi scrivere, gettare sulla carta le mie angosce, goderne come una maschera buffa e sentirmi vivo!
D’improvviso, un’idea prese forma nella mia mente.
Chiamai mia madre.
Forse potevo trovare il coraggio di prendere in mano la mia vita, pensai non senza esaltazione dopo che, sul tavolo delle trattative, assieme alle lacrime di rito, fu siglato l’<accordo>.
Avrei accettato di sposare Sayaka, la donna scelta per me dalla mia famiglia, solo a patto che mi fosse concesso di mettere in piedi un teatro.

Il mio teatro.

La mamma, pur dissenziente, finì per <concedermi> quel lusso, soprattutto quando ebbi modo di spiegarle il possibile - e sempre auspicabile - aumento delle entrate nelle casse di famiglia.
Due mesi appena e il teatro Gekko, o teatro della Luna, era realtà.
In quel frangente, mi occupai della redazione del mio primo manoscritto teatrale.
Ma, non avendo tempo per comporre qualcosa di mio, pensai ad una rivisitazione semplificata del Romeo e Giulietta di Shakespeare.
Certo, non era propriamente quel che volevo, ma il debutto doveva avvenire prima possibile. Dalla buona riuscita di quello spettacolo dipendeva il futuro del teatro, come anche il mio di scrittore.
Giovani volenterosi, ma anche vecchi attori di razza che incontravo regolarmente in società, accettarono di entrare nella mia compagnia.
Fu un successo senza precedenti ed i timori iniziali furono messi a tacere.
Fortunatamente, non parve troppo forzato, al pubblico pagante, quell’azzardato accostamento tra la letteratura inglese e la fisicità tutta orientale degli interpreti. Infatti, i giapponesi, pur avendo sempre avuto cura di preservare le tradizioni, sono tendenzialmente degli esterofili.
Ed io ne approfittai.
Ma mi guardai bene dal parlare a Darker di quell‘<opera di contaminazione>, ché sapevo non l’avrebbe mai approvata.
Contemporaneamente, i preparativi per le mie nozze procedevano.
Sposai Sayaka, come pattuito, il giorno successivo alla prima del mio spettacolo.
Ero così esaltato e felice di poter finalmente lavorare in teatro che persino l’idea di metter su famiglia con una sconosciuta non mi faceva più rabbrividire.
Così credevo, almeno.
Fino a che, terminato il rito, una sensazione angosciante, non certo attribuibile al vino, mi scosse da capo a piedi.
La donna che avevo appena sposato sedeva di fronte a me, attorniata dai genitori e dai familiari, col capo chino.
Il sottofondo musicale di quella festa di nozze era costituito da vecchie nenie del Kanto, eseguite al koto dallo stesso maestro di Sayaka.
Era bella, mia moglie, nonostante la parrucca e il trucco pesante non facessero trasparire alcunché dei suoi tratti originali.
La guardavo intensamente e, più mi soffermavo sui particolari, più mi veniva in mente una lirica di Saffo sull‘amor perduto.
Ma, paradossalmente, sentivo con chiarezza come non esistesse comunanza di spiriti, fra noi.
Solo estraneità.
Certo, la conoscevo ancora poco, ma nessuna sensazione “a pelle” faceva pensare a una scelta felice.
Ne ebbi la certezza quando rimanemmo soli.
Dopo aver abbassato appena le luci, si spogliò piano davanti a me, senza neppure guardarmi negli occhi, senza neanche un sorriso.
Non aveva l’espressione sofferente di chi stava per subire una violenza. Fosse stato così, avrei provato tenerezza e, forse, mi sarei affezionato subito a lei.
Era qualcosa di peggio: Sayaka sapeva che ciò che stava per fare costituiva un devoir e ad esso era stata finemente addestrata.
Si sdraiò sul <futon>, continuando a guardare il soffitto, in attesa che io agissi.
Così feci.
La sua pelle era morbida e profumata, ma non si sconvolgeva al mio tocco; la sua bocca, certo inesperta, non cercava la mia; gli arti, pur aggraziati, sembravano pezzi di legno galleggianti goffamente su un mare appena sferzato dal vento.
Non disse una sola parola, non le sfuggì alcun lamento.
In quella stanza non albergarono né dolore né piacere.
Non ci fu una danza complice, ma movimenti meccanici e privi autentica passione.
I suoi occhi non si soffermarono mai su di me.
Avrei dato non so cosa per capire a cosa stesse pensando in quegli istanti.
Ed io rimpiansi le donne dei bordelli inglesi, calde ed accoglienti, dalle cosce morbide e generose.
Fu un amplesso duro, un fallimento dal punto di vista del coinvolgimento emotivo per entrambi, ma Sayaka rimase subito incinta.
E entrambe le nostre famiglie furono soddisfatte.

***

La mia attività mi portava a stare fuori casa a lungo e pensai bene di affidare al fratello di Sayaka, che era ingegnere agrario, la conduzione dell’azienda di mio padre.
Nel frattempo, il lavoro di contaminazione dei più grandi capolavori teatrali dell’Occidente continuava a pieno ritmo.
Producemmo spettacoli shakespeariani a più riprese e ci proposero di fare una tournee in tutto l’arcipelago.
Il fatto di aver momentaneamente abbandonato il <kabuki> e il <no> costituì un vantaggio, per noi: le commedie realistiche erano soggette a forte censura da parte degli organi di controllo statali e darci alla rivisitazione dei capolavori stranieri ci mise al sicuro.
Avevo ripreso a corrispondere con Darker, sebbene la posta arrivasse con notevole ritardo.
Ma fu nel 1935 che avvenne qualcosa di inatteso, un evento che segnò per sempre la mia vita come un raggio di sole benefico dopo una tempesta troppo a lungo durata.
Io e Sayaka avevamo appena avuto il nostro secondo figlio, Shingo.
Il fatto che ella fosse rimasta nuovamente in stato interessante non modificò in meglio il nostro menage, anzi.
Tutte le volte in cui io la cercavo, ripeteva sempre lo stesso copione: si spogliava lenta, senza dire una parola, e forse subiva guardando il soffitto.
Stavo fuori casa il più possibile: mi sentivo oppresso, in qualche modo, dalla responsabilità di essere padre e marito insieme.
Con la scusa di non volere svegliare il piccolo, presi a dormire in una delle tante stanze destinate agli ospiti.
Sayaka non protestava: i nostri rapporti si limitavano ai formali saluti.
Fu allora che, di ritorno da uno dei miei viaggi, conobbi la piccola vagabonda dal viso bianco come la luna.
Gli operatori del Gekko mi raccontarono di averla vista gironzolare nei pressi del teatro per un paio di settimane di fila.
Sporca, col vestito logoro in più punti, aveva fatto a pugni coi gatti randagi per ottenere il prezioso contenuto di un cesto dell’immondizia.
Una scena che, per quanto non ne fossi stato testimone, mi colpì nel profondo.
Poi, dopo giorni di appostamento, la piccola aveva “finalmente” preso coraggio e s’era introdotta in teatro.
La acchiapparono in extremis, mentre fuggiva dopo aver svaligiato il guardaroba degli attori.
“Lasciatemi!” urlava dimenandosi con forza.
Era pressoché una bambina, per di più magra come una acciuga, e non capivo donde scaturisse quella forza fuori del comune.
Ricordo che uno dei miei collaboratori fu costretto a ricorrere alla cassetta del pronto soccorso per disinfettare dei graffi vistosi al braccio.
“Chi sei?” le domandai con calma “Hai forse smarrito la strada di casa? Quanti anni hai?”
Mi fissò con aria truce:
“Io non ho una casa!” urlò con una bella voce impostata “Mi chiamo Chizu, ho sette anni e vivo in un bordello!”
Sospirai:
“Capisco…e deduco che tua madre viva con te.”
Scrollò i capelli neri legati in una semplice codina spettinata.
“Non è mia madre.” rispose “La vecchia dice che mi venderà ad un altro bordello appena avrò compiuto dieci anni.”
Schock e raccapriccio si impadronirono di me, al pensiero che una bambina così piccola fosse vittima di un simile degrado morale.
“Ti prego, signore.” mi disse ella dopo che parve essersi rasserenata un poco “Chiama le guardie, fammi mettere in prigione. Io non voglio fare la puttana.”
Le accarezzai la testa scura.
Al tatto, quei capelli neri erano ruvidi, ma mi trasmisero una sensazione strana, quasi paterna, che neppure coi figli del mio stesso sangue avevo mai provato.
“Come ti chiami?” chiesi alla bimba sorridendole.
“Chizu.” rispose dubbiosa.
“Andiamo da questa signora che ti ospita.” le proposi “E poi decideremo sul da farsi.”
I miei collaboratori avevano assistito alla scena attoniti.
Qualcuno si lamentò piuttosto palesemente, ma non me ne curai neppure.
Chizu si attaccò alla mia mano ed io ne fui completamente felice.
Mentre osservavo quello scricciolo procedere al mio fianco, pensavo che, d’improvviso, sembrava essere tornata ai suoi sette anni. Perso il linguaggio scurrile e poco curato, ella era un bambina come tutte le altre.
Ed anche molto bella.

Il quartiere in cui viveva non era distante dal Gekko, ma non potevano esistere dimensioni più diverse.
Tokyo era una città tradizionalista, in cui le persone venivano ancora ghettizzate in nome della presunta superiorità di una casta rispetto ad un’altra. Eppure, mio padre diceva sempre che il quartiere delle signorine ad ore era anche abitato da persone rispettabili. E molte “ragazze” provenivano da famiglie di samurai cadute in disgrazia dopo l’avvento dell’era Meiji.
Entrando nel bordello, rimasi sconcertato da quanta sporcizia vi albergasse: le pareti di carta erano consunte; odore di fritto, misto a incenso, penetrava fastidiosamente nelle narici di chi, per la prima volta, vi si recava.
Da vistosi strappi si intravedeva la sagoma di qualcuno che faceva all’amore e si udivano i relativi lamenti.
Osservai Chizu di sottecchi: ella non pareva particolarmente sorpresa della cosa.
Domandammo ad una ragazza molto graziosa dove fosse la “padrona” ed ella indicò proprio la stanza in cui si stava svolgendo un focoso amplesso.
“Anche se è vecchia, la signora è una baldracca molto richiesta.” disse Chizu con un sorriso malizioso.
Sgranai gli occhi:
“Utilizzi dei termini fin troppo fioriti, ragazzina.”
Avevo usato un tono di rimprovero ed ella se ne risentì.
“Voi persone perbene amate nascondervi dietro le belle parole, ma una baldracca resta tale, anche se la si chiama con un altro nome.”
Fui stupito dalla sua determinazione.
Forse la lingua non era corretta, ma rivelava grande intelligenza e capacità d’analisi.

Terminati i lamenti di rito, la “signora” uscì dalla stanza allacciandosi l’obi.
“Chi è lei?” mi chiese scambiandomi forse per un avventore del bordello.
Non ebbi modo di rispondere.
Nel frattempo, aveva chiamato una sua “collaboratrice” chiedendole di intrattenermi fino a che ella “non si fosse ripresa”.
“Aspetti!” urlai rosso in viso “Non sono qui in veste di cliente, ma per questa bambina.”
Detto ciò, additai Chizu, che tenendomi la mano, se ne stava seminascosta dietro la mia gamba.
“Se ha rubato in casa sua” si affrettò a dire la donna “non è mia responsabilità! Io non sono sua madre.”
“Questo lo so.” dissi io “Infatti, volevo chiederle se era disposta a lasciar venire la bambina con me.”
La “signora” mi squadrò da capo a piedi perplessa.
“Sta scherzando?” chiese con tono canzonatorio “Questa tata vale una fortuna. Tra qualche anno, sarà lei a mandare avanti la baracca e mi frutterà un bel po’ di soldi.”
Mi irrigidii:
“Se sono i soldi che vuole, io sono disposto a pagargliene quanti ne vuole.”
“Davvero?” fece la vecchia “Guardi che ne voglio tanti.”
“E sia!” ribadii perentorio.
Mi sembrava di commerciare in schiavi. Ero stupefatto del modo assurdo in cui venivano gestiti i rapporti umani all’interno di un bordello.
“Lei è davvero un uomo ambiguo.” mi disse la donna quando, finalmente, siglammo l’accordo “E‘ entrato in questa casa giudicandoci, come tutta la gente del bel mondo fa, ma è più immorale di quanto non voglia far trasparire. Io almeno avrei aspettato che la bambina fosse donna…”
Chizu mi strinse forte la mano.
Credo percepimmo entrambi, nello stesso istante, la grave portata di quelle parole.
“Non abbiamo altro da dirci.” masticai amaro “Addio.”

***
Mia moglie non la prese molto bene.
Anzi, dire che “non la prese molto bene” costituisce, forse, un eufemismo.
Sayaka, non soltanto si oppose alla possibilità di adottare formalmente Chizu, ma si rifiutò in modo tassativo di ospitarla in casa nostra. Non volle riservare alla bambina neppure una delle tante stanze destinate alla servitù.
Quel giorno di inizio agosto l’afa era insopportabile. Ricordo che i miei due figli, si rincorrevano per casa incuranti di tutto. Incuranti delle urla che provenivano dal salotto come anche di coloro che stavano inscenando la tragedia.
“Chi è?” domandava isterica Sayaka“Da dove verrà mai?”
E, rivolgendosi a lei, cercava di carpirle informazioni sulla famiglia.
Chizu stava zitta e ferma: era sinceramente addolorata da cotanta arroganza, ma leggevo nei suoi occhi anche una combattività fuori del comune.
“Da quel che so, mio padre era un samurai.” raccontò con voce ferma “Mentre mia madre era una geisha. Abitavamo a Sapporo. Poi, mia madre è sparita ed io sono rimasta sola.”
“Una geisha…” ripeté mia moglie scandalizzata. Poi, rivolgendosi a me, aggiunse: “Non vorrai far crescere i nostri due ragazzi con la figlia di una geisha!”
“Chizu è una bambina intelligente ed assennata. Sono sicura ti farà piacere averla in casa, dopo che l’avrai conosciuta. Del resto, noi non abbiamo delle figlie…”
Sayaka fu irremovibile.
Pareva aver perso di colpo tutta la sua bellezza.
Non che avessi mai fatto caso a questo, anzi: ma, persa la sua aria materna, aveva l’aspetto di una vecchia megera permalosa.
Dovetti fare uno sforzo immane per non vomitarle addosso quel che pensavo realmente di lei.
Il nostro matrimonio era stato una imposizione, è vero, ma ella non aveva fatto alcunché per renderlo piacevole.
Era stata addestrata a <subire>, ma non ad essere complice né amorevole verso il proprio coniuge.
A me, quella situazione di estraneità aveva fatto comodo perché impegnato col teatro, ma, adesso, con l’avvento di Chizu, sentivo di non poter più reggere lo stress.
“Io non sopporto più questo stato di cose.” urlò mia moglie coprendosi il volto con entrambe le mani “Ogni volta che siamo stati insieme è stato un tormento. Costretta a subire le tue attenzioni sudice! Non mi hai mai chiesto come io stessi né se fossi pronta! E adesso mi porti in casa questa ragazzina. La verità è che io non rappresento nulla per te!”

Di primo acchito, trovai incredibile che mi venisse rimproverata mancanza di delicatezza e, soprattutto, l’essere equiparato ad una sorta di aguzzino, ma, più la sentivo parlare, più ero portato a pensare che Sayaka non avesse poi tutti i torti.
Credevo che la scelta di sposarci avesse costituito un dramma per me solo e, di conseguenza, l’avevo trattata con distacco e freddezza: pensai alla prima volta in cui avevamo fatto l’amore e mi sentii un verme.
“Dacché ci siamo sposati,“ mormorai distrutto “pensavo di essere io la vittima di un sistema più grande e potente di me. Sapere tutto ciò mi addolora. Non credevo davvero che per te si fosse trattato di una continua violenza.”
“E che cosa pensavi che fosse?” urlò in lacrime “Giorno per giorno, quando eri in casa, ti infilavi nel mio letto e quella tua mano mi costringeva a guardarti negli occhi quando io, invece, non ne avevo alcuna voglia! Mi facevi schifo, Ichiren, e me ne fai anche adesso!”
Strinsi gli occhi basito.
“Sayaka…” mormorai “sono davvero desolato e senza parole. Ti domando perdono.”
Mia moglie tagliò corto, chiudendosi a riccio.
“Devi scegliere: o me o questa bambina. Prendilo come fosse una sorta di risarcimento per quanto sono stata costretta a subire, Ichiren!”
Così disse, prima di lasciare precipitosamente la stanza.

Finché Chizu rimase, la mia quotidianità familiare fu un inferno di rimorsi e malumori.
Mia moglie si rifiutava di avere contatti con me e, ad un certo punto, prese i figli e se ne andò a casa dei suoi, fuori città.
Ma, in tutta onestà, mi preoccupava di più il futuro del Gekko che quello della mia famiglia.
La notizia della mia separazione, essendo la mia famiglia assai in vista, fece il giro della città e molta gente “per bene” che frequentava il mio teatro, prese a disertare le rappresentazioni.
Il tradizionalismo nipponico e la censura sempre pressante rischiavano di far sfumare il sogno di una vita.
In quell’occasione nefasta ebbi, per la prima volta, cognizione di quanto debole fosse il mio carattere.
Incapace di prendere una decisione, lasciai fosse una bambina di soli sette anni a farlo.
Ed ella rivelò una forza di carattere davvero encomiabile per l’età sua, nonché una lucida percezione degli eventi.

Quella sera, la sera in cui Chizu mi comunicò quanto stava per fare, sedevamo in giardino, godendo del silenzio e della frescura tipica della tarda estate.
Ella si dondolava ritmicamente sull’altalena dei miei figli ed aveva una espressione arcana sul volto: a tratti, mi pareva l’immagine incarnata di una divinità bambina, uno spirito saggio venuto dall’altro mondo per traghettarmi da qualche parte.
“Maestro,” mi disse “io me ne devo andare.”
Lo stupore si dipinse sul mio volto, mentre un senso di insopportabile solitudine dilagò all’altezza del petto.
“Troppo a lungo, ho approfittato della sua gentilezza.”
“Ma che dici?” le domandai con pena infinita “Due settimane non sono certo un disturbo. Ed io ti ho promesso una vita dignitosa, figliola.”
Chizu mi fissò con semplicità:
“Ma lei mi ha già salvata, Maestro.”
Si diede una spinta coi piedini e prese a dondolare con più vigore.
“Io ti avrei salvata?” le chiesi guardandola.
Andava così in alto che sembrava stesse per spiccare il volo.
“Il mio destino era segnato…” diss’ella col fiato grosso “trascorrere la vita nel bordello e diventare una prostituta era tutto ciò che potevo aspettarmi da essa.”
Si fermò di scatto, piantando i piedi per terra:
“Questo Paese non perdona chi nasce di rango inferiore. Si è perfetti o no ed io ero un’imperfetta, prima di incontrarla.”
Mi passai una mano fra i capelli.
“Tu sei quel che sei, Chizu, e nessuno ha il diritto di definire un uomo <inferiore> sol perché sconosce le proprie origini o, più semplicemente, queste sono umili.”
Chizu guardò il cielo, che si tingeva velocemente dei colori scuri della sera.
“Però c’è qualcuno che dice che è così.” mormorò dubbiosa “C’è un uomo che sostiene che esistano delle razze superiori e persone meglio <definite> rispetto ad altre.”
“Dove hai sentito queste cose?” chiesi non senza sconcerto.
La bambina sospirò.
“C’era un ufficiale che veniva a trovare la signora del bordello. E diceva che in Europa le persone <inferiori> vivono in quartieri tutti per loro e non possono sposare gente <diversa>.”
“E’ un abominio!” sbottai, mentre il pensiero corse con preoccupazione al mio amico Darker “Non esistono persone <inferiori>. Del resto, la mia presunta superiorità non mi impedirà, un giorno, di morire. Esattamente come te, mia cara.”
“Però, Maestro,” mormorò Chizu con aria sempre più perplessa “lei ha sposato una donna del suo rango e la signora non ha voluto che io crescessi insieme ai vostri figli…“
“Chizu, io e Sayaka abbiamo problemi da molto tempo.” confessai senza neppure sapere perché “E tu non sei la causa di questa separazione.”
La bambina mi sorrise rinfrancata, poi intrecciò le sue piccole dita tra le mie.
“Io me ne andrò, Maestro,” disse “ma voglio passare il resto della mia vita a servirla e ripagarla per quanto ha fatto per me.”
Arrossii vistosamente.
“Ascoltami, ora,” sorrisi “adesso devi pensare soltanto ad affrontare la vita con il dono più grande che ti è stato fatto. Sei una bambina estremamente intelligente e sono sicuro che, con una adeguata istruzione, arriverai lontano.”
Chizu annuì con le lacrime agli occhi.
Il mattino seguente, di buon’ora, radunò le sue cose ed andò ad abitare dalla signora Mifune, la custode del teatro Gekko.
E Sayaka tornò a casa qualche giorno dopo.

***

La quiete - se non la pace - tornò a regnare a casa Oozachi.
La piccola Chizu fu subito bene accolta dall’anziana custode ed io, sollevato, potei tornare al mio lavoro di scrittore.
Fu un periodo prospero, dal punto di vista economico.
Mi godevo il successo e, tuttavia, non riuscivo a mantenermi completamente sereno: Darker non mi scriveva più da mesi e le notizie dall’Occidente erano terribili.
Nell’estate del 1940, nei cieli d’Inghilterra, si era svolta la più grande battaglia aerea della storia.
I britannici avevano vinto: i caccia abbattuti non superavano le mille unità, a differenza di quelli tedeschi, che erano stati più di millesettecento.
La sovrana Elisabetta I, che era rimasta accanto al suo popolo sottoposto al pesante bombardamento, divenne una icona della resistenza.
Ma il pensiero che qualcosa fosse accaduto al mio antico mèntore mi angosciava non poco.
Assieme alle idee xenofobe di Hitler, si stava diffondendo un pensiero nuovo, dalle tinte ancora più inquietanti: la “soluzione” della questione razziale era, a detta di questi esaltati, alle porte.
I nazisti avevano “inaugurato” il loro primo campo di lavoro in Polonia, la terra che avevano spartito con Stalin. Ma dopo Auschwitz ne edificarono altri.
Molti altri.
Una rete capillare sparsa sia nei territori del Reich che nelle zone di influenza nazista.
Alcuni erano campi di sterminio, altri erano semplicemente dei “campi”, principali o di periferia. I ghetti non bastavano più.
E si vociferava che, più che un posto in cui i “nemici del potere” erano condannati a “lavorare“ per fare ammenda, questi campi fossero, piuttosto, l’anticamera dell’inferno.
L’ultima lettera di Darker era stata spedita dall’Italia.
Si trattava di una missiva ironica, irriverente come nel suo stile, ma nulla egli aveva accennato riguardo alla sua attività di rivoluzionario.
Sapeva benissimo che, se si fosse esposto, la lettera non sarebbe mai partita. Ma, tra le righe, avevo percepito che qualcosa stava per accadere, che Darker non poteva essere andato a Milano semplicemente per assistere alla stagione concertistica della Scala. Il rischio che correva era enorme, ché egli era ateo, ma ebreo di nascita.
Non seppi più nulla.
La guerra andava avanti.
Il Giappone, parimenti, portava avanti la sua politica estera aggressiva in linea con quella dei totalitarismi all‘occidentale: occupò la Corea, come anche la parte orientale della Cina, le Filippine, l’Indonesia.
A dicembre del ‘41 la nostra aviazione bombardò la base navale americana di Pearl Harbor e fu una strage.
Gli Stati Uniti, però, non sarebbero rimasti a guardare a lungo.

Mentre questi eventi drammatici si dispiegavano sotto i miei occhi, un fiore sbocciava piano ed era profumato come non avrebbe mai potuto essere in “condizioni” normali.
Per quel fiore io presi a scrivere parole che mi esprimevano in pienezza.
La “profezia” del mio antico Maestro stava avverandosi, finalmente.
Accantonati gli autori teatrali che tanto successo mi avevano dato, presi a scrivere soggetti nostrani, rivoluzionari ma non troppo, che Darker avrebbe ironicamente classificato come “scapigliati”.
Ci misi dentro tutto me stesso: dalle esperienze all’estero alla condanna velata alla società classista del Giappone del primo Novecento. I samurai, da derelitti, tornarono a diventare eroi e le geishe tracciate dalla mia penna, più che scandalizzare coi loro amori impossibili, commossero le platee.
In una umile ladruncola sorpresa a rubare nel ridotto io trovai l’interprete ideale di me stesso.
Chizu, cresciuta in casa della signora Mifune, compì sedici anni la sera del suo debutto in teatro come protagonista.
Il copione che avevo scritto per lei ne esaltava la bellezza, come anche le potenzialità espressive.
Quando Chizu saliva sul palco non c’era spazio per nient’altro. E, tuttavia, non era quel che Darker avrebbe definito uno “stage storm” ovvero un attore che, esaltando se stesso, “uccideva” qualsiasi cosa gli si avvicinasse.
Anzi.
I suoi compagni di lavoro erano come “inondati” dalla luce emanata dalla giovane e la loro interpretazione risultava altrettanto audace e spregiudicata.
Nessuno voleva sfigurare davanti a Chizu e gli spettacoli che seguirono furono un successo anche in virtù dell’impegno di tutti.
Non mi ero reso conto di quanto bella fosse diventata fino a che non terminò l’ultima rappresentazione di “Sole Maledetto”.
Andai a cercarla nel foyer a sipario chiuso per complimentarmi con lei, ma non la trovai.
Il mio cuore, la mia mente, erano pieni dell’immagine di lei e ciò mi provocava non poco sconcerto, ma anche piacere.
Chizu, peraltro, stravedeva per me ed io lo sapevo.
Quella “certezza” raddolciva la mia vita di marito frustrato, ma era anche pericolosa.
Ne ebbi la certezza quando la trovai seduta sulle scale dell’uscita secondaria del Gekko. Se avessi dato retta all’istinto, non mi sarei limitato ad abbracciarla, come peraltro feci.
Mi scoprii desideroso di gustare il sapore delle sue labbra, di aspirare il profumo della sua pelle. Stare vicino a lei mi inebriava e il fatto che ella mi guardasse con amore faceva vibrare il mio spirito di desiderio.
Quando mi ringraziò, per l’ennesima volta, della possibilità che le avevo dato mantenendola agli studi e avviandola al teatro, con la morte nel cuore, le dissi che prima o poi sarebbe arrivato il tempo in cui, autonomamente, avrebbe lasciato la mia mano per camminare da sola.
“Troverai un compagno di vita” sussurrai “e allora la mano di questo vecchio non ti sembrerà più tanto confortevole.”
“Che dice, Maestro?” mi rimproverò ella arrossendo vistosamente “La mia promessa, quella che le feci anni addietro, io la rinnovo giorno per giorno, come preghiera incessante. Non potrei mai vivere lontano dalla sua mano.”
Detto questo la appoggiò al suo viso.
Ebbi un tremito, ma ella non se ne avvide:
“Non voglio nessuno al mio fianco, se ciò dovesse portarmi via da lei.”
“Ma che dici?” cercai di buttarla sul ridere “I figli, prima o poi, si separano dai genitori. È una legge di natura, sai?”
Chizu mi fissò intensamente.
“Figli?” ripeté “Vuol forse dirmi che per lei rappresento una figlia, Maestro?”
“Tutti gli attori che istruisco e dirigo sono come dei figli per me.” dissi ispirato “Ma tu hai il privilegio di essere in cima a quella lista.”
Una sorta di delusione rabbiosa brillò negli occhi della ragazza, che si alzò scompostamente dal gradino. Rischiò di perdere l’equilibrio, ma io la sorressi prontamente per la vita.
Ci fissammo per un interminabile istante. Mi parve, ad un certo punto, che le nostre labbra si avvicinassero pericolosamente.
Fu un attimo.
Ma tanto bastò.
La paura si impadronì di me e decisi di mutare atteggiamento.

Invitai sempre più spesso Sayaka a venire a teatro, cercando di imbastire una sorta di normalità nel rapporto coniugale.
Mia moglie fu, stranamente, condiscendente.
Continuava ad ignorare Chizu, ma assisteva alle rappresentazioni e si occupava, ogni tanto, della vestizione delle attrici.
Sayaka era abile anche nel confezionare abiti tradizionali e, dopo qualche tempo, andò a dirigere la sartoria del Gekko.
Composi “Kaen“, pensando a Chizu e a quella che, progressivamente, stava diventando una autentica ossessione: era la classica storia della ragazza di origini nobiliari che perdeva la testa per il figlio di un bracciante. Ma il loro amore non poteva trovare realizzazione in quanto ella, non soltanto era di rango superiore, ma era anche promessa a un altro.
Ci misi dentro tutto me stesso.
Mentre istruivo Chizu su come muoversi, su come guardare l’oggetto del suo desiderio, i miei occhi cercavano i suoi con ostinata disperazione.
Doveva, ella doveva assolutamente capire che “Kaen” era lo specchio della nostra impossibile storia.
E i frutti di una eventuale realizzazione potevano essere solo angoscia, disperazione, morte.
“Bugiardo!” pareva accusarmi lei “Sei stato tu a dirmi, una volta, che gli esseri umani sono tutti uguali, che non c’è differenza fra gli uomini!”
Sentivo che, per quanto facessi, non potevo eguagliare Darker nel ruolo di mèntore.
Anche perché non ero onesto con me stesso.
Io ero innamorato di Chizu, ma non volevo e non potevo ammetterlo.

MC***

Arrivò il periodo più oscuro della storia del nostro Paese.
Gli Stati Uniti cominciarono ad avere la meglio sul fronte orientale: era l’annunzio dell’imminente catastrofe.
Molti dei giovani attori del Gekko furono richiamati nell‘esercito.
Anche il fratello di Sayaka, che aveva preso le redini della società di mio padre per mia volontà, perì sotto le armi.
Più della metà della popolazione della Capitale, per sfuggire ai bombardamenti, sfollò in campagna.
Decisi di mandare la mia famiglia nell’isola di Kyushu, poco lontano da Nagasaki, dove avevamo una fattoria: imbarcai moglie e figli su una delle poche, assediate corriere e tornai al teatro, intenzionato a restarvi a sentinella fino a che non fosse rientrato il pericolo.
Mi illudevo, scioccamente, di poter proteggere quel che restava della mia vita.
Fu tutto inutile. Le fiamme che divampavano ovunque giunsero fino al Gekko ed io assistetti impotente al crollo di un sogno.
Preso com’ero da me stesso, dopo che la tragedia si consumò davanti ai miei occhi, mi accorsi solo in un secondo momento che una figura di giovane donna aveva contemplato la medesima scena senza dire una parola e con cuore parimenti affranto.
Mi osservava ed era probabile lo stesse facendo da un bel po’.
Chizu, ombra benefica, stava ritta, con gli occhi pieni di lacrime, davanti a un cumulo di macerie Di fianco a lei un involucro bruciacchiato.
Mi avvicinai a lei col passo malfermo.
“Cosa diavolo fai qui?” le domandai seccato “La signora Mifune è andata via ieri sera!”
“Maestro, io non posso lasciarla…” mi rispose nascondendo il volto tra le mani.
“Sei una sciocca.” soggiunsi “Qui non c’è più nulla per te!”
Poi il mio sguardo cadde ancora sul pacco che Chizu aveva accanto.
“Cos’hai lì dentro?” le chiesi.
La giovane, fissatomi con tenerezza e trasporto, rispose che si trattava dei miei copioni.
“Li hai salvati?”
Istintivamente, ebbi l’impulso di abbracciarla, ma il pensiero che ella fosse con me, sotto i bombardamenti, mi dava un’inquietudine spaventosa.
“Sei stata gentile.” mormorai imbarazzato “Ma adesso è bene che tu vada.”
“Perché?” domandò ella.
“Non è il momento di fare filosofia.” tagliai corto “Rimandiamo a tempi migliori. Anzi, mettiamoci un punto adesso.”
“Perché?” chiese ancora più forte.
Sospirai sconfitto:
“Che cosa vuoi da me, Chizu?”
Le mie parole erano colme di disperata esasperazione.
“Io ho quarantadue anni ed una famiglia cui pensare. Vuoi che ti ordini di starmi vicino per sempre? Vuoi che ti porti in un posto tranquillo per sedurti? Dovrei alimentare le tue infantili speranze adesso? Non vedi dove siamo? Ho perso tutto. Non posso offrirti alcunché, adesso. E probabilmente non c‘è più nulla ch‘io possa fare per aiutarti. Se hai il buon senso di andartene, più tardi realizzerai di aver fatto la scelta giusta. Qui sei solo di impiccio, per me.”
“Non me ne vado.” ribadì ella perentoria.
Uno scoppio violento, mentre stavo per controbattere, provocò la caduta di alcune travi di legno.
Fui colpito da una di esse.
Ricordo di essere rimasto semincosciente per parecchio tempo. Non vedevo nulla, intorno a me. Solo certe sensazioni fisiche erano evidenti e le ricordo anche adesso, a dispetto della mia situazione, a dispetto del tempo andato.
Chizu dovette trascinarmi sulle spalle per molti metri.
Neppure il tanfo della legna combusta mi impedì di avvertire il profumo delicato del suo collo; il contatto coi suoi capelli mi procurò una piacevole sensazione di pace.
Fu una fortuna, per me, non essere alto di statura: Chizu, all‘apparenza esile e delicata, era realmente giunonica e possedeva una straordinaria forza fisica.
“Devi lasciarmi qui.” dissi debolmente appena mi depose in terra.
D’improvviso le sirene che annunciavano i bombardamenti tacquero.
Anche il rombo degli aerei si udiva sempre più lontano.
“Speriamo se ne siano andati.” sospirò la giovane ignorando quanto le avevo appena detto.
“Torneranno.” la corressi “Puoi scommetterci. Ormai il Paese è in ginocchio.”
Sì, io lo sapevo, lo sentivo.
Nessun kamikaze, simbolo del presunto vento divino, poteva arginare la sciagura che ci attendeva.
Il 6 agosto del 1945 una bomba atomica uccise novantamila persone a Hiròshima. E, tre giorni dopo, la stessa sorte toccò a Nagasàki.
Dopo aver appreso la notizia, vagai come un automa per le strade di Tokyo. Per ore, forse per giorni.
Lasciai Chizu, dormiente, nella radura in cui avevamo approntato un riparo di fortuna: nella mia mente albergava ossessivo il pensiero di Sayaka e dei ragazzi.
Che ne era stato di loro?
Erano sfuggiti alla grande tragedia?
Per la prima volta in vita mia, la sensazione di avere irreparabilmente perduto qualcosa mi attanagliò il cuore. Non era mai accaduto, in tanti anni di matrimonio.
Angoscia, ansia, rimpianto era tutto ciò che provavo e il pensiero di Chizu, così dolce e amorevole, non riuscì a confortarmi in nessun modo.
Seppi, in seguito, che la giovane, disperata per la mia improvvisa dipartita, si era messa in cerca di me, arrivando persino a bussare alla porta dei miei suoceri, che la cacciarono via senza troppi complimenti.
L’unica persona che l’accolse fu mia sorella Akemi, sfollata a Nara in una delle case che, dopo la morte di mio padre, le avevo assegnato.
Laggiù, nella Valle dei Susini scarlatti, io avevo tenuto per me solo il vecchio tempio della dèa madre, di proprietà degli Oozachi da generazioni, e la piccola casupola dove solevo dormire da bambino quando era mio desiderio restar solo.
Fu lì che mi rifugiai, dopo essere stato a Nagasaki per cercare Sayaka. Trovai i bambini in incerte condizioni di salute, ma erano pur sempre salvi e questo mi bastava. Quindi, provvidi a che tornassero dai genitori di mia moglie fino a quando non avessi sistemato l’economia familiare.
Dovevo trovare lavoro, qualcosa che consentisse ai miei di continuare a fare la vita dignitosa cui erano abituati prima della guerra. Ma era una impresa.
Pensai bene, allora, di ripartire dalla mia essenza, da ciò che in assoluto sapevo far meglio.
Tirai fuori i quaderni con le sceneggiature che Chizu aveva salvato dalle fiamme e mi immersi nella lettura, cercando di trarre dal passato fausto la forza per tirare avanti.
Ci riuscii, in qualche modo.
Cominciai a vagabondare per la Valle, a scrivere ciò che l’ispirazione dettava.
Mi fermavo a parlare con gli anziani di Nara per raccogliere testimonianze e ascoltare il racconto di antiche leggende nipponiche.
Toccavo le piante, mi arrampicavo sugli alberi, bevevo acqua di fonte, osservavo il nuotare controcorrente delle carpe.
Ma fu la sosta prolungata nel vecchio tempio che mi aprì la mente e sciolse la mia mano.
Il <capolavoro scomparso> iniziò a prendere forma senza che io me ne accorgessi.
Tutto, intorno a me, si animava di vita e di dèi, proprio come Darker mi aveva detto tanti anni fa.
Li sentivo con chiarezza. La vita di ogni essere vivente si svolgeva parallelamente alla mia, si intersecava con la mia e ne era in qualche modo modificata. Infinite possibilità, così come infinite trame, prendevano forma nella mia mente.
Non cercavo l’originalità assoluta, stavolta.
Cercavo me stesso, fra quella folla esaltante di ansia di vita.
La filosofia greca dei <fiùsicoi>, i principi del buddhismo e dello scintoismo danzavano sotto i miei occhi ad un ritmo sincretistico che mi animava nel profondo.
In cosa era diverso un greco del VI secolo a. C. da un giapponese della mia generazione? Non veneravano essi la stessa cosa?
Non andavano entrambi alla ricerca dell’arché?
Acqua, aria, terra, fuoco.
I quattro elementi datori di vita erano dispensati da divinità che, invero, nome non hanno. O forse li hanno tutti.
Ma cos’era che muoveva realmente questi dèi? Cosa li portava a favorire ogni forma di vita?
Trovavo una sola risposta: l’amore.
Ma se l’amore era il motore quale poteva essere il suo volto? Un volto che trascendesse la realtà delle singole cose e ispirasse benevolenza, maestosità, tenerezza materna.
Fu durante una delle mie peregrinazioni per la Valle, mentre al suono del flauto immaginavo di attirare a me stormi di uccellini melodiosi, che “lei” riapparve nella mia vita.


***
Sogni e speranze si accavallano sotto il cielo rosso di Edo.
In una Valle arcana, dove anche la nebbia si tinge di scarlatto per far eco agli alberi di susino di egual colore, raccontano che una donna incinta rechi in sé “il sorriso del dio“.
E ne è figlia.
E ne è sposa.
Due religioni si sfidano come turbine rosso e turbine bianco scatenando devastazione del mondo.
Ma né i bonzi né i sacerdoti scintoisti, presi dalla loro sete di potere, si rendono conto che non c’è contrasto fra gli dèi venerati, ma solo stoltezza negli uomini.
E la loro incessante sete di denaro porta all’omicidio, alla devastazione, all’insulto.
La natura muore sotto i colpi di asce incestuose, dicono questi “depositari della fede”!
Ma, progressivamente, anche la natura diviene sterile.
E i pochi saggi rimasti levano al cielo una preghiera.
Ad ogni prece, la bimba della Valle arcana non ancora nata, nascosta nel grembo amorevole di una donna, sorride e rivolge gli occhi, in direzione di una voce bambina, ma maschile, che le risponde:
“Non faremo nulla, mia signora. Lascia che gli uomini si distruggano l’un l’altro. Solo allora torneranno a noi col capo sparso di cenere.”
“Ma io,” mormora la fanciulla teneramente “ho pietà infinita per loro.”
La voce maschile tace e, dopo un interminabile istante, dice:
“Scendiamo, dunque, andiamo in mezzo a loro. Sottoponiamo i nostri corpi alla vecchiezza e alla malattia e al dolore. E se gli uomini non si ravvedranno neppure allora, lasceremo che siano distrutti.”
La donna ha le doglie.
E nasce Akoya.
La bimba, di intelligenza e vivacità fuori del comune, cresce sotto gli occhi amorevoli della nonna, una indovina del villaggio. La donna che l’ha messa al mondo si è dileguata nel folto della foresta, si racconta, e la piccolina vi si reca spesso per cercarla.
Ma non la trova e, allora, si intrattiene con gli animali, parla con gli alberi d’alto fusto, sussurra qualcosa sul pelo dell’acqua.
E sorride deliziosamente.
Non ha ancora quattro anni e Akoya sa già interrogare gli spiriti e curare ogni sorta di malattia con le erbe della Valle sacra.
Cresce, Akoya. E diviene una giovinetta bellissima, con occhi arcani e affascinanti.
Conosce la compassione.
Trova un giovane in condizioni disperate, lo porta in casa sua, lo cura con lacrime e tisane medicinali.
E’ un ragazzo privo di ricordi, ma gli dèi gli hanno imposto il nome di Isshin, che significa “colui che possiede una verità”. Ma non lo sa, non lo ricorda e chiede ad Akoya, che tutto sembra essere in grado di fare, di aiutarlo a riacquistare la memoria.
La fanciulla non può, non vuole.
Si è risvegliato qualcosa in lei, parallelamente all’amore.
E più teme di vedere andar via quel giovane più si ricorda il motivo per cui è venuta al mondo.
Akoya! Akoya!
Gli dèi non amano! Agli dèi non è concesso amare!
Ma ella non bada a quanto gli spiriti le sussurrano.
“Sono un’anima” dice loro “e da qualche parte esiste l’altra metà della mia anima. E il cuore mi dice sia il giovane senza passato. Voglio ricongiungermi con essa!”
E così, mentre Akoya assume consapevolezza di sé, Isshin si perde sempre più.

Deposta la penna d’oca nell’astuccio, mi mossi verso il sentiero, alle prime luci della sera. Ma qualcuno mi distrasse.
“Chizu…” mormorai sopraffatto.
Sbucò dall’albero di susino più alto della radura, con le guance arrossate e il fiatone per il gran correre.
“Maestro, finalmente l’ho trovata!”
Volò tra le mie braccia: mi strinse forte, mentre, con le dita sottili, mi accarezzava il collo e il viso.
Il quaderno che tenevo in mano cadde sull’erba con un tonfo sordo. E, di seguito, anche l’astuccio. Vidi l’inchiostro spargersi sull’erba per poi essere inghiottito dalla terra.
“Ma come sei arrivata fin quaggiù?” le chiesi non senza sconcerto.
“Non lo so!” rispose ella ridendo per la gran felicità che l‘animava “Sono arrivata a Nara in corriera. Poi ho iniziato a camminare e i piedi mi hanno condotto fin qui.”
Sorrisi imbarazzato.
“Non tornavo al tempio della dèa scarlatta da anni, ormai.” dissi “Ho faticato a trovar la strada e tu, che non sei mai stata qui, sei arrivata quaggiù seguendo semplicemente l’istinto. Sei una ragazza strana, Chizu.”
Arrossì un poco:
“Non strana, Maestro. Io sono una donna che ama.”
Quelle parole mi colpirono nel profondo, ma erano risapute.
“Chizu, ho rinunciato a capirti quando ti ho vista diventare adulta.” sospirai rassegnato “Pensavo ti sarebbe passata, prima o poi. E invece continui a starmi dietro pur sapendo che il tuo sentimento non è corrisposto.”
“Perché?” chiese.
“Sei solo una bambina ingenua; la vita vissuta non è un sogno.” tagliai corto arrossendo.
“Solo perché è sposato, Maestro?” incalzò “Dov’è sua moglie, adesso?”
Aprii le braccia scuotendo il capo:
“Sta bene dai suoi, coi nostri figli. E ci vivrà fino a che non avrò rimesso in piedi il Gekko. L’azienda di fertilizzanti della mia famiglia è andata e non ho nessuna voglia di ricostruirla per darmi al commercio.”
“La ama?” chiese Chizu a bruciapelo.
Il suo sguardo pareva sfidarmi, tuttavia quella caparbietà mi provocava un vago senso di euforia.
“E’ ovvio che l’ami.” mi limitai a dire sfuggendo i suoi occhi scuri.
Raccolsi il quaderno e glielo porsi.
“Questo è il prossimo copione che reciterai, ragazzina. Se vuoi sapere qualcosa dell’amore, vedi di capire questo personaggio.”
Chizu lesse il titolo della tragedia:
“La Déa Scarlatta…”
“Se vuoi davvero farmi felice, recita come si deve.” dissi con tono cattedratico “Se ti interessa davvero la mia anima, comprendila a fondo e trova il modo di esprimerla sul palcoscenico. La Dèa Scarlatta è il mio <capolavoro scomparso>. Se riuscirai ad interpretarla, il mio spirito sarà perennemente unito al tuo. Per me non c’è amore, al di fuori dell’arte.”
Provò ad obiettare, ma io la piantai in asso.
Quando imboccai il sentiero che conduceva al bosco sacro, tornai a girarmi: con mia grande soddisfazione, constatai che Chizu era già immersa nella lettura del quaderno.
Tirai un lungo sospiro di sollievo.
La Déa Scarlatta.
C’ero riuscito, alla fine.
Il mio <capolavoro scomparso> era realtà.
Non era che una storia semplice, ma quanta verità era in essa contenuta!
Improvvisamente, compresi che era giunto il momento di tornare a Tokyo e ricominciare da dove avevo lasciato.



Seconda parte



Il mattino seguente presi il treno per la capitale con la mia primattrice.
Nonostante fosse un viaggio lungo e non si trattasse di una linea diretta - il percorso ferroviario era interrotto in più punti a causa dei recenti bombardamenti - non scambiammo neppure una parola.
Chizu leggeva placidamente: ogni tanto alzava lo sguardo per contemplare il cielo o la natura lussureggiante della Valle che si allontanava sempre più da noi. Stavamo tornando fra le macerie di Tokyo e il lavoro che ci attendeva era immane.
Essendo impensabile mettere in piedi un teatro di mattoni, radunati alcuni dei miei vecchi collaboratori ed attori, allestii una specie di tenda all’aperto.
Si trattava solo di una sistemazione provvisoria, anche perché l’inverno era alle porte, ma tanto bastava per metter su qualche spettacolo trasversale e racimolare i soldi per la ricostruzione vera e propria.
Chizu lavorava nei campi tutta mattina e, spesso, se al pomeriggio si doveva provare, la sua voce era affannata e sotto tono.
Io me ne lagnavo, benché non dovessi.
Facevo la parte dell’indifferente o, forse, indifferente lo ero davvero.
Quando mi sedevo a tavola con lei, all’ora di pranzo, non mi chiedevo mai da dove arrivassero patate e frutta. Qualche volta c’era anche un pezzo di carne o delle sardine fritte per condire il riso. Chizu me li avvicinava con apparente nonchalance, privandosene, ed io le mangiavo con gusto sotto il suo sguardo lieto.
Solo adesso mi rendo conto di quanto si sia sacrificata per me. Per me, all’epoca, tutto quel che rivestiva importanza era il teatro.
Provavo per lei una discreta attrazione, ma la guerra aveva stravolto la mia vita.
E mi sentivo troppo vecchio per avviare una relazione basata essenzialmente sul sesso. C’era la mia famiglia, avevo il mio lavoro di scrittore: complicarmi la vita non era proprio nelle mie intenzioni.
Le prime prove, sotto la tenda del “risorto Teatro della Luna”, furono deludenti.
Diedi a Chizu degli studi di interpretazione sui quattro elementi: doveva rappresentare aria, acqua, terra e fuoco.
Ritenevo interessante vedere come li avrebbe impostati.
La dèa scarlatta era l’emblema della divinità materna che si prodiga per le sue creature attraverso la materia. E la materia, a sua volta, nasconde il cuore di un altro dio.
Il partner di Chizu, colui che avrebbe interpretato Isshin, l’innamorato della dèa incarnata, era un giovane di belle speranze di nome Takumi Genzo: alto, moro di capelli e d’occhi, pareva pendere dalle labbra di Chizu e recitava con grande passione. Io ne apprezzavo la robustezza interpretativa, ma non mi piaceva molto che egli nutrisse un sì evidente trasporto.
Sul palco, quando lei sbagliava, Genzo era assai protettivo ed ella lo guardava con compiaciuta riconoscenza.
Mi scoprii geloso. Per un attimo, pensai di mandare a puttane tutto, ma il buon senso mi suggerì di non farlo. Ero stato chiaro con Chizu: le avevo detto che i suoi sentimenti non erano corrisposti e che, prima di ogni altra cosa, per me, veniva il teatro.
Sì, io non avevo alcuna voglia di complicare la mia già incerta situazione familiare.

***

“Vieni, vagabondiamo insieme per la Valle, come due ragazzini insipienti affamati d’avventura. Con la mia mano stretta saldamente alla tua, scopriamo insieme le delizie dei boschi ancora sconosciuti, gustiamo fresche acque di fonte. Contempliamo il sole e poi le stelle e scopriamoci parte del tutto che ci comprende e ci penetra.
Ecco, io non sono Akoya e tu non sei Isshin.
Noi siamo quel che viviamo. E se sono quel che vivo, in questo momento io posso chiamarmi solo <amore>.”
“Akoya! Akoya! Perché sono venuto al mondo? Raccontami la mia storia! C’è qualcosa che m’aggrava lo spirito. Sento di avere smarrito per strada una parte essenziale di me. Ecco, io sono abile nell’arte della scultura. Ho impresso la tua immagine nel legno e te ne ho fatto dono. Ma perché sono venuto fin quaggiù? Cosa mi ha condotto nella Valle sacra? E chi mi ha battuto e perché?”
“Nulla devi sapere che già non sai. Vivi a me prossimo, amor mio, e saprai che sarò perfettamente felice.”
I dialoghi fra gli amanti si susseguono: tenerezza e illogica saggezza si alternano meravigliosamente.
E il desiderio di entrambi diviene dilagante.
Al punto da esser ritenuto scandalo.
“Akoya,” mormora lo spirito fratello all’interno del faggio “tu sei una dèa e sai perfettamente per quale motivo sei venuta al mondo. Tu l’hai scelto. Se non vuoi lasciar perire le creature che ami, devi adempiere il tuo destino.”
“Non temo di morire!” sussurra la fanciulla divina “la mia vita, come le vite di tutti gli esseri, non perirà con questo corpo…ma, come donna, c’è qualcosa che mi strazia nel profondo e, anche se so che la morte, in verità, non esiste, tremo al pensiero di dover stare separata da Isshin anche solo per un minuto.”
“Akoya, tu sai chi è Isshin! È lo scultore sacro, è l’uomo della profezia, colui che è destinato ad abbattere il simbolo della tua vita sulla terra!”
La giovane barcolla, il suo sguardo affranto indugia sull’albero del susino millenario da cui trae forza:
“Il mio susino, il mio albero dal fusto caldo e accogliente. È lui che, in sembianze di partoriente, mi diede alla luce. Sono nata alla vita terrena perché da questo sacrificio scaturisse un motivo di salvezza per l’umanità corrotta.”
“Se lo sai,” proseguì lo spirito del faggio “devi lasciare che egli ricordi. Se permetti che il tuo cuore di donna prevalga sul tuo cuore di dèa, perderai la tua divinità! E non udrai più né il linguaggio delle piante né quello degli astri; non riconoscerai più le piante amiche da quelle sgradevoli. Le tue mani diverranno inerti come rami secchi e non cureranno più gli uomini. Ogni tuo potere andrà perso.”
Akoya tacque pensierosa.
Il suo sguardo scuro sembrò fondersi con la volta celeste. La Via Lattea, bianca striscia a dividere il cielo in due parti, si impresse sulle sue pupille. Ed era come se quella divisione riproducesse lo squarcio del suo cuore!
Doveva separarsi da Isshin.
Seguirono giorni di estrema amarezza, durante i quali anche il compiere gesti quotidiani assumeva le connotazioni di un requiem.
Akoya non si staccava mai dal suo Isshin, ne seguiva ogni passo.
La sua mano candida indugiava sul suo viso, sulle sue spalle, sui suoi vestiti.
Erano momenti di amore intensi quanto la disperazione provata. Isshin era talmente preso da non chiedersi neppure perché, d’improvviso, la dedizione di lei fosse aumentata.
Fu proprio Akoya, dopo aver realizzato l’ineluttabilità del fato, a rammentarglielo.
“Isshin…”
Lo chiamò mentre egli raccoglieva del legno.
Il giovane si voltò sorpreso:
“Come mi hai chiamato?”
Akoya strinse gli occhi:
“Hai udito bene.” mormorò “Il tuo nome è Isshin. E sei venuto nella Valle perché così è scritto. Sei il messaggero dell’imperatore e sei qui perché gli dèi lo vogliono.”
Egli rimase senza fiato:
“Ho una missione da compiere, dunque, ma quale?”
Akoya si accasciò sul pavimento:
“Devi abbattere l’albero del susino millenario e, con il suo legno, scolpire una statua che rappresenti la dèa madre. Solo così gli spiriti saranno tacitati e l’umanità non sarà ridotta al silenzio.”
“Come sai queste cose?” domandò Isshin sconcertato.
Akoya singhiozzò più forte:
“Noi stessi lo abbiamo previsto, prima che io <nascessi>. Lo sapevamo, ma, quando ho assunto consapevolezza di me stessa, ho preferito tacere.”
“Noi?” ripeté l’uomo .
La ragazza annuì, spiegandogli che furono la dèa madre e il <sapiente> a decidere di soccorrere gli uomini perché evitassero la distruzione.
Ed ella rappresentava la dèa madre incarnata.
Isshin abbassò lo sguardo, ma pareva incredibilmente tranquillo.
“Perché piangi?” le domandò dopo qualche istante.
Akoya scosse il capo:
“Non mi importa di morire. Desidero soltanto non essere mai separata da te.”
“Ma cosa dici?” sorrise il giovane “Pensi davvero che andrà così? Noi eravamo anticamente uniti. Dall’inizio dei tempi, siamo uniti. Dacché siamo, permaniamo uniti. Ed è per questo che tu ti sei accostata a me anche se la gente del villaggio mi riteneva un delinquente senza famiglia. L’amore vero, quello che lega le due parti di un’unica anima, non conosce età, aspetto, rango. Soprattutto, amor mio, non credo possa finire con la morte fisica di uno di noi.”
Si passò una mano sulla fronte, togliendosi il copricapo:
“Avrò una pena infinita in cuore, quando brandirò l’ascia per abbattere l’albero che ti da la vita, ma nulla perderò. E sarò sempre unito a te.”

Guardai Chizu muoversi dietro il pannello che rappresentava l’albero di susino.
“Sembri un sacco di patate.” sbraitai “E non ho ancora visto il tuo studio di interpretazione sul fuoco. Da questo dipende la buona riuscita della maschera di Akoya.”
“Maestro,” mormorò la ragazza “io sono pronta, ma ho qualche remora.”
La fissai interrogativo:
“Ma di che parli? Io sono il direttore artistico del teatro Gekko ed anche l’autore e il regista di questo dramma. Chi non obbedisce ai miei ordini è fuori dallo spettacolo.”
Nel momento stesso in cui terminai di dire la frase, ebbi male al petto.
Con che coraggio stavo minacciando l’unica donna che potesse interpretare la dèa scarlatta? Ella avrebbe potuto mettermi facilmente sotto scacco, andandosene, lasciandomi nella mia miseria e senza riscatto alcuno.
Ma non lo fece.
Incassò l’ennesima coltellata gratuita ed andò avanti.
E finì per sconvolgermi ancora di più.

Chizu socchiuse gli occhi, avanzando verso di me.
Udivo il suo respiro diventare sempre più arcano.
“Per chi si macchia di quest’infamia è prevista la pena di morte. Se mi scoprono mi uccidono…”
Ebbi un sussulto.
Così iniziava il copione di Yaoya Oshichi, un dramma piuttosto famoso rappresentato spesso nel teatro Kabuki e in quello delle marionette. A raccontare la vicenda era la stessa Yaoya morente, che ricostruiva la storia del suo triste amore per Chichiza, un servitore del tempio scintoista di Edo.
Chizu recitava e, nel contempo, mimava gesti di quotidianità con estrema grazia e maestria. La speranza dell’amore corrisposto e la disperazione di non poter più rivedere l’uomo amato erano meravigliosamente fusi nel suo sguardo scuro e penetrante.
Era un chiaro messaggio per me e questo io lo sapevo.
Ancora una volta stava mostrandomi quella follia d’amore che l’animava da capo a piedi. Compresi perché avesse remore nel mostrarmelo. Solo nella maniera folle ed esaltata di Yaoya Oshichi il suo sentimento per me trovava completa espressione.
Ma non potevo pensare di corrispondere neppure per un minuto a quella dichiarazione appassionata.
Terminato il monologo, mi limitai a dire a Chizu che il suo studio interpretativo aveva prodotto risultati sufficienti e, a questo punto, le bastava soltanto adeguarlo in modo opportuno alla maschera di Akoya.
La vidi estremamente delusa, ma non feci nulla per correre ai ripari.
Chizu doveva imparare a soffrire. A capire che, per quanto bella e intelligente e di talento fosse, non tutto poteva esserle concesso.
Solo più tardi mi sarei reso conto del fatto che quelle scuse, in realtà, erano costruite da me e per me medesimo.
Nel frattempo, benché in là con gli anni, Sayaka ed io ebbimo un terzo figlio.

***

Prima di portare in scena La Dèa Scarlatta, ricevetti in dono qualcosa di inatteso.
E, per questo motivo, ancora più gradito.
Stavo sistemando dei copioni nel mio studio, quando udii bussare con saccente caparbietà.
Mentre ciò accadeva, un assistente provava inutilmente a dissuadere il misterioso avventore.
“Il signor Oozachi non gradisce di essere disturbato durante il lavoro” supplicava l’uomo.
E l’altro, in inglese:
“Are you stupid? Tell him Darker’ s here!”
Mi alzai di scatto dalla seggiola, correndo a spalancare la porta:
“Maestro!” urlai mentre mettevo a fuoco la sua sagoma “Non posso credere che lei sia qui!”
L’uomo sorrise impercettibilmente.
“Sorpreso?” chiese strizzando l’occhio sinistro.
“Sono passati anni dall’ultima lettera!” mormorai stupefatto “E in tutta onestà pensavo che non fosse più in vita!”
Darker rise fragorosamente:
“La tua irriverente sincerità mi mancava molto e, come vedi, sono qui.”
Si muoveva aiutandosi col bastone. Più di vent’anni erano passati ed egli appariva assai provato, oltre che molto invecchiato.
“So che stai per debuttare in uno spettacolo nuovo.” disse “Ho visto il cartellone. Sarà interessante notare se, finalmente, hai dato vita al tuo <capolavoro scomparso>.”
Abbassai il capo vergognandomi:
“Spero di non deluderla.”
“E per quale motivo?” domandò Darker “Un’opera d’arte è come una bella donna. Può piacere o meno. Ciò non significa che non sia oggettivamente bella o che abbia meno valore sol perché non piace.”
Mi lasciai sfuggire un sospiro.
“Mi racconti di lei, Maestro. Sono stato così in ansia! La guerra è stata spaventosa. Per poco non ho rischiato di perdere la mia famiglia.”
“Sono stato internato in un campo vicino a Trieste, in Italia. Un luogo spaventoso dal quale pensavo di non uscire mai più. Alla mia età, era impensabile mi risparmiassero. I vecchi e i bambini erano destinati alla fabbrica dei bottoni sai? Bottoni e paralumi…”
Rise e, nel mentre, tossiva con insistenza.
“E’ terribile.” dissi a mia volta “La guerra ha causato morte e distruzione, ma almeno ha spazzato via quei criminali esaltati.”
Darker si sfregò le mani.
“Quando i soldati hanno capito che la fine stava arrivando, hanno iniziato ad abbassare la guardia, ad accettare compromessi…”
Fissai l’uomo senza capire.
“E’ bastata qualche promessa e ne sono uscito prima degli altri.” concluse stringendo le labbra “I bambini delle baracche vicine sono morti tutti, mentre io sono sopravvissuto.”
Leggevo una visibile esaltazione su quello sguardo azzurro che, per anni, aveva rappresentato la mia guida spirituale.
“Ha barattato la sua liberazione?” chiesi sconcertato “Proprio lei?”
Divenne serio:
“Vorresti farmi la morale? Proprio tu che hai accettato il matrimonio di interesse, dopo le tue promesse di indipendenza?”
“Maestro,” dissi “lei parlava di libertà e di valori. Non credevo certo arrivasse a patteggiare coi nazifascisti!”
“Ma Lenin è morto!” sbraitò battendo la punta del bastone sul pavimento “E Stalin mi ha enormemente deluso! Non esistono gli ideali, Ichiren! Esistono solo persone che se ne appropriano indebitamente e li usano per acquistare potere e decidere dei destini degli uomini! Io non permetto a nessuno di decidere per me!”
Mi lasciai cadere sulla poltrona.
“Allora,” disse Darker “mi ospiti in casa tua o devo cercarmi un alloggio?”
Sorrisi debolmente:
“No, certo, sarò lieto di averla nella mia modesta dimora.”
Ero deluso. E molto, anche.
Mentre Darker si alzava, Chizu bussò alla porta:
“Perdoni, Maestro, volevo chiederle se possiamo andare a pranzo.”
Annuii.
“Ooh…” esclamò Darker “che cosa abbiamo qui?”
Mi lanciò una occhiata sospettosa e ironica insieme:
“Scommetto che lei è la dèa dalla incomparabile bellezza.”
Le si appressò per farle il baciamano.
“Sono Chizu.” disse la fanciulla vergognandosi fortemente.
La fece piroettare su se stessa.
“Notevole.” mormorò l’uomo “La tua musa ispiratrice è davvero degna di questo nome.”

***

Darker si stabilì in casa mia a tempo indeterminato.
Prese l’abitudine ad alzarsi tardi. Solo dopo il pranzo, recuperate le forze, mi seguiva fino al teatro per assistere alle prove.
Quando gli domandavo in che condizioni di salute fosse, si limitava a dirmi che era un po’ come i vampiri: la luce abbagliante del sole lo stancava e preferiva andar fuori quando i raggi iniziavano a declinare.
Io lo osservavo non del tutto convinto.
Era ben desto in me il ricordo della precedente conversazione sulla guerra; ammetto, tuttavia, che parte dei suoi consigli finirono per giovare alla buona riuscita dello spettacolo.
Mi aiutò a sfrondare il copione ufficiale di parecchie battute: quelle che allentavano il pathos furono del tutto bandite - e lì non potei che trovarmi d’accordo - ma la prima parte dello spettacolo - quella in cui Akoya era inconsapevole di se stessa e si godeva la sua fanciullesca storia con Isshin - perse la freschezza ingenua che aveva in origine.
Assunse tinte quasi gotiche: la dèa era un simbolo di assoluta perfezione, mentre gli altri protagonisti, grigi e tendenzialmente infelici, si muovevano ciascuno con la propria spada di Damocle sulla testa.

Akoya giovinetta vaga per i boschi con passo sicuro, alla ricerca di maggior beatitudine, ammesso che una dèa non ne sia sufficientemente satolla.
E tutto, intorno a lei è armonia e pregio.
La vecchia nonna che l’ha cresciuta è diventata una strega. Ed ha ricevuto un vaticinio: colei che ha nutrito fin dall’infanzia è una dèa e minaccia di offuscare il prestigio di cui gode presso gli abitanti del villaggio.
Esercita ogni arte magica di cui è conoscitrice pur di fermare la giovinetta.
E, allora, pensa ad un filtro d’amore.

“Mi chiedo se debba essere davvero così.” pensai rileggendo gli appunti di Darker e il testo della scena da provare nel pomeriggio.
Ma non ero del tutto convinto.
Akoya ed Isshin, secondo la mia idea iniziale, erano “anime gemelle”, simbolo di yin e yang: la trovata del sortilegio d’amore poteva suscitare suspence e attenzione, ma non mi pareva pertinente.
In quei giorni ero diventato assai cupo.
Chizu non mi braccava dal giorno in cui le avevo chiesto di interpretare il tema del fuoco. Sembrava molto presa da Genzo e Darker la corteggiava in modo spudorato.
Capivo che era interesse del Maestro stuzzicarmi nel profondo.
La Déa Scarlatta “correva” parallelamente al mio spirito.
E più mi innervosivo e mi maceravo interiormente, più quel copione diventava come egli voleva.
Come Darker voleva.
Se, ironicamente, gli facevo notare che il <capolavoro scomparso> era mio, mi sorrideva ed esclamava che suo precipuo compito era farmi emergere per quel che ero.
“Non sono d’accordo con lei.” mormorò Chizu dopo un pomeriggio di prove estenuanti durante le quali non si poteva dire avesse brillato.
“Riguardo a cosa?” chiese Darker interessato.
“Stiamo modificando ad oltranza.” rispose la ragazza “Le sue correzioni iniziali si sono rivelate interessanti, hanno offerto maggiore respiro alla trama, ma quelle che ha apportato oggi snaturano del tutto il significato di quest’opera.”
Aveva uno sguardo fermo, pareva essere diventata adulta tutto d’un tratto.
“Non è il messaggio del Maestro Oozachi.” ribadì “E questa atmosfera non è confacente alla nostra tradizione.”
Darker rise fragorosamente.
“Certo che non lo è!” si sbellicò “Siete un popolo di bigotti, una catena di montaggio infinita cui non è consentito pensare. Per la prima volta, si ha la sensazione che un giapponese pensi!”
Il volto di Chizu si indurì:
“Ha ragione. Un giapponese non pensa che al lavoro. Nasconde i suoi sentimenti, li soffoca in nome del successo e della carriera. Proprio per questo, le sue correzioni sono inopportune. Stiamo dando una falsa immagine di noi stessi!”
“Ma sentitela!” la sbeffeggiò il Maestro levando le braccia al cielo.
Ero compiaciuto del fatto che la mia primattrice avesse trovato la forza e il coraggio di ribellarsi ad una autorità.
E lo stava facendo con le stesse parole che io stesso avrei utilizzato.
“Ichiren!” mi chiamò Darker “Spiega alla tua allieva il mio punto di vista. Ella sembra non capire.”
Sorrisi:
“Invero, Maestro, credo che stia difendendosi assai bene.”
L’anziano avvampò:
“Andiamo, le sue grazie ti hanno ottenebrato il senno?! Vuoi scherzare?”
“Io concordo con Chizu.” mi limitai a dire abbassando gli occhi.
“Una dèa” ribatté Darker punto sul vivo “deve trasudare onnipotenza. È come un tema di Wagner, solenne, incalzante, privo di dubbi. Tutto ciò che le sta intorno è miserabile. L’umanità è segnata dal peccato; si ricicla perennemente e non ha valore oggettivo. Ma una dèa, no. Ella non conosce il dubbio.”
“Non è la mia idea.” dissi “Se l’umanità non avesse valore oggettivo, non avrebbe senso neppure la discesa di Akoya sulla terra. E nel momento in cui si incarna diventa una donna vera.”
Il mio Mentore sospirò esterrefatto: non avevo mai risposto con tanto vigore alle sue provocazioni.
Quando avevo diciotto anni mi limitavo a subirle, convinto che un Maestro potesse permettersi questo ed altro.
Convinto, soprattutto, che agisse nel mio interesse.
Ma qualcosa era mutato radicalmente.
Darker era diventato scontroso, quasi molesto, e pareva avere tutto l’interesse di portarmi laddove io non volevo.
Non ero disposto a tanto, anche se la sua posizione improvvisamente conservatrice mi rattristava nel profondo.
E in me sussisteva comunque vivo il desiderio di compiacerlo.
Ma non era così che avevo immaginato - auspicato! - l’evolversi della nostra amicizia: l’uomo d’intelletto sopraffino che era aveva lasciato il posto ad un individuo gretto e stanco di sperare.
Scossi il capo:
“Maestro, io non sono Wagner e a Goethe preferisco Foscolo. Proprio lei, una volta, mi parlò della necessità di trovare una forma di espressione che rappresentasse me e me solo. E credo di averlo fatto, finalmente.”
Darker si alzò dalla seggiola brandendo il copione:
“Se non mi darai retta, questo dramma sarà un insuccesso! Fiori di susino fluttuanti e adolescenziali turbamenti sono di una banalità spaventosa! E questa ragazza così casta…” disse rivolgendosi a Chizu “…farebbe meglio a scollacciarsi un po’ e sedurre il bel ragazzo che si è portata in casa.”
“Ma,” provai ad obiettare “una adolescente ha pensieri casti.”
“Alt!” ordinò Darker alzando le braccia “Sei mai stato in Europa? Chi c’era con me quando andavo a divertirmi nei bordelli londinesi? Le ragazzine che hai conosciuto erano anche più giovani della tua protetta. Hai detto che la mia idea era sbagliata perché non traspare l’umanità di Akoya, ma solo la sua divinità. Ma se ella è un miserabile essere umano, nutre desideri tutt’altro che casti!”
Il suo discorrere era logico, non faceva una grinza, come sempre.
Aveva fatto in modo che io mi contraddicessi e iniziai davvero a titubare non poco.
“Questo copione” mormorò il Maestro “è assolutamente piatto. Se non vuoi splendore e perfezione, mettici dentro il letame. Devi dargli colore e sapore, Ichiren!”
“Non posso.” risposi calmo “Non sono io.”
Darker uscì dal teatro tenda rimuginando.
Gli altri attori chiesero di poter andare a casa ed io li liberai volentieri.
Rimanemmo solo io e la ragazza.
“Mi dispiace.” dissi sedendomi su una cassetta di legno.
Ella mi imitò:
“Non deve spiacersi. Quell’uomo non ama il contraddittorio, temo.”
Mi sorpresi a parlare con lei come fosse culturalmente una mia pari.
Compresi che, in tutto quel tempo, Chizu era andata molto avanti: stava affrontando il ruolo della dèa scarlatta nutrendosi spiritualmente di buone letture. Il suo linguaggio si era fatto più fluido, il suo pensiero più chiaro.
Fu facile aprirmi con lei:
“Forse dovrei seguire il consiglio del mio antico Maestro.”
“Lei lo vuole?” mi chiese di rimando.
Scossi il capo in segno di diniego.
“Allora non lo faccia.” proseguì lei tranquilla “Se gli spettatori ripugneranno la sua anima mostreranno solo di non esserne degni. Io credo in lei, ci ho sempre creduto.”
“Grazie.” mormorai commosso “Conta molto per me.”
Le raccontai che Sayaka, invece, pareva pendere letteralmente dalle labbra di Darker e mi incitava a compiacerlo perché solo così lo spettacolo avrebbe avuto successo.
“Sua moglie pensa al benessere della sua famiglia.” disse inaspettatamente Chizu “E’ comprensibile che sia preoccupata. Solo se avrà successo, potrà rimettere in piedi il vero teatro.”
“Giusto. Sei diventata saggia.” la lodai guardandola negli occhi.
“Devo, Maestro,” fece lei commuovendosi “se voglio <diventare> la sua anima.”
Quell’espressione di ingenua franchezza provocò la mia ilarità:
“Stai giocando a fare la saggia solo per compiacermi, dunque?”
Chizu strinse i pugni e le labbra:
“Io sono la dèa scarlatta. E non consento a nessuno di interpretare a suo modo anche solo una virgola delle parole che scaturiscono dal mio cuore.”
Le parole che scaturiscono dal tuo cuore, Chizu?
Anche adesso, a distanza di anni, se penso a quel che hai detto, sento la pelle accapponarsi.
“Lei è il mio cuore, Maestro, ed io gli do voce. Siamo le due parti di un’anima e credo che anche lei abbia intuito questa verità, affidandomi il suo <capolavoro scomparso>.“
“Non è più tempo di sogni romantici, credevo lo avessi capito.” dissi a mezza voce.
Ma ella perseverò:
“Io non chiedo nulla, a parte il suo amore. Né pretendo abbandoni la famiglia. Voglio solo poterla amare, Maestro. Mi permetta di dimostrarglielo.”

***
Pensavo che, se avessi dato retta all’istinto, avrei trascinato Chizu nello stesso vortice che finì per inghiottire me qualche anno dopo.
Non mi resi conto, invece, del fatto che, perseverando nel mio atteggiamento di rifiuto, fomentai in lei sogni e speranze.
Avevo instaurato un sadico giochino, in cui io potevo considerarmi come una sorta di bracconiere malefico che gioca con la sua preda: i sentimenti venivano prima palesati, poi fatti sfumare per vigliaccheria.
Io ero un vigliacco e lo sapevo.
E il risultato non tardò a divenire evidente: Chizu era sempre più stressata e la maschera di Akoya stava assumendo proprio quelle tinte fosche che Darker aveva auspicato dall’inizio.
L’uomo, dopo la recente discussione, era andato a vivere in una pensione poco distante dal teatro.
Quando gliene chiesi spiegazione - pregandolo peraltro di restare - mi rispose che preferiva evitarmi noie e che, comunque, era suo interesse presenziare alla prima dello spettacolo.
Dopo di ché sarebbe ripartito per l’Inghilterra.
Accettai la cosa con tranquillità e tirai un sospiro di sollievo.
Ma, dopo il suo allontanamento, le prove iniziarono a non soddisfarmi del tutto.
I buoni propositi c’erano, ma non si tramutavano in quel che io desideravo.
Chizu non c’era.
Chizu era assente col pensiero.
Ed era inutile che le ribadissi quale filosofia si nascondesse dietro i protagonisti.
Una filosofia ottimista come può esserlo un credo panteista.
Una filosofia nella quale probabilmente non credevamo più neppure noi.
Takumi Genzo, dal canto suo, era entrato nella parte dello scultore sacro con grande maestria: da piccolo aveva frequentato la bottega di un falegname e il suo modo di impugnare gli attrezzi era davvero realistico.
Al punto che pensai di fargli abbozzare davvero qualcosa durante lo spettacolo ufficiale.
Per qualche tempo, fu il giovane attore a dare una sferzata di vitalità a quelle prove monotone ed inconcludenti.
Teneva Chizu per mano e pareva che osservasse qualcosa di abbagliante e meravigliosamente affine a lui.
Era questo il mio intento, anche se la gelosia e l’attaccamento che provavo per la mia primattrice continuavano ad ossessionarmi.

“Sofferenza e angoscia.
Sento di non riuscire neppure a respirare.
Ti sei allontanato da me solo per un minuto e l’ansia mi divora.
Se questo è il sentore di quel che sarà, come potrò sopravvivervi?”
Akoya recita un disperato monologo davanti a una statuetta votiva, a metà del sentiero per la Valle.
Isshin la raggiunge spaventato: non l’ha mai vista così disperata e comprende che le sagge parole pronunziate qualche ora prima a nulla sono servite.
“Quanti alberi credi che abbia abbattuto dacché sono al mondo per dar forma alla mia arte? Per potermi scaldare durante il gelido inverno?” le chiede il giovane scrollandola con forza “Quanti esseri hanno calpestato questi piedi per arrivare fin qui e quante carni ho dilaniato per potermene nutrire? È questa la vita che gli dèi, nella loro infinita saggezza, hanno creato. Tu sei l’immagine della dèa madre sulla terra! Come puoi contraddirti?”
Akoya gli piantò addosso due occhi feroci:
“Io sono una donna!”
E, mitigando un po’ i toni, aggiunse: “Non soltanto una dèa.”

“Ok!” dissi salendo sul palco “La scena può andare.”
Chizu aveva recitato in maniera discreta e la pregai di tenere a mente quello stato d’animo.”
Mi volsi a Genzo e feci i complimenti anche a lui.
“Sono sconcertato della solidità della tua recitazione, ragazzo.” lo lodai “Ritengo che il tuo Isshin sia quasi perfetto. Ne hai compreso appieno lo spirito. Non c’è sofferenza né dubbio, in lui.”
Chizu se ne stava in disparte, pensierosa.
“Che ti prende, adesso?” le chiesi avvicinandola.
“Nulla.” si limitò a dire.
“Adesso viene la parte più difficile.” mormorai “La donna che è in Akoya si sveglia dal suo torpore romantico e va incontro al suo destino con sicurezza e volontà d’essere. Dimentica l’amarezza che è in lei e vive nella certezza di essere per sempre unita al suo amore.”
Ella annuì non del tutto convinta:
“Non posso interpretare Akoya con questi sentimenti.” disse coraggiosamente “Temo che la mia interpretazione della sua anima si fermi qui, Maestro.”
Aveva rimarcato le ultime parole.
“Ah,” mormorai deluso “come ti eri definita? L’altra metà della mia anima? Atteggiamento alquanto contraddittorio, non trovi?”
“Io” mi interruppe astiosa “non capisco l’amore riamato! Tutto è disperazione e non so come interpretare uno spirito speranzoso!”
Strinsi i pugni.
“Non capisci l’amore riamato…” ripetei atono.
Mi lasciai sfuggire un sospiro, poi chiesi agli attori di lasciarci soli.
“E’ tutta colpa mia.” pensavo tra me e me “Devo porvi rimedio.”
Ma non sapevo come.
Immaginavo che, per Chizu, l’unico modo per uscire dallo stato di torpore in cui era piombata, fosse sperare in un futuro con me, ma non potevo né volevo illuderla.
La desideravo, sì, ma ero fermo nel mio proposito di non farne semplicemente un’amante.
Non era questo che le avevo promesso, quando la portai via dal bordello in cui stava crescendo.
Decisi, tuttavia, di parlarle a cuore aperto.
Ci sedemmo sul parquet, sotto il tendone che ondeggiava al vento leggero.
“Chizu, io non so più cosa fare.” cominciai teso “Pensavo ti fossi fatta più saggia.”
“Maestro, razionalmente io sono con lei e le ribadisco ogni parola che ci siamo scambiati l’altro giorno, ma il mio cuore è stretto in una morsa d’angoscia. Proprio perché capisco i suoi sentimenti non riesco ad essere ottimista.”
Fu una stilettata al petto.
“Non credevo mi leggessi dentro fino a questo punto.” provai ad ironizzare.
“Ogni sua parola comunica amore; per me è come una muta richiesta di aiuto. Ma tutte le volte in cui provo ad avvicinarla, lei si allontana da me ed io dimentico la bellezza, dimentico la passione, dimentico il significato stesso della parola amore.”
“Chi credi che abbia visto, nella Valle, quel giorno?” le chiesi all’improvviso.
Il suo volto si tinse di sorpresa:
“In quale giorno, Maestro?”
“Il giorno in cui tornai a Nara per riprendere le redini della mia vita e metter mano al <capolavoro scomparso>, chi credi che abbia visto?”
Chizu scosse il capo, rispondendomi che non lo sapeva.
“Eri tu.” le confessai “La fedele interprete della mia anima; solo tu potevi ispirarmi l’immagine di Akoya. L’attrice meravigliosa che vive in te ti fa splendere al pari di una divinità. Ma sei anche una donna molto bella. E generosa. Ed altruista. E colta. Tu incarni il sogno di qualsiasi uomo ed anche il mio, temo.”
Rimase di stucco.
“Dopo tutti questi anni, credevi non mi importasse nulla di te? Se fosse stato così perché avrei cercato in tutti i modi di tenerti lontana? Un uomo che si disinteressa ad una donna non ha bisogno certo di addurre infinite spiegazioni. Tuttavia, io sentivo che a te quelle spiegazioni dovevo pur darle. E dandole a te, le offrivo anche a me medesimo. Se avessi seguito il cuore, a cosa saremmo arrivati?”
Chizu fissò il tendone che ondeggiava sopra di noi:
“Maestro,” mi domandò “cosa significa vivere per l’arte?”
Fui stupito della sua richiesta, ma non dispiaciuto:
“Vivere per l’arte è ciò che <spalma> uno spirito eletto sulla storia dell’umanità intera, indipendentemente dal tempo in cui è vissuto. Le opere che quell’artista ha regalato all’umanità divengono le parole di tutti, rimbalzano come un tam tam nei cuori di chiunque lo accosti. È una storia d’amore che coinvolge milioni di anime. Come Francesca e Paolo, che si innamorarono leggendo della storia infelice di Lancillotto e Ginevra; come Giulietta, alla cui casa gli amanti di diverse generazioni si recano in pellegrinaggio. Vivere per l’arte è questo: trasfigurare la sofferenza privata e trarre godimento dal comune esperire di essa. Offrirla come monito o come esempio, come occasione di gioia oppure di tristezza, come motivo di conoscenza o di dimenticanza di sé.”

***

“Davvero riesce ad essere felice solo pensando a questo, Sensei?” mi domandò Chizu ammirata.
Annuii con vigore:
“Lo sono. Questa non è una semplice filosofia. È il mio modo di essere e, come mi ha insegnato Darker tanti anni fa, è una speranza che mi infonde fiducia, che mi salva la vita quotidianamente.”
La giovane scosse il capo:
“La sua vita potrebbe migliorare di molto, se solo lo volesse.”
“Il mio ego” la corressi “ne trarrebbe giovamento, ma non la mia anima.”
La fissai rapito: era davvero splendida, coi capelli sciolti che ondeggiavano alla brezza leggera. Impossessarmi di quel tesoro sarebbe stato semplice, ma a che prezzo? La mia momentanea beatitudine contro la sua successiva disperazione.
I due piatti della bilancia erano fortemente dissonanti, quanto a peso.
Ma l’istinto è una cosa tanto strana quanto potente. E quando il desiderio di qualcuno è palese, ottenebra del tutto il senno.
Le labbra di Chizu furono una calamita per le mie: morbide, appassionate e tenere insieme. Baciarle fu un’esperienza stordente, a dispetto della mia età; mai avevo pensato di provare simile rapimento.
Non riuscii a rimaner fermo a lungo. E, dopo le labbra, fu la volta di mani rese ansiose dall‘aver a lungo atteso.
Ero devastato da me stesso: per la prima volta in vita mia, conoscevo il significato della parola “possesso” ed era tutto ciò che la mia anima auspicava, in quel momento. Tutto il resto era dimenticato.
Compresi solo, quando portai con me Chizu nei camerini di fortuna allestiti poco distante, il perché avessi tanto titubato fino a quel momento. Sapevo benissimo a cosa sarei andato incontro, così come sapevo bene che non mi sarei limitato a baciarla.
Ella era esattamente la stessa donna che avevo un milione di volte delineato con la mia penna: generosa, forte, appassionata. E vedeva solo me.
Non c’erano soffitti da guardare né malumori da nascondere dietro un amplesso affrettato. C’ero solo io, insieme a lei, desiderosi di scoprire una dimensione nuova del dare e del ricevere.
Doveva andare così.
Quel peccato era ineluttabile.
E, dal punto di vista artistico, perfezionò una interpretazione che, in seguito, sarebbe passata alla storia.
Chizu non chiese nulla, dopo quella volta, ma divenne ancora più assidua e affettuosa nei miei riguardi.
Finché ci trovavamo vicini, ella si rivolgeva a me con lo sguardo o con parole. Ed io, tacitamente, le rispondevo rassicurandola del fatto che, ormai, ella costituiva tutto per me: la mia fonte di ispirazione, il mio amore, il mio tutto.
Mi sentivo in una botte di ferro.
E la sera della prima de La Déa Scarlatta, sotto il teatro tenda, la mia massima soddisfazione fu constatare come sul suo volto di giovane donna innamorata albergasse quell’espressione arcana e divina che io le avevo chiesto di assumere.
Lo fece senza sforzo, con la naturalezza di chi sa di essere nato per avere quel ruolo.
Il ruolo che ingloba tanto il “me” quanto “lei”.
Chizu salì sul palco e, alzatosi il sipario, parve che la vita del dio, conchiusa nell’universo scuro, informe e senza fine, iniziasse misteriosamente a dispiegarsi sotto gli occhi del pubblico convenuto.
Avevamo fatto il pienone.
Molta gente era partita da Nara appositamente per assistere ad uno spettacolo che parlava di leggende e luoghi conosciuti e cari.
Anche Sayaka sedeva in prima fila coi ragazzi e i genitori a fianco. Le mie sorelle, più defilate, erano arrivate con le rispettive famiglie.
Lo spettacolo, di ben due ore e mezza, calamitò sin da subito l’attenzione di tutti i presenti. Non ebbi modo di “vedere” Chizu in alcun modo, durante tutto quel tempo: anche nei due momenti di pausa previsti da copione, la maschera di Akoya permase fissa sul suo volto diafano.
Era giusto così.
La mia donna era una artista nata e sapeva che un minimo dubbio, una lieve imperfezione avrebbero pregiudicato la buona riuscita dello spettacolo.
Era meravigliosa, mentre si muoveva al ritmo degli elementi della natura e i petali di susino, come coriandoli monocromi, la attorniavano. Le sue pupille parvero sparire davvero, nel momento in cui ella “vide” il suo prossimo futuro.
Stelle, luna, sole, acque dal cielo e dalla terra, fuochi splendenti al pari dei lucernari, brezze ora leggere ora impetuose e poi la terra generosa la attorniavano, la penetravano nel profondo, vivificandola.
Era come fosse davvero parte del tutto.
E poi, le scene dell’innamoramento e dell’unico bacio tra i due amanti furono così realistiche da commuovere me e la platea nel profondo.
Akoya aveva un incantevole sorriso stampato sul volto. Pareva improvvisamente divenuta consapevole della realtà che Isshin le aveva tratteggiato tempo addietro: che l’amore non finisca con la morte costituiva un concetto filosofico, ma per Chizu, da quella sera, divenne realtà.
E le espressioni di fiducia che seppe assumere lo dimostrarono ampiamente e a me infusero certezza e speranza per un futuro migliore.
Questa è la potenza dell’arte, mi dissi mentre Isshin, con l’ascia in mano, contemplava il susino millenario da abbattere.
Era la scena culminante del dramma.
Inarcai le labbra quando Takumi Genzo, con pena infinita, mormorò agli abitanti del villaggio l’unica, semplice verità di cui si faceva scudo:
“Non penso che l’amore finisca con la morte.”
Non finisce.
Io me ne rendevo finalmente conto.
Mi dissi, in quel momento, quanto stupido fossi stato a titubare tanto. Se avessi abbracciato il sentimento provato da subito per Chizu, sarei stato molto più felice e, di certo, avrei evitato quel fatale mal di vivere del quale tanti, troppi artisti, loro malgrado, finiscono per ammalarsi.
Tra la folla, percepii la sagoma di Darker, che sedeva un po’ defilato, col suo bastone dal manico adunco fra le mani.
“Sensei,” pensai fra me e me “è questa la felicità.”
E aveva ragione lui. Tutto era andato come vaticinato dal Maestro tanti anni prima.
Quel <capolavoro scomparso> che diede compimento al mio essere mi salvò la vita e mi rese spudoratamente felice.
A sipario chiuso, si levò un boato così forte che mi fece vibrare l’anima nel profondo.
Il trionfo del mio io sarebbe stato assoluto se avessi avuto la forza di andare sul palco per la chiamata alla ribalta e abbracciare Chizu davanti al mondo intero.
Volli farlo fortemente e lo feci.
Ella, che era ancora stordita dalla sua stessa forza interpretativa e, parimenti, dal fragore degli applausi, sembrava una creatura sperduta, una bimba appena uscita dal grembo accogliente della mamma per misurarsi con la realtà.
Percepii con chiarezza quello stato d’animo e corsi ad abbracciarla: come una madre, come il suo amante, come tutto ciò che, in quel momento, poteva confortarla al meglio.
Il pubblico, entusiasta passò sopra a due particolari eticamente scorretti.
Probabilmente, in tanti attribuirono quell’abbraccio per nulla casto alla stravaganza tipica degli artisti e nessuno si ricordò del mio status di uomo sposato o del fatto che, tra me e Chizu, ci fossero ben venticinque anni di differenza.
Sayaka, accompagnata dai nostri ragazzi, venne a salutarmi:
“Complimenti, caro.”
Detto questo, mi diede un bacio sulla guancia.
Quando si avvide che, neppure in quel frangente, mi ero divincolato da Chizu, chiese ai figli di darmi anch’essi un bacio.
“Siete uomini ormai,” dissi con fierezza “stringiamoci, piuttosto, la mano!”
Shingo, il figlio mezzano, storto lievemente il muso - un’espressione tipica di mia moglie - si rifiutò di adempiere al fastidioso devoir.
Sayaka, allora, mi invitò ad andare a salutare i suoi genitori, che attendevano vicino alla tenda in cui avevamo preparato per il rinfresco.
Mi prese sottobraccio, lasciando Chizu un passo indietro coi nostri figli.
“Avresti almeno potuto abbozzare un cenno di saluto.” mormorai acido e a mezza voce per non essere udito “Chizu ha reso possibile questo successo! E se domani potrai tornare stabilmente a Tokyo lo dovrai a lei!”
“Sei solo un vecchio rincoglionito.” rimbeccò ella con tono scandalizzato “Non saluterò mai la tua puttana. Del resto, l’hai già ringraziata abbondantemente tu stesso sotto gli occhi della Tokyo che conta.”
Continuava a dispensare sorrisi a tutti coloro che incrociavamo ed io mi stupii di quanto brava fosse a recitare il ruolo della strega megera delle fiabe.
“Non mi importa un accidenti della Tokyo che conta.” le dissi svincolandomi.
“E cosa vorresti fare?” riprese Sayaka “Vuoi lasciarmi? Fallo pure, se vuoi, e sarà la tua rovina.”
Scossi il capo disgustato.
Quando giungemmo alla tenda, fui accolto da un fragoroso applauso.
Mi girai verso Chizu, che nel frattempo era stata avvicinata da Takumi Genzo. Quella visione di giovanile bellezza, unita al ricordo delle recenti parole di mia moglie, mi provocò sofferenza.
“Ringrazio tutti i convenuti,” dissi “e, in particolar modo, questo cast straordinario che ha reso possibile la riapertura del teatro Gekko.”
Alzai il calice verso Chizu e bevvi in un unico sorso lo champagne in esso contenuto.
Mio suocero si avvicinò assieme ad un uomo che non avevo mai visto.
“Ichiren,” mi disse “ti presento Eysuke Hayami, un vecchio compagno di scuola di Sayaka. Possiede una ditta di trasporti e vorrebbe farti una proposta.”
Lo osservai interrogativo:
“Adesso?”
Egli annuì.
“Il ferro va battuto finché è caldo.” mormorò Eysuke.
Il suo tono di voce, basso e leggermente subdolo, me lo fece risultare molesto sin dal primo incontro.
“Suo suocero mi ha detto che intende ricostruire sul sito dell’antico teatro Gekko e, possibilmente, annettervi il vecchio caseggiato in cui dimoravano le prostitute. Per far questo le occorre molto denaro. Io le propongo un investimento. Come le è stato detto, possiedo una ditta di trasporti. Vorrei che portasse La Déa Scarlatta in tournée nei principali teatri del Paese. Io le offro il trasporto gratuito di tutto quel che riguarda la parte materiale dello spettacolo. Sono convinto che questo dramma riuscirà a darle il successo e i soldi necessari per realizzare il suo progetto.”
Lo osservai sempre più perplesso.
“Se ho capito bene, lei è un imprenditore.” affermai senza peli sulla lingua “Dov’è il suo guadagno?”
Hayami sorrise impercettibilmente.
“Vede, io possiedo anche una piccola impresa teatrale. Sono un appassionato di teatro fin dalla gioventù. In cambio, vorrei che lei e la sua compagnia lavoraste per me. Mi basterebbe anche uno spettacolo all’anno in uno dei miei teatri. Sceglierete voi la data.”
“E’ davvero una offerta più che generosa, da parte sua.” dissi sospirando “Sono stupito.”
Chiamai Chizu al mio fianco ed ella, incrociato lo sguardo di Hayami, mi strinse leggermente il braccio.
Non vi feci caso più di tanto.
“Allora, mia cara,” le annunciai allegramente “ti andrebbe di recitare la tua Akoya anche fuori Tokyo?”
Ella annuì e, vedendomi così ilare, scacciò l’ombra del sospetto dal suo sguardo.
Eysuke le piantò subito gli occhi addosso ed io, mio malgrado, mi vidi costretto a chiedere a Genzo di vegliare su di lei, durante la mia assenza.
Fu solo l’inizio.
Hayami non mi piaceva a pelle. Ciò nonostante, ne accettai il “disinteressato aiuto”.
Non so perché lo feci.
Un uomo va incontro al suo destino sempre e comunque, anche se sa che si evolverà in tragedia.

***

Sì.
Incontro alla tragedia senza neanche sapere perché, senza neanche sapere come.
Avevo sempre gestito il teatro a modo mio, rifiutando ingerenze di qualsiasi tipo, financo - soprattutto - quelle provenienti dalla mia famiglia.
Ma il Gekko non esisteva più, materialmente parlando, ed io avevo bisogno di soldi per ricostruirlo.
Decisi di affidarmi ad Eysuke Hayami e gli comunicai la notizia qualche giorno dopo.
Mi ricevette nel piccolo ufficio della sua ditta di trasporti.
Quando vi entrai, rimasi senza fiato. Le pareti, rivestite di legno, erano tappezzate di foto di scena e tutte avevano un unico soggetto: Chizu nel recente spettacolo de La Dèa Scarlatta.
Pensai che il giovane imprenditore si fosse preso una cotta per la mia donna e provai non poco fastidio.
“Notevole.” non potei trattenermi dal dire con ironia.
“La sua attrice è davvero una ragazza straordinaria. E molto bella.” affermò egli rapito.
“Chi ha scattato queste foto?” chiesi guardandolo negli occhi.
“Un mio amico che lavora per lei.” rispose Eysuke con semplicità.
Non mi ero mai accorto di nulla, durante le lunghe, estenuanti prove e mi domandavo come avessi potuto essere così cieco.
“In teoria,” ripresi “sarebbe stato tenuto a chiedere il permesso. Questo ufficio mi sembra il rifugio di uno studente alla prima cotta. Mi da inquietudine.”
Hayami rise fragorosamente:
“Chi mi ha parlato di lei aveva ragione: è sempre stato un insicuro, a dispetto dei suoi anni! È più che normale che un ragazzo della mia età, benché affermato nel lavoro, nutra delle passioni teatrali o cinematografiche. E rischi di innamorarsi di una stella.”
Non feci caso alla prima parte della frase, che, in verità, costituiva il nocciolo della questione.
Aveva, poi rimarcato sapientemente la frase che sapeva bene mi avrebbe procurato fastidio.
Anche se stavo con Chizu, il fatto di essere più vecchio di lei di ben venticinque anni mi rendeva non del tutto soddisfatto.
“Chizu è molto giovane, Maestro Oozachi.” disse infatti Eysuke “Penso che dovrebbe iniziare a guardarsi intorno. Con il lavoro che fa, ha bisogno di qualcuno che la protegga.”
E voleva aggiungere che io, avendo oltrepassato i quaranta da un pezzo ed essendo sposato, ero fuori dalla lista dei papabili.
“Sarà lei a decidere se e quando mettere su famiglia.” mormorai freddamente.
“Maestro,” mi interruppe Hayami “so che lei è il tutore legale della ragazza e vorrei chiederle il permesso di frequentarla.”
“Ma non dovevamo parlare di affari?” chiesi spazientito.
Eysuke si accese una sigaretta:
“Questo ne fa parte, in un certo senso. Allora accetta?”
“Accetto di portare il mio spettacolo in tournée,” chiarii “ma, riguardo a Chizu, non mi trovo d’accordo con lei. Ha ventidue anni appena e deve concentrarsi sul suo lavoro, prima che sulla vita sentimentale.”
“Troppo giovane, dice?” ripeté l’uomo “A me risulta che lei si sia sposato a vent’anni, Maestro. E poi, non mi pare la consideri troppo giovane per un altro genere di cose.”
Si alzò dalla sedia, mentre io, mortalmente pallido, strinsi i braccioli della poltrona su cui sedevo.
Uno sconsiderato.
Ero stato completamente cieco.
Quell’uomo sapeva tutto e, probabilmente, non era l’unico.
“Non la condanno.” mi disse Eysuke “Molti uomini di successo hanno accanto una moglie ed una amante, ma credo che Chizu abbia bisogno di un uomo che si dedichi a lei sola.”
Mi sentii mancare.
Sapevo che Hayami aveva ragione. Lo sguardo di Chizu, quando incrociava il mio, era carico di aspettative e di trasporto. Io, dal canto mio, mi trinceravo dietro la scusa del teatro o della famiglia ufficiale per giustificare i rari momenti da dedicarle.
Mi sentii un verme, oltre che perso al pensiero che lei, stufatasi, avrebbe potuto decidere di lasciarmi.
“Se Chizu riterrà opportuno, la lascerò libera di scegliere il suo compagno di vita.” dissi con la morte nel cuore.
“Maestro, io credo che sia consapevole del fatto che tutto dipenda da lei.” mormorò Hayami versandomi del sakè “La ragazza ha occhi solo per lei e solo se la inciterà a farsi una vita si allontanerà, come è giusto che sia.”
Incitarla?
Dovevo lasciarla andare incitandola, addirittura?
Che razza di uomo avevo davanti?
Sì, aveva senza alcun dubbio ragione, ma aveva idea di quali fossero i miei sentimenti? Chizu ed io ci appartenevamo, eravamo fatti per stare insieme. Quell’omuncolo da due soldi poteva anche aver ragione sulla necessità che la mia primattrice si facesse una vita sua, lontano da me, ma non aveva alcun riguardo per ciò che io provavo.
“Discuteremo di questa cosa avanti, magari quando saremo di ritorno dalla tournée.” affermai col cuore a pezzi.
Eysuke Hayami annuì soddisfatto.
“Sono d’accordo.” disse “Ma spero che, nel frattempo, mi permetterà di avvicinare la ragazza.”
Alzai le sopracciglia:
“Io non posso imporre nulla a nessuno. Se Chizu gradisce la sua compagnia, non la priverò di questa gioia. Ma mi permetta di rammentarle che qualcun altro ambisce al posto che lei tanto ardentemente desidera?”
L’uomo sorrise beffardo.
“Se si riferisce a Takumi Genzo,” masticò “non mi trova d’accordo. Sappiamo entrambi chi è l’uomo che Chizu ha nel cuore.”
Me ne andai.
Provammo il nostro spettacolo sotto il teatro tenda per una settimana, poi partimmo.
Hayami, ispirandosi al modello circense, aveva fatto in modo che ciascuno di noi avesse una sorta di alloggio viaggiante. I teatri che aveva contattato erano di prim’ordine ed io non potei non apprezzare il suo impagabile sforzo a che Chizu e la compagnia tutta brillassero.
Durante le pause avvicinava la ragazza, la corteggiava spudoratamente sotto i miei occhi e senza riguardo alcuno nei confronti di Genzo, che se ne stava a guardare senza intervenire.
“Ma non ti infastidisce tutto questo?” domandai al giovane attore la sera in cui giungemmo in Hokkaido.
Takumi alzò le spalle e mi rispose esattamente quel che mi aveva detto Eysuke Hayami qualche giorno prima:
“Sappiamo entrambi chi è l’uomo che Chizu ha nel cuore.”
Tuttavia, si disse preoccupato per quelle avances così <corpose>. Lo inquietava la spudoratezza dell’uomo, quel suo volerla “comprare” attraverso beni materiali.
“E’ un uomo senza spirito.” affermò Genzo con aria truce “Che razza di futuro potrà mai offrirle? Di certo, non le mancherà il denaro, ma il cuore di Chizu ha bisogno d‘altro.”
Aveva ragione.
Essere attori non prevede un punto d’arrivo. E un attore che non nutre adeguatamente il proprio spirito è destinato a fallire.
Le mille maschere che riposano in un artista possono infrangersi in un istante soltanto, se questi, preso da smodata materialità, dimentica di dar spazio alle emozioni.
“Chizu non deve perdere ciò che la vivifica. La sua bellezza è esaltata dal teatro. Nella vita reale, ella, per quanto piacente, è una donna come tutte le altre.” affermò il ragazzo.
Sì, esattamente come me, che, privo della mia penna, ero un uomo complessato e senza talento alcuno.
“Credi che accetterà la sua corte?” chiesi all’attore preoccupato.
“Potrebbe.” rispose il giovane “Chizu è molto fragile e bisognosa di attenzioni, Maestro. Cose che lei, ultimamente, non le sta elargendo in quantità.”
Mi passai una mano fra i capelli.
“Non posso fare più di tanto.” dissi “E forse è meglio così.”
“Chizu non concepisce la sua vita lontano da lei, Maestro.”
“Neppure io.” confessai “Ma Hayami ha ragione. Merita di meglio.”
Mi torturavo le mani come un adolescente ubriaco di tormentato amore.
Sì, non concepivo la mia vita senza di lei.
Chizu e la scrittura erano divenuti, per me, un binomio inscindibile. Qualsiasi cosa io scrivessi, il volto della protagonista era il suo: amore, disperazione, estasi trovavano compimento in quegli occhi scuri e penetranti che, incredibile a dirsi, amavano proprio me.
Soltanto me.
Darker aveva previsto tutto, pensai non senza sconcerto.
Ero riuscito a dare un volto reale a qualcosa che rappresentava la profondità del mio spirito, la mia cultura stessa, la mia appartenenza a questa terra maledetta dove la forma e la materia contano più dello spirito.
E per questo sentivo insopportabile l’idea di andare avanti senza di lei.
Cominciai a credere che la filosofia buddhista cui mi ero ispirato per scrivere La Déa Scarlatta forse corrispondeva a verità.
Genzo sospirò profondamente:
“Maestro, se io fossi in lei, sarei pazzo di felicità. E, invece, sta ancora a rimuginare e a dire che Chizu merita di meglio. Voi vi amate. Che cos’altro può desiderare ancora?”



***

La conversazione con Genzo non mi scosse più di tanto.
Dopo la tournèe che portò il mio <capolavoro scomparso> in tutto il Paese, iniziammo a recitare tutto quel che ci capitava.
E Chizu fu addirittura sotto contratto con la Daito Art Production di Eysuke Hayami per un “musical” che, nel dopoguerra, stava avendo molto successo oltreoceano.
Era una stella, ormai.
Brillava in qualsiasi attività artistica si cimentasse: danza e canto le erano congeniali quanto la recitazione, ma io ritenevo quel suo accostarsi a forme alternative di arte un vero e proprio “tradimento dello spirito”.
Ma non le dissi nulla.
Volevo vedere fino a che punto la corruzione, rappresentata da quel giovane imprenditore, avrebbe minato il suo spirito tendenzialmente puro.
Non la cercai neppure.
Passarono giorni, mesi e di lei nessuna traccia.
Io avevo riavuto il mio teatro, continuavo a scrivere e ad avere successo, ma la mia primattrice era scomparsa nel nulla. Sapevo, tramite Genzo, tutto quel che le capitava, ma nulla dalla sua bocca.
Andavo letteralmente alla deriva. E più il successo aumentava, più mi sentivo mancare dentro.
Nel frattempo, mia moglie si era ammalata.
I medici dissero che poteva trattarsi di una conseguenza delle radiazioni assimilate durante il soggiorno nei pressi di Nagasaki. Cercai di starle accanto come un marito devoto, ma, fino all’ultimo, ella rifiutò di mutare atteggiamento.
Permase fredda, lontana e, nel momento in cui chiuse gli occhi, li volse al soffitto, proprio come tutte le volte in cui eravamo stati insieme.
Ero libero da ogni vincolo, a quel punto, ma iniziai a nutrire gli stessi sensi di colpa lancinanti di qualche anno prima.
Cercai un contatto coi miei ragazzi, ma invano.
Ognuno di loro prese la propria strada, che coincise con quella tracciata dal nonno materno. Nessuno raccolse la mia eredità.
Sapevo che Shingo, quand’era al liceo, si era distinto particolarmente in lingua giapponese e gli domandai, dopo le esequie di Sayaka, se avesse intenzione di entrare nel Gekko come drammaturgo.
Ma egli, con gli stessi occhi di sua madre, mi sorrise perfidamente e disse che, di artista, in casa, ne bastava uno solo.
“Voglio avere una famiglia mia,” soggiunse “e sarà mia premura non far soffrire la donna che sceglierò o i figli che avrò da lei.”
Come a dire: dov’eri tu, quando ero ammalato o bisognoso di un qualsiasi tipo di aiuto?
Sempre chino sui libri o a scrivere. O al lavoro, nel teatro Gekko.
Ma, più di tutto, mi turbò il suo riferimento esplicito a Chizu:
“So che tu e la mamma non vi amavate, ma ciò non giustifica il tuo tradimento. Esiste il divorzio, padre, ma non lo hai affrontato perché sei un vigliacco. Hai sacrificato tutto, persino la tua felicità con quella ragazzina, in nome del teatro.”
“Quando capirai cosa significa trovare compimento in qualcosa, cesserai di essere severo con me.” mormorai amaro “E’ stata l’arte a salvarmi dalla mediocrità.”
“Lo so, padre,” mi interruppe Shingo “ma mi chiedo se ti resterà qualcosa, arte esclusa, tra qualche tempo. Io, se fossi in te, mi guarderei bene alle spalle. La famiglia del nonno è vendicativa e non ti perdonerà mai per le offese che la mamma ha subito.”
Se ne andò.
Quella è l’ultima immagine di Shingo che ho ancora impressa nella memoria: i suoi capelli ramati, il suo kimono scuro ad indicare il lutto, il portamento vigoroso ereditato da mia moglie.

Divenni l’ombra di me stesso senza che neppure me ne accorgessi.
Ma, quando furono terminate le repliche del musical, Chizu tornò ad occupare le vecchie stanze della custode, la signora Mifune.
Mi ricordo ancora il giorno in cui fece ritorno al Gekko.
La accolse Genzo, con un bel sorriso stampato sul volto.
Io, che stavo istruendo dei nuovi attori, le rivolsi un freddo sorriso.
Mi doleva non averla vista ai funerali di Sayaka. Pensavo che mi sarebbe stata vicina, in quell’occasione, e, invece, aveva preferito fare “altro“.
Forse aveva provato per un nuovo spettacolo o, semplicemente, si era dedicata ad attività più “piacevoli“.
Non potevo credere che, avendo ella accettato la corte di Hayami, si fosse mantenuta sul platonico: il giovane Presidente della Daito era un uomo pratico e passionale, non certo incline al puro romanticismo.
“Allora?” le dissi acido “Sei tornata all’ovile o sei qui solo per un cambio di biancheria?”
“Sono qui per restare.” mi rispose lei abbassando appena lo sguardo.
Le diedi le spalle e tornai ad occuparmi dei miei ragazzi. Ma ella non ne fu soddisfatta e mi seguì fin sul palcoscenico.
“Mi dispiace per quanto accaduto a sua moglie!” mormorò prendendomi per un braccio “Ho saputo della vicenda solo ad esequie avvenute!”
“Certo.” masticai ironico “Se muore un congiunto di un uomo famoso, è facile che nessuno ne venga a conoscenza!”
“Maestro, la prego, mi stia a sentire...”
Il suo tono accorato, simile a una preghiera, smosse appena il mio cuore indurito parimenti dalla vigliaccheria e dal rancore.
“Che cosa vuoi?” mi limitai a domandarle sganciandomi in modo scomposto.
“Se sono andata via è stato solo perché lei me lo ha permesso!” soggiunse Chizu in lacrime “Se mi avesse imposto di restare, io non mi sarei mai allontanata.”
Il mio volto divenne beffardo:
“Hai ragione. E non ti biasimo per esserti data a nuove esperienze. Era quanto volevo. Però, ciò che mi fa rabbia è il tradimento del tuo spirito.”
Chizu smise di singhiozzare all’improvviso.
Gli attori intorno a noi, che avevano ascoltato la conversazione fino a quel momento, furono richiamati da Genzo ed allontanati.
“Sei diventata una artista completa, si dice in giro.” continuai astioso “Ma che ne è della dèa scarlatta? Scommetto non saresti in grado di recitarne neppure una riga!”
“Che dice, Maestro?” urlò Chizu chiudendosi le orecchie con entrambe le mani.
La presi per le spalle e la condussi davanti a uno specchio:
“Guardati adesso? Sei una pupattola! Non c’è nulla della incantevole fanciulla che commosse le platee recitando l’amore di anime che non esiste!”
Era come se avessi un diavolo in corpo.
Le vomitai addosso tutto il mio malessere. Desiderai ucciderla dentro.
Io, che le avevo offerto di vivere tanti anni prima, avrei voluto farla sprofondare nell’inferno delle baldracche dal quale l’avevo tratta!
“Che cosa fa un attore? Nutre la sua anima, vive i suoi sentimenti in pienezza, li usa a suo modo per brillare sul palco! Tu sei solo la squallida imitazione di ciò che sei stata!”
Così le urlai e, dopo che ebbi finito, senza dire una parola, ella si mosse al centro del palco: si piegò sulle ginocchia fino ad inginocchiarsi, poi si sdraiò sul nudo legno e prese ad intonare una cantilena antica, che ben conoscevo.
“Smettila!” le intimai “Che cosa vorresti dimostrare?”
Era pallida in volto, pareva davvero stesse risvegliandosi in quel preciso istante.
Io lo percepivo con chiarezza. Stava recitando il prologo de La Déa Scarlatta con grande intensità.
Non so come accadde: forse perché, in fondo, erano le parole della mia anima a fiorirle sulla bocca, l’astio e l’acredine presero a scemare progressivamente fino a lasciarmi dentro un gran senso di pace.
Il ritmo del mio respiro tornò regolare, quando la raggiunsi al centro del palco per aiutarla ad alzarsi.
Genzo, dietro le quinte, batteva le mani con foga.
“Perché lo hai fatto?” chiesi.
Chizu mi guardò con occhi pieni di lacrime:
“Perché volevo dimostrarle che sono ancora l’altra metà della sua anima, Maestro, che lo sono da sempre. Posso peccare, cedere alla corruzione, ma ciò non muta la mia vera essenza. E, se c’è da scegliere tra il cuore e la ragione calcolatrice, non ho dubbio alcuno.”
La strinsi a me con vigore ed ella ricambiò il mio abbraccio con ostinata disperazione.
Sapevo che il rinnovato sodalizio, avrebbe portato Chizu lontana da Hayami: da un lato, la cosa non mi spiaceva per nulla; dall’altro, mi inquietava.
Non avrei mai più accondisceso a che la sua società portasse il mio <capolavoro scomparso> in teatri esterni al Gekko.
Pensavo, con grande ingenuità, di potermi liberare dell’ingerenza della Daito Art Production facilmente, un passo alla volta.
Ma proprio in quell’occasione ebbi consapevolezza del fatto di non essere tagliato per gli affari.
Hayami venne subito a “reclamare il suo” e finii per litigarci.
“Il mio segretario, Asakura, mi ha detto che non allestirà il suo capolavoro al teatro Daito, il primo dell’anno.” diss’egli saltando subito al dunque “E desidererei avere chiarimenti.”
“E’ tutto chiaro, invece.” tagliai corto “Il tuo modo di gestire le attività teatrali è molto lontano dal mio. Tu cerchi i profitti, io opto per la qualità.”
Eysuke si fece terreo:
“E immagino sia per questo che Chizu si rifiuta di prender parte al prossimo film di produzione della Daito.”
Sospirai:
“Ho lasciato la mia primattrice libera di agire come meglio crede. In virtù di questo, può anche rifiutare la tua offerta.”
Con un gesto violento della mano, Hayami scaraventò giù dal tavolo della mia scrivania il calamaio e alcuni fogli sparsi.
“Pensa di farla franca in questo modo, Maestro Oozachi?” sibilò fuori di sé “Stia attento a quel che fa, io ho amici molto potenti!”
Inarcai le labbra:
“Lo so, posso facilmente dedurlo. Provate a distruggere il Gekko e magari, un giorno, ci riuscirete davvero, ma sai che ti dico? Non me ne importa più nulla! Anche se finirò di nuovo sotto una tenda, non mi impedirai di esercitare la mia arte!”
Eysuke Hayami mi prese per il risvolto dello yukata:
“Si sente tanto potente perché ha <lei>, vero? È riuscito a corromperla ancora?”
Mi sganciai con forza.
“Lei ha scelto da sola e, non a caso, ha scelto il cuore.”
Masticò una bestemmia e se ne andò giurando vendetta.

Seguì un periodo oscuro, durante il quale “strani incidenti” cominciarono a ripetersi dentro e fuori del teatro.
Degli <yakuza> sapientemente addestrati avevano trovato dimora in uno stabile accanto al Gekko: non si contavano più gli scippi ai danni degli avventori del mio teatro, le aggressioni notturne, così come le richieste di pizzo, le intimidazioni e piccoli danneggiamenti alle strutture.
Mentre provavamo, i “signori” ingaggiati da Hayami, armati di giradischi, trombette e quant’altro, facevano un gran baccano: sovente, si spingevano sin nel ridotto e vi depositavano immondizia di ogni tipo, oltre che escrementi. Prendevano in giro gli attori e ci provavano pesantemente con le ragazze giovani.
A Chizu uno dei manigoldi arrivò a strappare il kimono, a minacciarla di deturparle il viso.
La polizia, sollecitata più volte, provvedeva a sbattere in cella il disturbatore di turno, ma, per ognuno che se ne andava, ne arrivavano altri cinque.
Ero disperato.
E la bottiglia divenne un rifugio.
“Fragile uomo, pensavi di poterla fare franca con quell’individuo?” scrissi in preda ai fumi dell’alcool una sera.
Sayaka aveva lavorato bene, durante i miei lunghi periodi di assenza. Il suo “compagno di scuola” si era rivelato il suo “migliore amico” e, forse, qualcosa di più.
Shingo, mio figlio, mi aveva messo in guardia, ma il non sapere cosa aspettarmi da un attimo all’altro mi gettava nell’inquietudine più profonda.
Nella mia mente offuscata prese forma una idea. Scappare, tornare a Nara magari o, ancor meglio, prendere Chizu e andare in Europa o in America. Avevamo il talento, dalla nostra parte, e nulla poteva impedirci di ricostruire una carriera compromessa.
Finalmente, lontani dai clamori e dalla piccolezza nipponica, saremmo potuti essere felici.
Ma la realtà non è sogno.
Qualcosa, in me, era cambiato.
E anche se due persone si amano e dividono il <futon>, come noi facevamo dacché ella aveva fatto ritorno, sentivo che qualcosa non andava, che non era sufficiente.
“Sai,” le dissi una sera “tu mi rendi molto felice. Starti vicino mi inebria. È bellissimo, oltre che struggente.”
“Ma?…” chiese ella accoccolandosi a me.
“Da quando siamo tornati insieme non scrivo più.” le confessai “Penso solo a momenti come questo. Ti guardo e non desidero altro che toccarti e dimenticare.”
Nel pratico, era come se le dicessi che stavo passando dalla bottiglia al sesso smodato.
“Dimenticanza, Ichiren?” ripeté la ragazza alzandosi sui gomiti “E’ questo che desideri? Dimenticarti di te stesso?”
Aggrottai le sopracciglia incerto.
Non sapevo cosa risponderle.
“Penso che il senso della mia arte sia da ricercare nella disperazione.” dissi dopo aver riflettuto “E’ come se io cercassi una via d’uscita, ma, trovatola, ritorno al punto di partenza per ricominciare daccapo. I filosofi occidentali direbbero che il mio è un modo masochistico di prolungare quel particolare piacere che deriva dalla sofferenza.”
“Non capisco…” mormorò Chizu “Io non mi intendo di filosofie. Comprendo solo quel che ho qui, nel mio cuore.”
Le sorrisi con tenerezza:
“Io e te non potremmo essere più diversi, mia cara, ed è per questo che sei l’altra metà della mia anima.”
“Ichiren, tu vuoi essere felice?” mi domandò all’improvviso.
“Tutti gli uomini, invero, lo auspicano.” risposi alzando leggermente le spalle.
“Ma quanto mi ha appena detto” replicò Chizu “farebbe pensare che non lo desideri.”
Mi misi a sedere sul futon:
“Sono prossimo alla vecchiaia, ragazza mia, e non soltanto dal punto di vista anagrafico. Scrivere è tutto quel che so fare. Se non ci riesco, mi sento venir meno. E sei tu, dolce droga, a farmi morire, in questo momento.”
Pensai che la musa ispiratrice, una volta portato a compimento il <capolavoro scomparso> che è in ogni artista, dovesse essere per forza di cose allontanata e glielo dissi.
Darker mi aveva introdotto alla verità, ma non a tutta.
E comprendevo finalmente perché il nostro sodalizio fosse terminato miseramente.
Non aveva accettato che io andassi per la mia strada.
Ritengo che, per ogni Maestro, la cosa più dura da <comprendere> sia che il proprio pupillo prenda le distanze da ciò che gli è stato insegnato. E impari a ragionare con la propria testa.
Da questo, però, dipende la <salvezza> di entrambi.
“Sai, Chizu,” confessai “sarà patetico dirlo, ma realmente io non riesco a vivere con te o senza di te…”
“Quel che dici, non mi rallegra per nulla…” mormorò la giovane donna rimboccandosi il lenzuolo.
“Che cosa ne sarà di te quando non ci sarò più?” le chiesi guardandola.
“Io non sono come te.” mi rispose inaspettatamente “Non concepisco la mia vita lontano da te, Ichiren. Hai visto anche tu cosa ho rischiato di diventare, quando mi sono avvicinata ad Hayami.”
“E dunque?” mormorai.
“Ho sempre pensato, dal giorno in cui mi prendesti per mano per condurmi via dal bordello, che sarei morta insieme a te.”
Risi fragorosamente.
“No, amor mio,” dissi stringendola a me “tu hai un compito assai gravoso da portare a compimento ed è perpetuare questo amore senza tempo cui abbiamo dato vita insieme.”
“La Déa Scarlatta?” domandò perplessa.
“Io non ho scritto un libro, Chizu, ma un copione teatrale e, quando non ci sarò più e tu sarai vecchia, il tuo ultimo traguardo artistico sarà quello di istruire un’altra ragazza, un’altra dèa che ci dia vita eterna e confermi la bellezza di quanto abbiamo vissuto. È questo il teatro. Noi non abbiamo avuto figli carnali, ma, nel contempo, abbiamo generato qualcosa che vale più della stessa carne. Abbiamo portato alla luce lo spirito che è in noi, rischiando anche di metterlo alla mercé della materialità e dello scandalo. Se mi guardo indietro, vedo traguardi e fallimenti che s’accavallano a ritmo incessante, ma un solo punto fermo: tu e ciò che mi hai ispirato.”
“Maestro, cosa significa?” mi chiese Chizu allarmata “Qual è la prossima tappa della nostra vita insieme?”
Sorrisi ancora.
“Non c’è altra tappa.” dissi con tono soffocato “Abbiamo finito. <io ho finito>. Ho portato all’estremo compimento ciò per cui sono nato. E, Chizu, io non sono più il tuo maestro. Ti ho insegnato tutto ciò che sapevo.”
Mi alzai dal <futon>, quindi le porsi una mano.
“Ci rivediamo più tardi?” domandò ella abbozzando un tenero sorriso.
“Ogni giorno della mia vita” le risposi “io ti rivedrò. E tu vedrai me.”

***
Ichiren Oozachi
1903-1954
La sua amata musa ivi pose.

Epitaffio semplice, snello, in perfetto stile giapponese.
E’ già tanto se le concederanno di apporlo.
Lei, che non è neanche mia moglie, si occuperà di tutto, spuntandola sulla burocrazia e sul bigottismo.
E avrà i miei soldi - tutto ciò che mi è rimasto, per lo meno -, i miei possedimenti a Nara e i diritti di rappresentazione de La Déa Scarlatta.
I giornali di tutto il Paese parleranno di depressione e anche Chizu ci crederà, vedendomi penzolare giù dal soffitto.
Io non la vedo così.
E penso che, in quell’occasione, mostrerò a tutti di avere la forza, pur essendo tacciato di debolezza, di apporre un punto fermo alla mia vita.
Io lo voglio.
Nessun dio metterà la parola “fine” alla mia parabola esistenziale.
Ed è esattamente così che <deve> andare.
Perché strascicare una vita se ormai essa ha trovato compimento?
Ho dato tutto quello che, come uomo, ho potuto.
Ma ora basta ed è ora di riposare perché io non diventi l’ombra patetica di me stesso o, peggio ancora, lo zimbello di uomini come Hayami.
Non sono più capace di scrivere, mi sono realizzato, non mi resta che morire.
Vogliate scusarmi, eccellenti signori del pubblico, per il messaggio di morte che sto lasciandovi. Non è una regola generale, quella che vi do in eredità.
Io sono quel che sono e non ho mai ambito a far di me un modello da seguire.
Tutto ciò di cui mi sono preoccupato è stato il mio piacere e, parallelamente, anche il vostro.
E mentre scrivevo per me solo, pensavo al di voi gaudio.
Come un novello Socrate, ritenevo di trar fuori dal vostro spirito, attraverso la nobile arte della <majeutica>, tutto ciò che le incrostazioni di una società di perfetti ha cercato di ridurre al silenzio.
La mancanza di passione, come quella di gioia smodata, mi hanno condotto a darvi qualcosa che ve li ricordasse, se non nella vita pratica, per lo meno entrando in un teatro.
Vivete, lasciatevi penetrare da esperienze di ogni sorta, uccidetevi di vita!
Come ogni animale della terra, tastate con mano i limiti del vostro essere e poi scoprite la gioia dell’autoconservazione.
Ma solo dopo.
Perché non possiate dire, al termine della vita, di aver lasciato qualcosa di intentato.
Perché non possiate affermare con amarezza di aver lasciato negli abissi il vostro <capolavoro scomparso>.
Non importa quanto tempo vi è concesso. Conta ciò che vi concedete durante il tempo.
E il tempo non dev’ essere un’ossessione perché, se sarete saggi, comprenderete che voi e voi soli possedete la chiave per gestirlo.
Chiudo il sipario, mio adorato pubblico pagante.
Con un occhio di commossa tenerezza il pensiero corre a colei che mi ha accompagnato per tutto questo tempo, pregando affinché le lacrime non segnino quel suo volto così straordinario.
Perpetua la nostra anima, Chizu, solo tu puoi farlo, ormai.

Grazie di avermi permesso di spiegare il perché di un “inganno”.
Tutti hanno sempre creduto che io fossi un pessimo uomo d’affari, un giapponese ricco baciato dalla fortuna, il cui unico merito è stato quello di saper impugnare la penna e dare sfogo ai suoi sentimenti.
In realtà, io non ho meriti né mi sento un privilegiato.
Ho fatto quel che ho fatto perché per me è scrivere è vivere. Esattamente come mangiare, riprodursi e prendersi cura di se stessi.
Vissi d’arte.
Vissi d’amor.


(Dedicato a Paco, mèntore e fonte di ispirazione di tempi andati, ma pur sempre vividi, sebbene non rimpianti)

 
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view post Posted on 24/7/2015, 13:34
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Hai dato voce a Ichiren Oozachi, personaggio complesso e per certi versi davvero contraddittorio, come del resto lo sono tanti uomini.
La sua storia con Chigusa ha molte similitudini con quella di Masumi e Maya, ci sono gli stessi tormenti e quasi le stesse basi, ma allo stesso tempo è molto diversa e su tante cose mi ha sempre lasciata un po' perplessa... in realtà, mi è sempre parso un amore a senso unico.
Spesso mi sono chiesta se davvero Oozachi e Chizu fossero anime gemelle, proprio per il suicidio di Oozachi, per questa sua apparente debolezza quasi opposta alla determinazione della signora in nero... già, opposti e dunque complementari... in fondo cosa potrebbero essere le anime gemelle se non questo? Ed è sempre vero che si riconoscono?
Maya e Masumi hanno a lungo lo stesso problema.
Molto spesso, nel dubbio ho pensato che l'amore di Chizu per il suo maestro fosse più che altro estrema riconoscenza, e sarebbe una forma d'amore anche questa, in fondo chi può dire quante forme possa assumere questo sentimento nell'animo umano?
Lui l'ha salvata dall'esistenza più infima, il minimo che potesse capitare è che si innamorasse del suo salvatore, sembra davvero un epilogo scontato... ma il sentimento non pare ricambiato, o almeno questo è ciò di cui lui cerca di convincersi, lui che sembra vivere solo per la sua arte, e dunque per se stesso... forse, in tutti i veri artisti c'è dunque un po' di egoismo? Tu tratteggi una figura complessa, forse anche complessata...
accetta un matrimonio imposto e senza amore, vive quasi con sofferenza gli incontri frettolosi e senza passione della moglie, ma non prova mai davvero a capirla ad aprirsi a lei... chissà, se lo avesse fatto, forse avrebbe potuto trovare un po' più di calore a affetto...
la mia impressione è che Ichiren non faccia mai un passo verso gli altri, in effetti l'unico atto altruistico e l'azione di portar via quella bambina di sette anni dal bordello in cui viveva, sottraendola a un destino di squallore e probabile miseria... poi vabbè, la vita di Chigusa, a parte il tempo dello splendore delle scene, sarà irta di difficoltà, ostacoli e sofferenza. Come dice Ichiren, lui ha salvato la sua pupilla dalla mediocrità dell'esistenza, perché in fondo non importa davvero cosa sei su questa terra, se sei l'ultimo nella scala sociale o il primo sulla cima, ma come ti poni di fronte alla tua esistenza, se metti passione e vita in quello che fai e se quello che fai lo fai al meglio.
Di nuovo verrebbe il confronto con Maya e Masumi e a come si pongono loro; Maya che vive per il teatro e lotta per vivere in esso, e Masumi che scopre e ritrova la passione per la vita attraverso gli occhi di una ragazzina che non ha niente e nessuno.
Per la Miuchi il suicidio di Ozachi sembra più dettato dalle circostanze e dalla disperazione di un uomo che si sente finito, nel tuo racconto sembra una scelta ponderata serenamente, l'atto di un uomo che sceglie di vivere e morire come lui ha deciso, perchè ha esaurito il suo compito, ha dato vita al suo capolavoro scomparso... e anche sul concetto di 'scomparso' ci sarebbe tutto un discorso interessante da fare ma non vorrei dilungarmi troppo. In realtà ora mi preme dire un' altra cosa; mi ricordo di quello che ci disse in accademia il mio professore di storia dell'arte sull' atto del suicidio, lui disse che era un 'atto estetico', e io mi sono spaccata le meningi su quel concetto a lungo, fraintendendolo, ma solo leggendo il tuo racconto credo di aver capito cosa intendesse.
Un atto estetico è un atto consapevole e libero, anche dall'angoscia e dalla disperazione, ed è quello che fa Ichiren qui, forse davvero per la prima volta. Ha esaurito il suo compito in vita, e lo sa, ha detto tutto quello che doveva dire dando voce alla sua anima e ha passato a Chizu il testimone che poi lo passerà a Maya.
L'arte non è un modo di sconfiggere la morte, lasciando traccia del nostro passaggio su questa terra? Non è una sfida all'eternità? Io credo di sì...
Un racconto davvero molto profondo, eppure così semplice. Grazie per averlo scritto.
 
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view post Posted on 24/7/2015, 16:01
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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Non so, in tutta onestà, cosa intenda la Miuchii per "amore di anime". Io ho dato la mia idea ed è quella che, anche filosoficamente, ho sempre sostenuto in tutti questi anni. L'arte non è mera finzione, ma rispecchia una particolare condizione dello spirito. La vita reale è contingenza e, sovente, capita di trovarsi in situazioni in cui due persone, per quanto complici, non possono realizzare la loro unione. Questa comunione, però, non va perduta, ma si sublima nel talento degli artisti, che ad essa danno voce. Chiunque abbia una qualche vocazione per le arti belle, può esprimere quella comunione nel modo più vario: Ichiren ha scelto un dramma teatrale in costume. Io non penso che i suoi sentimenti siano meno forti o più blandi rispetto a quelli di Chizu. Certo, Chizu è una adolescente, quando si vota anima e corpo al suo mentore: da ragazzi si è più facilmente portati a dichiarazioni d'amore imperituro. Fatto sta che la donna, però, non è più riuscita a vivere un rapporto di tal fatta con nessun altro: Ichiren scriveva e lei interpretava. Penso che Ichiren, da vero artista, vivesse la passione per Chizu tra le righe, più che nella realtà ed è il motivo per cui appare freddo, quasi indifferente, nei confronti della ragazza. Capita che, quando si compone, l'estasi artistica è tale da risultare sufficiente a se stessa. Scrivere un bel racconto o una bella raccolta di poesie sazia quanto un bacio appassionato. So che le mie possono essere interpretate come le parole di una esaltata, ma la penso davvero così. Se non la pensassi così, del resto, non sarei "pazza" della scrittura come sono. Anche i greci, se rammenti, hanno legato il concetto di catarsi al teatro: vivere intensamente le emozioni del palcoscenico, belle o brutte che siano, per superarle, per uscirne più forti, "purificati" appunto. Io applico questo concetto a tutta l'arte in generale e, quindi, anche all'arte mia.
 
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2 replies since 4/2/2011, 21:19   446 views
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