| Capitolo quindicesimo Eysuke Hayami, il volto impietrito di chi non è in grado di ponderare ciò che vede, era fermo davanti alla grande vetrata. In fondo, aveva sostato lì tutta la vita, con Masumi seduto al grande tavolo da pranzo intento a mangiare o a scorrere con lo sguardo attento le sue carte. Ma quel giorno Masumi non c’era. Le sue ceneri, sul tavolino basso, segnalavano un’assenza più che dolorosa. Mitzuki, vestita di uno yukata scuro, entrò nella sala seguita da Ryu Takamiya. “Le mie condoglianze, Eysuke.” Disse quest’ultimo col tono grave. L’espressione della segretaria, di solito eloquente e ironica, recava altrettanto dolore e costernazione. Il vecchio non rispose neppure e l’imperatore andò a sedersi su una poltrona: di lì a poco, giunsero alla chetichella altre dieci, venti persone, ma non <lei> né Hijiri. Lei, Maya, era ancora ad Izu e solo alla <ragazzina senza alcuna bellezza> andava il pensiero desolato di Hayami. Che cosa stava facendo? Che ne era, adesso, del suo cuore? Stava straziandosi l’anima come già Chigusa Tsukikage aveva fatto vent’anni prima? Per la seconda volta, la colpa era sua, di Eysuke. Si alzò a stento dalla sedia a rotelle e, ignorando tutti gli astanti, si rivolse a Mitzuki: “Prendi la macchina. Devi accompagnarmi in un posto. Tu sai dove, suppongo.” La segretaria annuì pronta, ma perplessa. “Te ne vai adesso?” chiese Takamiya quasi fosse lui stesso il padrone di casa. “Non è affar tuo.” Sibilò il presidente della Daito “Andatevene tutti. Ci rivedremo alla cerimonia ufficiale, ammesso abbia voglia di avervi tra i piedi.” Le persone lì convenute mormorarono malignamente e qualcuno disse che era andato fuori di testa per l’enorme perdita. Una perdita commerciale, ai loro occhi. Un’occasione perduta. E si profilava <la necessità> di trovare nuovo erede da trovare a tempo di record. Mitzuki, ignorando anch’ella ogni commento, guidò la sedia a rotelle fino all’ingresso, dove Asakura aspettava. Ma Eysuke gli ordinò di restare e di assicurarsi che gli ospiti andassero via quanto prima. “Masumi non vorrebbe che loro stessero qui.” Pensò, ma non lo disse. Salì sull’auto senza dire una parola. Non parlò lui e non parlò neppure Mitzuki. Non era necessario. Quando egli entrò nella casa di Izu, tre ore dopo, la situazione non era delle migliori e si sentiva già stremato: Maya, tra le braccia di Hijiri, pareva il fantasma di se stessa. Erano entrambi sul divano, pallidi e silenziosi. Il collaboratore ombra della Daito fece per alzarsi, ma Eysuke, con un gesto della mano, lo trattenne. “Signore…” disse comunque Karato “Sono dolente di non riceverla con adeguati onori, ma oggi non è una buona giornata per nessuno. E perdonerà la mia mancanza di educazione, spero.” Anche Mitzuki, dietro a Eysuke, non credeva ai suoi occhi. “Signorina…” disse il vecchio Hayami “No, Maya…il tuo spettacolo è prossimo. Ormai, ti sei impadronita del capolavoro scomparso. Vengo da te perché so che, se esiste una forza in grado di riportare <mio figlio> qui, sei tu ad averla. Tu e tu sola. Puoi fare il miracolo?...tu sei la dèa…” Maya si raddrizzò un poco, mantenendo, però, la mano in quella di Hijiri. “Il miracolo?” ripeté “Lei domanda <a me> un miracolo?” Eysuke si mise una mano sugli occhi come chi non riesce più a trattenersi: “Vengo da te, come ci si reca al tempio. Ho fede…ho fede…” “Pensa che io…che io possa?...” ribadì Maya con voce tremante “Viene da me! Da me! Ma perché, Hayami-san? Non era sufficiente il potere già in mano sua? Perché ostacolare il legittimo desiderio di un cuore?” E prese a singhiozzare, richiudendosi nel dolore che era solo suo. “Devi tornare a Tokyo.” Disse Mitzuki con voce dolce, ma ferma “E’ tuo dovere, Maya. Anche Ayumi sta attraversando un momento molto grave, eppure non molla. Tutti noi, compresa la Tsukikage sensei, aspettiamo che tu possa far rivivere la sua anima: l’anima della dèa. Io sono certa che è a questo che il signor Eysuke si riferisce.” Egli, come avvolto nell’oscurità, nel mentre piangeva sommessamente. “L’anima…del maestro Oozachi è confluita in Masumi…” disse tra sé l’attrice. Gli sovvenne la loro conversazione, prima dell’arrivo di Hijiri e si sforzò una volta di più di credervi con tutte le sue forze. “La luce. Ha visto la luce. Nonostante abbia perpetuato il suo errore...” E Ayumi, poi? Che problemi poteva mai avere? Stava soffrendo al par suo, ma diversamente. Fu Mitzuki a svelarle il segreto, ché lo aveva carpito con astuzia a Ajime Onodera. “Non è una semplice malattia degenerativa della retina.” Rivelò la segretaria “C’è dell’altro e la ragazza deve essere operata con molta urgenza. Vanno rimossi dei coaguli e non solo, temo.” “Dèi…” esclamò Maya “Che cosa è mai questo?” “Non puoi fare un torto come questo ad Ayumi.” Disse Mitzuki “Devi tornare adesso e recitare. Fino in fondo. Mettendoci tutto il tuo cuore.”
*** Masumi vive. Fu ciò che Maya si ripeté fino a quel giorno. E, salendo sul palcoscenico, aveva porto la mano a Sakurakoji – trasfigurato anch’egli nel suo aspetto abituale - e immaginato di dare la mano a lui, al suo amato. Masumi viveva. In ogni parola del capolavoro scomparso, un libro sacro portatore di speranza per ogni amante deluso, egli riemergeva con forza. Karato Hijiri, seduto al posto S che sarebbe spettato al donatore di rose scarlatte, adempì al suo compito fino all’ultimo. Silenzioso e appassionato, aveva ordinato che a Maya venisse recapitata una corona di rose scarlatte. E un biglietto scritto di pugno da Masumi era nel mezzo del grande bouquet: quel messaggio era stato redatto a poche ore dall’incontro mai avvenuto a Izu.
“Amor mio, di vero cuore e certo del tuo trionfo, attendo di alzare il calice insieme a te. Adorata, piccola donna, in questo giorno, apro il mio cuore come non ho mai fatto. Ti amo. Sono tuo per sempre.”
Sakurakoji, ritto davanti allo specchio, si sistemò lo yukata sulle spalle, quindi, sollevato un lembo delle fasce sottostanti, nascose il delfino con la pietra azzurra. I capelli, acconciati come da copione, erano stati tirati indietro, ravviati in una coda bassa. Lo sguardo era serio e composto, tipico di chi si gioca non solo la carriera, ma la vita stessa. E Maya rappresentava non soltanto la sua preziosa partner artistica, ma anche la donna di cui era innamorato da sempre. Non doveva deludere né se stesso né lei. Almeno sul palcoscenico, si ripeteva, io e lei siamo anime gemelle. Lei avrebbe visto una volta di più il suo cuore sincero. Doveva pur valere qualcosa, ai suoi occhi. Anche se non era Masumi Hayami, i suoi sentimenti <dovevano> giungere al suo cuore poiché erano altrettanto intensi e anche lui, al pensiero di perdere Maya, si sentiva assalire dall’ansia. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di sostenerla, pur di asciugare le sue lacrime. Il loro sodalizio artistico non poteva essere fine a se stesso. Vide Genzo Otori bussare alla porta semiaperta del camerino. Anch’egli era elegantemente abbigliato, come si confà alle occasioni speciali. E quella era decisamente un’occasione speciale. “Io, come Genzo…” balbettò. Quelle parole giunsero alle orecchie dell’anziano, che sorrise. “Ho molto apprezzato la sua interpretazione di Isshin, nella Valle.” Arrossì Sakurakoji “Lei e la signora Tsukikage eravate in perfetta sintonia.” “Sul palcoscenico,” diss’egli ispirato “io e la sensei siamo un’unica cosa, la stessa voce. Esprimiamo entrambi ciò che il maestro Oozachi ha inteso lasciare al mondo.” Yuu si mosse verso di lui, incerto: “E, mi dica, questo le è bastato?” Deglutì, il respiro era un poco affannoso. “Non c’è stato onore né gioia più grande.” Rispose l’anziano, che aveva colto perfettamente il senso della domanda “Vivere giorno per giorno con lei, fare ciò che un uomo innamorato fa per la propria compagna mi ha dato più gioia di un comune matrimonio. Il mio cuore è irrimediabilmente di Chigusa Tsukikage. Lei non mi ha mai ricambiato: del resto, come avrebbe potuto? La sua unione con Ichiren era stata un fatto.” Lasciò quelle parole in sospeso, come chi fa trapelare un barlume di speranza nel cuore di un innamorato bisognoso di conforto. “Ora, Maya Kitajima elaborerà il suo lutto, come la sensei Tsukikage non ha avuto modo di fare. Molti pensano che quello carnale sia un legame semplicemente fisico: i giovani vivono il sesso in modo spensierato, senza riporvi significato alcuno. In realtà, però, esso è ciò che, più di ogni altra cosa, realizza l’originaria unità dell’anima.” E fissò Sakurakoji, che era rosso sino alle orecchie: era davvero il timido Genzo a parlare? L’uomo solitario che non aveva occhi che per lei, la sua preziosa sensei? “Cosa intende dirmi, signore?” chiese con un filo di voce il ragazzo. “L’unione tra Maya e il signor Hayami non ha mai avuto luogo.” Disse l’altro “E nessun dio, per quanto geloso possa essere, può desiderare che una propria creatura sprechi la sua vita soffrendo. Il signor Masumi, come il maestro Oozachi, non ha avuto fede, ma Maya, quella fede, l’ha e ne verrà fuori con il sorriso della festa perché scoprirà di poter essere felice ancora una volta.” “Che cosa significa?” chiese Yuu scioccato. “Le anime gemelle sono destinate a reincontrarsi. Anche tu ne hai una, da qualche parte nel mondo. Ma non è detto che quell’incontro appartenga a questa vita, ragazzo. E, ad oggi, sei obbligato a vivere la vita che hai. Come lo è Maya. Io la conosco da quand’era piccina: il legame tra voi è sempre stato molto forte e, ora, siete Akoya e Isshin. Ciò, per chi venera l’arte come fosse il libro degli dèi, varrà pur qualcosa.” “Mi sta dicendo di non perdere la speranza? …che c’è un futuro per Maya e me?” Genzo indicò il delfino nascosto dietro al colletto. “Aveva già fatto un passo verso di te.” Rispose criptico. “Maya non mi ha mai rifiutato…” disse tra sé Sakurakoji.
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